Napoli è rimasto per me un certo paese magico e misterioso
dove le vicende del mondo non camminano ma galoppano,
non s’ingranano ma s’accavallano,
e dove il sole sfrutta in un giorno quello che
nelle altre regioni tarda un mese a fiorire.
Ippolito Nievo

Gallerie d’Italia di Napoli
Donne nella Napoli spagnola. Un altro Seicento
Fino al 22 marzo
Dopo la prima parte, di seguito pubblichiamo il secondo intervento di Carmine Negro sul contributo delle donne allo sviluppo artistico del “secolo d’oro.” documentato nella mostra in corso.

San Carlo Borromeo in estasi davanti alla croce (1611)
Olio su tela 250×160 cm
Napoli Chiesa di San Carlo alle Mortelle Fede Galizia
In alto, Adorazione dei re magi (1610)
Olio su tela 240×171 cm
Napoli Convento di San Pasquale a Chiaia. I
Memoria e storia: un dialogo necessario
La ricostruzione del passato affascina perché intreccia due dimensioni fondamentali: memoria e storia. Spesso confuse, agiscono in modo diverso ma si completano. La memoria è ricordo vissuto, tramandato, emotivo; la storia è analisi critica, documentata e contestualizzata. Insieme, offrono una visione più consapevole di ciò che è stato.
Nel caso delle pittrici napoletane Mariangiola Criscuolo e suor Luisa Capomazza, la memoria ha avuto un ruolo centrale nel tramandarne l’esistenza artistica. Le loro biografie, spesso romanzate, ci sono giunte attraverso racconti come quelli di Bernardo de Dominici, nei quali realtà e mito si intrecciano. La scarsità di fonti certe e di opere attribuite con sicurezza rende difficile il lavoro dello storico, chiamato a distinguere il vero dal verosimile.
Mariangiola Criscuolo[1] (Napoli, 1548 – 1630), attiva nel XVI secolo, è ricordata come una donna virtuosa e talentuosa[2], ma nessuna opera le è attribuita con certezza: la sua figura resta sospesa tra memoria familiare e tradizione artistica[3]. Suor Luisa Capomazza[4] (Napoli, ca. 1600 – 1646), vissuta nel XVII secolo, ha lasciato alcune opere documentate, come il San Francesco che riceve le stimmate del 1621, ma anche la sua biografia è filtrata da narrazioni idealizzate[5].
Questi esempi mostrano come la memoria possa conservare tracce preziose, ma anche distorcerle e idealizzarle. La storia, invece, cerca di verificarle, contestualizzarle e dare loro senso, pur consapevole dei limiti imposti dalla mancanza di fonti. In assenza di documenti certi, la memoria diventa un ponte verso il passato, spetta però alla storia interrogare la solidità di quel ponte e costruire una narrazione fondata.
Le figure di Criscuolo e Capomazza sono emblematiche: ricordano la fragilità della presenza femminile nella storia dell’arte e la necessità di un lavoro critico per restituire voce e dignità a chi è stato dimenticato o trascurato. Solo così la memoria diventa storia, e la storia memoria consapevole.
Fede Galizia: rigore e grazia
Il percorso espositivo della mostra si apre con la tela: Adorazione dei re magi di Fede Galizia (1610), destinata all’altare della quinta cappella di destra della Chiesa di S. Anna dei Lombardi, costruita nel 1581 da Domenico Fontana, vicina a quella odierna che ha lo stesso nome, e che allora si chiamava S. Maria di Monte Oliveto[6].
La strutturaaffidata alle cure della “Natione Lombarda[7]”, subì un crollo nel 1798, e fu quasi distrutta dal terremoto del 1805, che causò anche la perdita di tre opere di Caravaggio qui custodite: la “Resurrezione”, “San Francesco in Estasi” e “San Francesco che riceve le Stigmate”. Dopo l’espulsione degli Olivetani da parte di Ferdinando I, accusati di simpatie filofrancesi, la chiesa passò al demanio e successivamente all’arciconfraternita dei Lombardi, rimasta senza dimora. Nel1826 i Lombardi cambiano la denominazione da “Santa Maria di Monteoliveto” in “Sant’Anna dei Lombardi”[8].
