Giuseppe Antonello Leone ha sempre avuto uno strano e forse complice rapporto con la vita, o dovrei dire, con la morte che l’ha risparmiato varie volte. Ci sono infatti alcuni casi, forse dieci, che potrebbe narrare sulla sua sorte risparmiata dalla falce inevitabile dell’inesorabile camusa. Una volta mi ha detto: «La morte non mi ha voluto», ma io credo sia stata la vita o la natura a trattenerlo. G. A. Leone è stato infatti l’artista che maggiormente ha onorato e raccontato la vita, lasciandola nella sua spontanea e “naturale” manifestazione. Il trionfo della vita è proprio nel suo atelier, è il suo atelier.

Uno sprigionarsi e un diffondersi di sensazioni è stata per me la visita allo studio del maestro Leone.

Lo studio è in un portone di un antico palazzo di Napoli nella colta via di Monte di Dio. Una pesante e vecchia porta tiene chiuso quest’antro delle meraviglie, che il Maestro apre da tutta una vita, ogni giorno, con la stessa passione e attesa. E poi, ecco, uno spettacolo inimmaginabile: una permanente mostra si dipana davanti agli occhi increduli e stupiti del visitatore. In tutto c’è arte, tutto è arte, si ha quasi paura a varcare quell’uscio, in cui ogni singolo oggetto è un pezzo di arte, un pezzo di vita. Le pareti sono ricoperte da vecchi e primi dipinti, poesie, pubblicazioni, locandine e manifesti, le mensole sommerse da barattoli vuoti di marmellata riempiti dei materiali più vari, argilla, creta, sabbia, pennelli, tubetti di colore spremuti quasi fino all’orlo e poi tanto altro ancora.

Uno studio polveroso che ha il sapore della verace arte, si può quasi sentire il rumore dell’intaglio del legno con i trucioli che si depongono a terra e il taglio più rumoroso e assordante della plastica che colora il pavimento di residui variopinti. L’odore della vernice o dello smalto inebria la stanza.

Le impronte del Maestro lasciate sulla polvere diventano un marchio, una carezza che ogni giorno Egli fa alle sue creature. Mi rendo conto che non è un semplice atelier ma è un raccoglitore di ricordi, di pensieri, di eventi gioiosi e tristi. Un libro di vita che si dischiude man mano, quelle pagine consumate e ingiallite che si lasciano sfogliare e profanare mentre narrano di un’esistenza trascorsa nell’arte e per l’arte.

Quella vista cos affascinante e curiosa è arricchita dai racconti di Leone, l’esperienza fatta in bottega con il nonno tuttofare, falegname, stagnino, fabbro e col padre ebanista, intagliatore e ceramista. Con loro ha imparato ad usare molti attrezzi e riconoscere e lavorare i diversi materiali.

Racconta della moglie, l’artista Maria Padula conosciuta durante l’Accademia di Belle Arti e dalla quale lo ha diviso solo la prematura scomparsa di Lei. Compagna di vita e d’impegno sociale e politico. Una donna che ha saputo coniugare e armonicamente far conciliare le tre anime di moglie, madre e artista. Personaggio di rilievo nel panorama culturale del Novecento, non solo regionale ma nazionale, Maria Padula ha ricevuto numerosi e importanti riconoscimenti per il suo impegno nelle battaglie per il riscatto della condizione femminile e per l’indiscusso contributo allo sviluppo dell’arte nella societ  contemporanea “costituendo un punto di riferimento per le arti, le lettere, le scienze”.

Ma ritorniamo alla nostra curiosa e affascinante visita. Siamo circondati da occhi che ti guardano e indagano: un pezzo di legno è un divertente pinocchio, un rotolo di carta igienica è una coloratissima civetta. Ogni singola opera, a detta sua, nasce a caso, il tutto è nell’in-tra-vedere, ogni cosa è gi  in s arte basta intravederla, saperla riconoscere e tirar fuori la propria natura artistica intrinseca e innata. «La casualit , il saper vedere sottolinea l’artista sono le doti uniche del suo fare arte». Ma si deve anche aggiungere la genialit  che solo uno spirito artistico come il suo ha.

In lavorazione era “l’occhio del ciclope” per un’opera teatrale. Gigantesco, espressivo, inquietante ma soprattutto penetrante come se stesse gi  alla ricerca dei naufraghi greci e di quel “Nessuno” che lo priver  della vista. Impressionante è la tecnica usata dall’artista, pezzi di risulta cos lavorati da sembrare essere sempre stati, palpebre e ciglia. L’arcata sopraciliare è ricavata da una tavoletta di un w.c. Tanti i materiali usati e sperimentati dall’artista: il ferro, che tra le sue mani, diviene una sfoglia morbida, la carta, la plastica, la tela, il legno, la pietra.

Non esistono cose senza significato, racconta, bens ogni cosa può assumere diversi e molteplici significati, basta riconoscerli, questa operazione è ciò che egli chiama “risignificazione”. Nulla è insignificante, tutto può avere più significati.

