Il cartello recitava: “Benvenuti a Napoli, il primo parco antropico del mondo”. I caratteri cubitali promettevano meraviglie iridescenti sulla più grande sconfitta della civilt .
Erano passati, ormai, più di vent’anni dall’ultima, catastrofica, crisi dell’immondizia. Governi caduti, inquisiti illustri, commissari speciali, specialissimi, extra-large ed in offerta speciale, non c’era stato nulla da fare: la crisi era irrisolvibile.
Fu cos che il commissario unico per l’Italia, nominato dalla Comunit  Europea, prese la dolorosa decisione: chiudere Napoli.
Lo sgomento prima e la ribellione poi dei suoi abitanti non servirono a nulla se non ad ottenere un unico provvedimento: chi vuol rimanere resti ma nulla potr  uscire dal territorio, n uomini n cose, tanto meno la monnezza’.
Il commissario tedesco usò proprio quella parola, monnezza, per sottolineare il distacco di tutta la comunit  di fronte all’incivilt  dei napoletani. La speranza di fondo, però, era che resistessero solo in pochi all’ultimatum governativo e che questi ultimi non sarebbero sopravvissuti alla camorra, all’indolenza, ai mandolini, alla monnezza, appunto.
Eppure, ormai nel 2030, ci si era dovuti arrendere allo stato dei fatti: non solo erano fuggiti in pochi ma quelli che erano rimasti sopravvivevano senza aiuti, senza una guida, da soli insomma, e dio solo sapeva come.
Fu consentito, cos, l’accesso a gruppi circoscritti di visitatori, purch non interferissero con i locali; come in uno zoosafari autobus blindati trasportavano i turisti attraverso le strade ritenute meno pericolose. Da Capodimonte a piazza Cavour e ritorno, attraverso altari di immondizia maleodoranti, i turisti cercavano di intravedere le rare ombre sperdute che si aggiravano tra i vicoli nascosti per spiare quegli esseri inscatolati.

La mamma, napoletana di origine, gli aveva sempre cantato le meraviglie della citt  natale e cos aveva approfittato dell’apertura insperata per poter capire cosa volesse dire essere napoletano.
Ma il tour non lo convinse, quelle rovine non appartenevano ad un sogno, cosa c’era da rimpiangere?
Stavano per uscire dal recinto quando il bus si fermò per un guasto. All’apertura delle porte guardie armate si disposero all’esterno per respingere assalti che non ci furono ma bastò un attimo per concedergli la possibilit  di scappare e cos si addentrò nel misterioso ambiente. Attraverso le parti più antiche che esponevano ancora i santi del passato, incontrò sguardi fugaci e ritrosi che si nascondevano al suo passaggio e segu i pendii che accompagnavano i suoi passi.
Il sole stava abbandonando la consegna e la paura del suo gesto lo stava prendendo ma la ricerca del perch lo sopraffaceva. Perch erano rimasti? Dov’erano tutti?

Le risposte non tardarono ad arrivare.
Una volta superate le prime barriere putrescenti, quelle più alte, antiche, sembrava che la citt  a poco a poco abbassasse il velo per mostrarsi nella sua nudit , mentre il movimento delle ombre prendeva forma nei primi esseri in carne ed ossa che gli si avvicinavano con circospezione.
Vestiti con casacche di tela dal lontano candido ricordo, gli si accostarono una decina di individui dal viso scuro, imbrattato, nero. Si assomigliavano tra loro e tutti gli ricordavano qualcosa, qualcuno visto in un passato profondo e intimo come quei ricordi che fanno parte del codice genetico dell’anima.
Il suo frugare nella memoria faceva a cazzotti con la paura che l’avanzare di quelle figure, mano a mano, gli incuteva; un po’ piegati, con gesti dinoccolati, assumevano forme strane nel loro incedere, come marionette di un teatrino … ma si, come quel burattino che la mamma gli mostrava sempre:

– “Vedi? Questo è Pulcinella, il costume con cui Napoli si presenta al mondo. E’ vestito di bianco, puro come la bellezza della citt  che rappresenta, ma ha una maschera nera, come le cose più brutte di cui Napoli è capace. Bianco e nero, però, si mescolano ma non si fondono. La nostra citt  non sar  mai grigia e un giorno, forse, potr  liberarsi del vestito e della maschera per mostrarsi a tutti com’è per davvero.”