Il committente dell’opera fu il mercante fiammingo Baldassare Noirot, “pigionante et benefattore[9]” di S. Anna, patrono della quinta cappella di destra tra il 1609 e il 1612, anno della sua morte, intitolata al culto “de’ tre Magi”. Originario di Anversa, Baldassare legato da rapporti familiari e lavorativi ad alcuni tra i più importanti mercanti dell’epoca si trasferisce a Napoli dal 1591 come agente del commercio dei tessuti nel sud della penisola. Giulio Cesare Capaccio lo descrive come “un gentil homo il più nobile, il più cortese, il più degno che di questi di nationi forastiere habitassero in Napoli”, ma soprattutto “una persona a chi Napoli deve assai” per aver aiutato la città in occasione della carestia del 1607. Per soccorrere la popolazione, attiva tutta la sua rete commerciale e realizza un “negotio mostruoso” che garantisce l’arrivo in città di ben centoventiquattro navi di granaglie[10].
Il dipinto, recuperato solo di recente, non è in perfetto stato di conservazione: un’abrasione sotto il gradino sul quale poggia il piede della Vergine ha quasi cancellato la firma della pittrice e la data di realizzazione, fortunatamente registrate negli inventari dell’Ottocento.
In primo piano compaiono la Madonna con il Bambino e San Giuseppe, sullo sfondo un antico edificio in rovina. Ai lati e di fronte i tre Magi; quello a sinistra è ritratto mentre si toglie il turbante e porge una coppa a navicella. Quello più anziano, posto sul davanti, ha vicino ai piedi uno scrigno di legno, con ai lati specchiature ovali, che contiene diverse medaglie; il suo turbante è sostenuto dal giovane paggio situato dietro di lui. Il Mago di destra di pelle nera regge un recipiente e guarda verso il basso. I Magi sono raffigurati con grande abilità: la struttura dell’impianto e la resa delle stoffe e dei colori conferiscono all’opera un’atmosfera di silenziosa perfezione e rigore compositivo.
Su gli abiti del paggio dietro il Mago anziano è riportato uno stemma con figura alata: la metà sinistra presenta tre ali, simbolo della famiglia Noirot, e, in quella destra, una corona e tre stelle a otto punte, forse insegna dei Sangiovanni, la famiglia della moglie di Baldassarre. Tra la Madonna e il Mago di sinistra sono presenti due donne, probabilmente Salomè e Zelomi, le levatrici dei Vangeli apocrifi. Alle spalle del gruppo il corteo che ha accompagnato i Magi nel quale si nota un giovane con capello piumato e un falco sulla mano, varie figure maschili con turbanti, cavalli e cammelli, mentre sullo sfondo si apre un paesaggio montano di gusto fiammingo.
Attualmente il quadro si trova nel convento di San Pasquale a Chiaia, proveniente dalla Chiesa di San Giuseppe Maggiore dei Falegnami dove era in deposito dal Museo Nazionale. Al Real Museo Borbonico giunse tra il 1816 e il 1821 dalla Chiesa di S. Anna dei Lombardi. Non è chiaro come Noiret abbia scelto la pittrice milanese forse tramite Giovanni Ambrogio Mazenta, architetto e priore barnabita legato alla Confraternita. Per Fede Galizia, celebre come ritrattista e autrice di nature morte, questa prima pala d’altare rappresenta un impegno complesso, che la spinge a confrontarsi con i grandi maestri del passato: Leonardo per la composizione circolare assiepata intorno alla Vergine con il Bambino, Raffaello per la posa di San Giuseppe, Correggio per il volto della Vergine, una rilettura seicentesca di alcune figure femminili. È nota l’abilita di Fede nel riproporre i dipinti dei grandi maestri del Cinquecento.
