Domani 16 marzo, alle 17, s’inaugura la mostra di Evan De Vilde, "La memoria dell’arte, l’arte della memoria", a Palazzo Gravina (nella Biblioteca della facolt  di architettura), via Monteoliveto 30, Napoli. Di seguito l’intervento di Antonio Filippetti dalll’introduzione del catalogo che accompagna la mostra.

Nella societ  della globalizzazione “mordi e fuggi” tutto avviene “in tempo reale”, vale a dire che ogni evento viene vissuto e consumato nello spazio della propria durata che è per sua natura occasionale o passeggero. Accade cos che anche la fruizione dell’arte finisce per diventare uno stimolo occasionale, incapace di riflettere e far riflettere.
L’operazione che sta portando avanti Evan De Vilde contrasta con questo assunto in maniera radicale giacch presuppone un esercizio di rielaborazione e sintesi di canoni artistici universali, in una dimensione spazio-tempo senza confini. L’artista infatti ha deciso di coniugare l’antico con l’attualit , andando a scovare ogni volta reperti di un passato archeologico, spesso del tutto dimenticati o maltrattati, per inserirli in una temperie contemporanea attraverso l’abbinamento per cosi dire di oggetti del suo e nostro tempo. De Vilde in questo è un operatore insolito ed originale nel panorama artistico. Potremmo infatti definirlo un ostinato archeologo (o forse perfino speleologo) che va a scovare nei relitti dell’antichit  i resti di una esperienza dimenticata e li riaccende tanto per dire con una sensibilit  tutta presente e soprattutto in grado di definire un tempo “contraddicendolo”, ovvero offrendoci uno spaccato culturale ed esistenziale che al di l  del fascino che emana ci impone un momento di assorta ma fruttuosa riflessione.
L’operazione di De Vilde sortisce un duplice risultato. Diremmo un effetto ricognitivo e un altro di straniamento.
Sulla prime ci l’opera sulla quale l’artista si esercita può suscitare nello spettatore/fruitore una difficolt  appunto d’interpretazione,la quale nasce fondamentalmente dalla difficolt  di decifrare il contenuto o l’oggetto del suo lavoro, abituati come siamo a riconoscere e capire unicamente le risultanze dei nostri ambiti quotidiani. Ma quando poi l’occhio scava più a fondo ecco sopraggiungere l’effetto straniamento, vale a dire lo stupore (ma poi anche la consapevolezza) di trovarsi di fronte ad un logos remoto che si combina efficacemente con la nostra prassi ed anzi la riaccende di nuovi significati e impreviste energie. L’antico vaso Ming ad esempio non è soltanto un reperto di uno scolorito passato, scovato magari per caso ed a stento riconosciuto, ma una presenza viva, capace di colloquiare felicemente con il libretto rosso di Mao, per ricordarci se non altro che un unico filo collega l’umanit  di tutti i tempi. Allo stesso modo la scansione delle bottigliette prodotte dall’industria multinazionale e destinate all’ effimero e perituro commercio della globalizzazione sembra acquistare nuova vita e ritrovata dignit  nel confronto/scontro con l’anfora greco-romana. Ma è forse nella riproposizione degli antichi manoscritti riconquistati attraverso gli “strappi” del tempo che l’operazione di De Vilde si precisa nella sua struggente innovazione. Qui si ricostruisce il senso della scrittura, del logos appunto riscoperto ma più ancora”ritrovato” nel suo valore essenziale, nel suo significato più vasto, tenendo presente appunto che il termine si ricollega al verbo leghein che significa conservare, raccogliere.
A questo punto l’osservazione delle opere di De Vilde diventa più chiara, l’interpretazione si fa meno oscura e per cos dire meno personale l’intento è quello di riappropriarsi della memoria passata per continuare un certo discorso e per poter costruire un’ipotesi di futuro, nella consapevolezza “vichiana” che senza memoria non ci potr  mai essere alcuna premessa di rinascita per i tempi a venire.

In foto, un’opera di Evan De Vilde

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