Nella sua mente di bambino quelle parole avevano ben poco senso ed ora che gli erano appena riaffiorate per trovare una spiegazione, ormai, pulcinella o no, quegli esseri gli erano praticamente addosso.

– “Chi s? Che bbuò? A ro vien’?? VATTENN’!!!”

Ebbe paura; cercò disperatamente una via di fuga e, indietreggiando, supplicò:

– “Vi prego, non fatemi del male! Ho sbagliato, perdonatemi. Se mi lasciate andar via non dirò nulla a nessuno, vvò ggiuro!!”
– “Fermi!” Ordinò quello che sembrava il capo: “Che hai detto? Ripeti”

Tentennò un attimo ma poi ripet:

– “Lasciatemi andare, vi prego, vi supplico”
– “E giuralo!”
– “O’ ggiuro”
– “Allora avevo capito bene. Dove hai imparato il napoletano?”

Seppure stupito ma rinfrancato dichiarò senza esitazione le sue origini e bastò questo per tramutare i pulcinella da demoni in angeli.

– “Guagliù,            6                  «    oè è á«sptLlibrined dd dpG7e:EèHlèNO» OJe
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                                                       î           î       è      è î                        î         î    è  î        è de’ nuost’, chiammat’ o capitano”

Nel mormorio generale una voce più alta delle altre pronunciò un nome che fu seguito, dopo pochi istanti, da un uomo di bella presenza, ben vestito e dal passo sicuro, sbucato chiss  da dove ed in un attimo gi  prossimo al ragazzo.

– “Benvenuto a Napoli. Io sono Salvatore, comandante del presidio di via Toledo, con chi ho il piacere?”
– “Gennaro Casiraghi, … piacere mio.”
– “Chiedo scusa per l’accoglienza ma da quando hanno preso coraggio abbiamo dovuto istituire dei corpi di guardia per evitare intrusioni e curiosit . Che il mondo resti pure al di l  dell’immondizia, ne ha pieno titolo e diritto, ma ci deve lasciare in pace.”

Dicendo queste parole fece un gesto d’invito a Gennaro ed iniziarono ad addentrarsi in una citt  che, passo dopo passo, si rivelava sempre più pulita e vitale.
Scavalcati i primi baluardi maleodoranti, infatti, non solo non si intravedevano più cumuli di spazzatura ma la stessa strada imponeva un nitore sorprendente. Come se non bastasse, poi, lo squallore desolato dell’abbandono fetente aveva lasciato il posto alla brulicante attivit  di una gran folla dall’aspetto normale e sereno.
Salvatore si accorse dello stupore di Gennaro e lo scosse immediatamente:

– “Embè? Che cos’è quella faccia? Credevi davvero di trovare una enorme discarica di uomini e monnezza? Noi non siamo rifiuti, siamo stati rifiutati, il che è ben diverso!”

Gennaro cercò di scuotersi ma, con le uniche parole che emise, riusc solo a chiedere come avessero fatto a far sparire l’immondizia.

– “E che importanza ha?” rispose Salvatore “Del resto non lo so di preciso neanche io; so solo che c’è un’equipe di specialisti che fa cos bene il proprio lavoro che dobbiamo fare attenzione a conservare un po’ di immondizia per alimentare i roghi al confine, sennò sarebbero capaci di venirci ad inguaiare un’altra volta!”

Gennaro era rapito dalla nobilt  delle prospettive che gli si rivelavano ad ogni angolo: come arterie in un corpo, le strade conducevano la loro linfa umana attraverso l’intrico dei vicoli, vasi capillari di un essere unico e vitale liberato dalle placche sclerotizzate e maleodoranti degli anni ignavi. Ma l’irritazione alle parole di Salvatore sopraffece la sorpresa dell’audacia di Spaccanapoli, della nobilt  di via Toledo, della maestosit  della Galleria, dello squarcio verso il cielo che prometteva, in lontananza, piazza Trieste e Trento, e si fermò di scatto:

– “Ma come, voi avete risolto il problema dei rifiuti e non avete chiesto di abbattere il recinto, di farvi riaccettare da tutti ??”