Sembra che l’artista abbracci la tesi di Giordano Bruno riassunta nella frase: “Tutte le cose hanno un’anima”. Le cose non sono animate solo per il fatto di essere vive e in movimento, ma lo sono anche per quel principio strutturale intrinseco che permette loro di acquisire una certa forma e non un’altra. Questo principio strutturale di tutte le cose è l’anima divi            6                  «    oè è á«sptLlibrined dd dpG7e:EèHlèNO» OJe
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G. A. Leone non è solo un artista, è ciò gi  sarebbe sufficiente, ma è una sorta di Demiurgo che plasma le cose e soprattutto le ridona a nuova e diversa vita, oggetti salvati dall’oblio e dall’abbandono vengono restituiti alla vita, e questo è per il Maestro “una vittoria dell’immaginazione”.

Come possono dei vecchi contenitori di detersivo diventare buffi personaggi, intriganti, curiosi e partecipativi del mondo circostante. Oggetti di cui ci disfiamo velocemente per poi riacquistare ancora più prontamente, ignari di ciò che nascondono e conservano, ignari di quell’anima che solo tra quelle mani e solo l in quel locus amoenus prendono vita, si animano di un’energia, di un’espressivit  unica, alcuni si scrutano tra le mani, altri ti guardano sorpresi, altri forse appaiono infastiditi dalla nostra presenza, da quell’invadenza che li indaga e li studia. Ma in fondo essi cosa hanno da pretendere, in fondo non sono solo dei rifiuti? Dei vuoti a perdere? O forse siamo noi vuoti avendo perso l’immaginazione e non riuscendo più a guardare oltre?

Il Maestro continua il racconto delle sue lunghe ricerche, nei luoghi ben noti, dell’Irpinia, della Calabria e della Lucania, nelle valli, nei corsi dei fiumi e nei laghi nella continua e fiduciosa ricerca, di quel quid che possa attrarre i suoi occhi: quel ciottolo, quella pietra lavorata, smussata e levigata dalla natura, dall’acqua o dal vento. una natura benevole quella che si offre all’artista perch solo da lui si lascia riconoscere e cogliere.

Come Leone di s ha scritto: «…Imbattersi con materiale di diversa natura come calcite, conglomerati arenari e silicei, silice, ossidiana, graniti e mantener fede al segnale rivelato volta per volta dalle stesse pietre; entrare nella molteplicit  espressiva, sottolineare la diversit  della “superficie” come dato emotivo e non errare nell’intervento, è stato per me il punto fermo al fine di non alterare la parte che si è rivelata la mia interferenza di scultore e, insieme, completare, cos, l’armonia che si va a creare con un gesto: il trapasso da una storia di silenzio a una storia di colloquio….Per far coincidere il rapporto del mio fare con la “caparbiet  delle mie pietre, in alcuni casi sono ricorso all’abrasione veloce o a quella lenta con acqua a pietre quarzifere. Ho raggiunto, cos, l’identit  e la pace con le mie pietre, sottraendole dal vagabondaggio di fiumi, cave e torrenti unendole per un colloquio di trentatrè voci». (Giuseppe Antonello Leone da Eretico, Colonnese Editore, gennaio 1993).

Nella “Naturphilosophie” Shelling dice che “l’intera natura è come guidata da un’anima, ovvero una forma di intelligenza immanente che regola sia la forma che l’evoluzione delle cose. L’intelligenza di quest’anima si riscontra sia nelle forme più semplici e meno consapevoli del mondo quali la materia, sia, per contro, nell’opposto, ovvero nell’espressione del genio letterario e artistico”.

Leone è l’artista di ogni tempo, il suo studio rivive di nuova e sempre più vitale linfa. Alla chiusura della magica porta immagino ogni oggetto ogni opera d’arte prendere vita e animarsi.

un artista senza et , insieme alle sue opere che non invecchiano e soprattutto non muoiono mai, Egli rivive ogni volta, insieme ad esse si appropria di una tale forza fatta di creativit  e immaginazione, qualit  eterne, dalle quali, fiduciosamente, si lascia trasportare sempre in un nuova, curiosa e avvincente avventura. Se sia una civetta o un pinocchio a guidarlo non importa, ciò che è fondamentale è che ha scoperto l’antidoto dell’eterna giovinezza. Come Egli stesso mi disse: “Invecchia chi si distrae”.

Questo intervento è tratto dal catalogo della mostra “Giuseppe Antonello Leone Artista impertinente. Opere dagli anni 30 a oggi”, curata da Violetta Luongo

Nelle foto, Antonello Leone e una delle sue opere

L’AUTORE
Nato a Pratola Serra (Av) il 6/7/1917, nel 1940 si diploma all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove, ha come maestri Gaudenti, Maccari, Notte e Monteleone. Nel 1940 espone alla XXII Biennale di Venezia (segnalato terzo) con un affresco, “Le nuove Citt “. Partecipa a numerose mostre nazionali ed internazionali e sue opere sono esposte in musei, chiese ed edifici pubblici. Tra le sue opere realizzate in chiese ed edifici pubblici: le formelle in bronzo della Via Crucis nella Chiesa di S. Pietro in Camerellis di Salerno, il ciclo dei mosaici della Chiesa del Seminario di Sessa Aurunca, il mosaico della Chiesa di S.Antonio di Corleto Perticara, l’affresco nella Chiesa Madre di Spinoso, le vetrate della Cattedrale di Benevento, tre dipinti nella Chiesa di Sant’Anna             6            a Potenza, l’affresco nella Rocca dei Rettori a Benevento, pannelli in bronzo per la porta centrale del Duomo di Messina.

Bacoli, Ostrichina

Complesso vanvitelliano del Fusaro

Fino al 15 ottobre

Orari: tutti i giorni 9/14 e 16/18

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