Nel Seicento le donne potevano accedere alla pittura quasi esclusivamente grazie a legami familiari. Fede proveniva da una famiglia di artisti: il padre Nunzio, miniaturista e cartografo, lo zio Alessandro e il nonno Giacomo Antonio. Cresciuta a Milano, si formò copiando opere rinascimentali e realizzando composizioni in serie. Figura di transizione tra Rinascimento e Barocco, la sua data di nascita resta incerta (tra il 1574 e il 1578). Oltre alle nature morte, genere destinato a case borghesi e collezionisti, si dedicò anche a ritratti e pale d’altare, ambiti tradizionalmente riservati agli uomini e commissionati da istituzioni ecclesiastiche e personalità di rilievo.
Il Rinascimento trasformò l’arte da attività “meccanica” a disciplina “liberale”, aprendo spazi anche alle donne come pittrici, scultrici e mecenati. Pur senza raggiungere la parità, questo cambiamento permise loro di contribuire al mondo artistico, unendo manualità e riflessione intellettuale.
Autodidatta e indipendente da scuole pittoriche specifiche, Fede Galizia assimilò la tradizione lombarda e le esperienze contemporanee. La minuzia con cui descrive i fiori in primo piano richiama le sue nature morte; la preziosità delle vesti e l’intensità dei personaggi restituiscono la fama della pittrice nella Milano della Controriforma, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento.
Tra le opere di Fede Galizia presenti in mostra figura anche San Carlo Borromeo in estasi davanti alla Croce. Il dipinto fu richiesto per la nuova Chiesa delle Mortelle di Napoli dal generale Giovanni Ambrogio Mazenta al committente Pietro Cortone. In un primo momento la pala era destinata alla chiesa di Sant’Anna dei Lombardi[11].
Fede raffigura San Carlo Borromeo in estasi davanti alla “sacratissima reliquia del Chiodo Santo” da lui stesso fatto montare “dentro una gran croce di legno, coperta di cristalli trasparenti” e portata in processione durante la peste del 1570[12]. L’arcivescovo indossa l’abito pontificale: un rocchetto bianco a fitte pieghe con gli orli di pizzo, una stola ricamata incrociata sul petto sotto il quale si intravvede l’abito talare rosso in corrispondenza dei polsi e vicino alla scarpa, anch’essa rossa, un piviale foderato di rosso, ricamato e decorato con perle, assicurato da un elaborato fermaglio gemmato.
Le insegne vescovili – mitra e pastorale, sono appoggiate accanto a due candelieri d’argento, sulla mensa dell’altare, arredato con una tovaglia bianca con inserto e merletto e un paliotto ricamato. L’altare poggia su una gradinata di pietra rosa venata parzialmente coperta da un tappeto rosso. Il dossale[13] del quale si intravvede solamente una parte dell’incorniciatura, è coperto da una tenda verde che funge da quinta scenica.
Alle spalle del santo si apre un pavimento policromo e un plinto che sostiene due colonne di pietra rosa venata con basi nere. All’estrema destra, oltre le colonne, si intravede uno scorcio paesaggistico che conferisce all’ambiente l’aspetto di una monumentale edicola campestre.
La cura miniaturistica con cui Fede Galizia rende i materiali e gli effetti luminosi dei tessuti, dei gioielli e delle pietre raggiunge un livello altissimo. Questa preziosità sembra attenuare la posa serpentinata e un po’ incerta del Santo, distogliendo l’attenzione verso il gruppo di angioletti e cherubini che emerge dalle nuvole in alto a destra.

Olio su tela 196,5×132,5 cm
Piano di Sorrento Chiesa della SS. Trinità
Lavinia Fontana: una vita per l’arte
Raccontare le donne artiste significa spesso confrontarsi con una memoria incompleta: i loro nomi compaiono raramente nei documenti e le loro opere vengono confuse con quelle dei maestri. Solo alcuni generi – come la miniatura, la natura morta o il ritratto – erano considerati “adatti” a una mano femminile. Lavinia Fontana (1552–1614) seppe infrangere queste convenzioni e conquistare un posto di rilievo nella pittura europea del XVI secolo.