Salvatore non rispose subito. Continuò a camminare con lo sguardo puntato in avanti, come se non avesse sentito la domanda.
Poi, dopo alcuni momenti, girò il capo con lentezza misurata:

– “Non so cosa questa terra, questa citt  abbiano di diverso; certo è che diversi lo siamo anche noi. Con queste mura, queste strade, siamo un corpo spugnoso che ha assorbito storia e popoli. Li abbiamo inghiottiti, digeriti, ce ne siamo nutriti plasmandoci intorno a loro. Per secoli abbiamo accolto, ospitato, subito, ci siamo fatti trapassare da parte a parte, nella nostra onnivoracit , senza limiti n distinzioni ma poi …”

Salvatore si interruppe. Gennaro si era piantato a bocca aperta in un punto ben preciso, quasi in piazza del Plebiscito, da dove poteva vedere, semplicemente ruotando la testa, il colonnato di San Francesco di Paola, Via Toledo, Piazza Trieste e Trento, la Galleria, il San Carlo, Palazzo Reale e, in uno squarcio in fondo, la striscia blu di un mare che sapeva di rosso tramonto.

– “Come vedi questa citt  rapisce. E’ uno strano organismo, sazia i tuoi sensi per potersi cibare di te. Coraggio vieni.”

Salvatore si volse verso via Chiaia, in cui gli sguardi si rinchiudono nella prospettiva murata delle case sigillate tra loro. Continuarono con passi lievi, mescolandosi alle persone che apparivano stranamente familiari, come se le avessero conosciute da sempre, come se anche loro appartenessero a quel corpo molle, trasfusi nelle sue vene, e a Gennaro le parole di Salvatore incominciarono ad apparire sempre meno strane:

– “Continua, ti prego” gli disse.
– “C’è poco altro da dire. Sopportammo crisi a ripetizione ma non accettammo di esserne accusati. Certo avevamo le nostre colpe ma i dottori che si affollavano al nostro capezzale preferirono l’eutanasia alla responsabilit  e noi non ci stemmo. Come anticorpi combattemmo per la sopravvivenza del nostro corpo, la nostra. Ce l’abbiamo fatta senza medicine presuntuosamente miracolose ma abbiamo imparato che non si può più inghiottire di tutto, cos abbiamo deciso di mantenere il blocco, niente più bocconi indigesti!”

Ormai erano giunti sul lungomare. In quel punto di via Caracciolo si poteva vedere come la costa si protendesse amorevolmente verso la placida melassa amaranto del mare, pronto per la notte.
Alle loro spalle, Castel Sant’Elmo incombeva dall’alto del Suo Vomero, comandando al Castel dell’Ovo            6                  «    oè è á«sptLlibrined dd dpG7e:EèHlèNO» OJe
tnRpeKKKYT da un lato e Posillipo dall’altro, di non stringersi verso Capri: troppo affetto può far male.

– “Cos’è questo frastuono?” disse Gennaro mentre si ridestava dal centro di quell’abbraccio.
– “Sei fortunato” rispose Salvatore “stanno arrivando i carri della Piedigrotta.”

La festa negata, cos la chiamava sua madre, non perch l’avessero tolta ma perch avevano tolto la voglia di festeggiarla. Gennaro era stupito: quello non era uno spettacolo per turisti, era una festa vera e propria che sgorgava dalla gente come un umore benefico.
Le prime avanguardie danzanti gi  erano passate, il corteo stava arrivando; luci e colori si confondevano in un acquerello d’allegria che apparteneva alla cartolina dei suoi ricordi tramandati e la prospettiva delle allegorie era preceduta da figure multicolori di tutti i generi, condotte da una sagoma bianca su cui Gennaro non ebbe dubbi:

– “Quello è Pulcinella!” gridò più per sentirsi parte di quella gente che per sovrastare il frastuono. “Ma … ha solo la tunica, non ha la maschera!”

Salvatore lo guardò un po’ stupito e, quasi tra s ma con naturale sicurezza, disse:

– “Quale maschera? Pulcinella non porta nessuna maschera.”

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