Figlia del pittore Prospero Fontana, si formò nella bottega paterna a Bologna, dove ebbe accesso a libri, stampe e collezioni che le permisero di sviluppare un linguaggio pittorico colto e raffinato. Entrò presto in contatto con artisti come Ludovico Carracci e Sofonisba Anguissola, e il suo talento si affermò rapidamente.
Considerata una delle più importanti ritrattiste del secolo, si distinse per la precisione, di ascendenza fiamminga nella resa di abiti e gioielli. Nel 1577 sposò Giovan Paolo Zappi, che rinunciò alla propria carriera per assisterla: grazie a questo sostegno Lavinia riuscì a conciliare una famiglia numerosa – fu madre di undici figli – con un’attività artistica di successo e continuativa. Dai piccoli ritratti privati passò a opere più complesse e alle grandi pale d’altare, nelle quali dimostrò maturità e intensità narrativa.
Nel 1603 si trasferì a Roma, dove lavorò per la corte papale e la nobiltà, ottenendo il titolo di “Pontificia Pittrice”. La sua opera più audace, Minerva in atto di abbigliarsi (1613, Galleria Borghese), è considerata il primo nudo femminile dipinto da una donna: un gesto anticonformista che sfidava i limiti imposti dalla Controriforma.
L’influenza dei Carracci la portò a superare il manierismo paterno, avvicinandosi a un linguaggio più naturalistico e immediato. Negli ultimi anni, segnata da una crisi mistica, si ritirò in un monastero con il marito. Morì a Roma nell’agosto 1614.
A Napoli, città segnata dal naturalismo di Caravaggio e Ribera, la presenza di Lavinia mostra un’altra via: un linguaggio elegante, colto e anticonformista, che valorizza la figura femminile.
Tra il 1610 e il 1611 Lavinia realizzò la pala d’altare Madonna con il Bambino, san Francesco e il committente per la cappella di Giovan Lorenzo Casola, ricco borghese legato alle attività marinarie e alla riscossione della gabella del pane, nella cappella di famiglia, dedicata a san Francesco, nella Chiesa della SS. Trinità di Piano di Sorrento. Nonostante fosse già sovraccarica di impegni romani, accettò comunque l’incarico.
Nella parte alta del dipinto è raffigurata la comunione mistica: San Francesco è inginocchiato mentre la Madonna, sospesa in uno squarcio del cielo, porge il Bambino Gesù al santo, che si illumina nell’atto di accoglierlo tra le braccia. In basso, oltre a una veduta marina, compaiono i simboli di meditazione – croce, libro e teschio – e il ritratto del committente, che invita l’osservatore a partecipare all’evento. La gamma cromatica terrosa è ravvivata dal rosso della Vergine e dalla luminosità del Bambino, mentre l’abbraccio tenero tra Francesco e Gesù introduce un forte elemento sentimentale.
Il Ritratto di un monaco certosino (1595, Museo e Real Bosco di Capodimonte), probabilmente Giovan Battista Capponi, priore della Certosa di Casara, mostra la figura solenne di un religioso seduto di tre quarti, colto mentre sfoglia con la mano destra un manoscritto posto su un angolo di un tavolo rivestito di una stoffa vellutata che la luce fa brillare. Il braccio sinistro è poggiato sul bracciolo della sedia di cui è visibile solo una piccola parte in legno con decorazioni in oro, a suggerire l’elevato rango di chi è rappresentato. Lo sfondo scuro amplifica la composizione, che si presenta essenziale ma efficace. Il saio di lana bianco, reso con grande maestria, è attraversato da una luce diffusa che ne modella le pieghe ed evidenzia la consistenza della stoffa. La piega trasversale, che attraversa il tessuto al centro del corpo, unisce il monaco alla verticale del tavolo. il volto segnato da una folta barba mostra uno sguardo sereno e intenso che rivolge direttamente a chi guarda ed esprime la sapienza silenziosa di un certosino.
In mostra sono presenti due opere di Lavinia Fontana, i ritratti di Carlo Sigonio e Federico Pendasio, recentemente scoperti in una collezione privata napoletana. In Sigonio, grazie anche alla lettera che tiene in mano, si riconosce l’illustre storico e filologo modenese, titolare della cattedra di umanità dell’Università di Bologna dal 1563 al 1584.

Lavinia Fontana
Carlo Sigonio (1581)
Olio su tela 87×70 cm
Napoli Collezione privata
Pendasio, con barba rossiccia e sguardo intenso, colto in un momento di pausa, regge con la mano destra un libro semiaperto e con la sinistra in parte aperta come a voler interloquire con l’osservatore: viene identificato con il filosofo mantovano professore a Bologna dal 1571.

Lavinia Fontana
Federico Pendasio (1581)
Olio su tela 87×70 cm
Napoli Collezione privata
Entrambi gli intellettuali sono interlocutori del cardinale Paleotti[14], impegnato a rinnovare l’arte del tempo; la stessa pittrice sembra legata alla cerchia intellettuale che gravita intorno al prelato. In queste opere la pittrice abbandona il ritratto-teatro praticato dal padre Prospero Fontana per puntare all’essenziale: sfondo neutro, composizione sobria e nessun dettaglio che possa distrarre dalla resa fisiognomica e dalla profondità psicologica dei soggetti rispettando il messaggio promosso dal Paleotti. L’abbigliamento nero, prerogativa di letterati giuristi e accademici, non impedisce all’artista di mostrare la sua abilità nella resa preziosa delle stoffe e dei dettagli.
Nel 1592 Lavinia Fontana ritrae Antonietta Gonzales, una bambina affetta da ipertricosi congenita. Per il suo aspetto venne portata alla corte di Enrico II di Francia come una curiosità naturale. Diversi membri della sua famiglia condividevano la stessa condizione e venivano spesso scambiati tra le corti europee come “doni” o curiosità viventi. Nonostante ciò Antonietta ha ricevuto un’educazione aristocratica.
L’artista decide di concentrare la sua attenzione sul personaggio attraverso una inquadratura ravvicinata nella quale restituisce la fisionomia, l’abbigliamento attentamente descritto nel taglio e nella stoffa damascata, l’acconciatura di fiori legati con nastrini nei capelli, una lettera con una iscrizione quasi a certificare identità e alfabetizzazione: “Don Pietro, un uomo selvaggio scoperto nelle Isole Canarie… da cui [nacqui] io, Antonietta, e ora mi trovo presso la corte della Signora Isabella Pallavicini, Marchesa di Soragna”.
Lavinia la rappresenta con dignità: l’immagine inquietante della protagonista è addolcita da una stesura cromatica morbida e dal vestitino perlaceo. La peluria è resa con delicate pennellate, mentre l’espressione malinconica restituisce umanità e compassione. Secondo lo storico Roberto Zapperi[15], che Antonietta, nata a Parigi e quarta figlia, era giunta a Parma con i genitori. Fu regalata da Ranuccio Farnese, come un animaletto da compagnia a Isabella Pallavicini, donna colta e moglie del marchese di Soragna Giampaolo Meli Lupi. è stata la marchesa a far visitare la bambina da un noto scienziato naturalista Ulisse Aldovrandi, informazioni inserite nel trattato dal titolo Monstruorum Historia pubblicato nel 1642, e a da Lavinia Fontana, ritrarre dal vivo.
Nel 2023 una versione sconosciuta dell’opera è stata venduta per 1,5 milioni di euro e nel 2025 acquisita dal Museo Nazionale d’Arte Occidentale di Tokyo; un’altra si trova al Castello di Blois.
Memoria, storia e il potere dei quadri
Quando cerco di conoscere le storie che i quadri custodiscono, sento sempre la necessità di tornare in mostra, davanti agli originali si colgono quelle emozioni che nessuna riproduzione può restituire. Mi sono chiesto spesso il motivo, visto che possiedo cataloghi e fotografie digitali ad alta risoluzione. Probabilmente perché la stesura della materia pittorica rivela unicità e continuità, mentre nella riproduzione su carta o digitale l’immagine è costruita da punti e pixel che, pur moltiplicati per migliorarne la definizione, lasciano un vuoto attorno a sé.
Ricordo l’ultima volta che mi sono avvicinato al ritratto di Antonietta Gonzales dipinto da Lavinia Fontana. Davanti a me due donne, né giovani né anziane, parlavano di quella “ragazza pelosa”, interpretando il quadro come segno di una maledizione, non di una bambina “troppo piccerella”, ma per i suoi genitori.
Abbiamo riportato all’inizio che La ricostruzione del passato intreccia due dimensioni fondamentali: la memoria e la storia. Possiamo leggere questa locuzione nella nostra vita personale e verificare quanto i nostri rapporti e le nostri relazioni siano animati dalla memoria che può distorcere la realtà di fronte al riscontro dei dati oggettivi.
Possiamo leggerla anche nella vita collettiva che, con lo sviluppo dei mass media, si è estesa da anni oltre i confini nazionali. In questo caso la memoria sembra prevalere, e le vite, trasformate in pixel, hanno perso la cognizione della continuità della materia che tutto collega e unisce.
Ingabbiate nei social – i nuovi luoghi della comunicazione di massa – le persone-pixel smarriscono anche il dato reale, manipolato, come succede alle foto dalle app più sofisticate, e piegato agli interessi del più forte e più potente.
Di fronte a questo scenario, che potrebbe generare angoscia, possiamo fare nostro il pensiero di Giambattista Vico. Egli, con l’era della ragione e dello sviluppo della civiltà, sosteneva l’alternanza di fasi di progresso e di decadenza, i celebri “corsi e ricorsi storici”. È allora possibile immaginare un nuovo equilibrio, in cui memoria e storia sappiano offrire una visione più consapevole di ciò che è stato e fungere da monito per il futuro.
In fondo “Solo quando memoria e storia dialogano, l’arte ci insegna a guardare il futuro con occhi più lucidi.”
NOTE
[1] De Dominici, Bernardo (1742). Vite dei Pittori, Scultori, ed Architetti Napolitani (volume 2). Tipografia Trani Napoli 1843 pp. 347-350. Digitalizzato da Google Books il testo è consultabile in rete
[2] Minieri-Riccio, Camillo (1844). Memorie storiche degli scrittori nati nel regno di Napoli. Tipografia dell’Aquila di V. Puzziello, Chiostro di San Tommaso d’Aquino, di Napoli (1844). p. 111 Digitalizzato da Google Books il testo è consultabile in rete.
[3] Giuseppe Maria Galanti, Nuova Guida per Napoli e suoi contorni 1845-Editore-Presso i principali librai- pagina 214. Digitalizzato da Google Books il testo è consultabile in rete.
[4] https://en.wikipedia.org/wiki/Sister_Luisa_Capomazza#cite
[5] https://www.donneindialogonapoli.it/luisa-capomazza/
[6] La costruzione della Chiesa di S. Maria di Monte Oliveto inizia nel 1411 per volontà di Gurello Origlia, protonotario di Re Ladislao. A quell’epoca il complesso monastico, che si trovava al di fuori delle mura cittadine e si estendeva da Largo delle Corregge (oggi Via Medina) fino alle pendici del Vomero, venne affidato ai Padri Olivetani e dedicato alla Vergine di Monteoliveto Purificazione di Maria.
[7] G. C. Aversano Platea seu fundatione Venerabili Chiesa di S. Anna de’ Lombardi di questa fedelissima città di Napoli 1626
[8] M. Tarallo, “Santa Maria di Monteoliveto a Napoli, dalla fondazione (1411) alla soppressione monastica: topografia e allestimenti liturgici” _2014 http://www.fedoa.unina.it/9757/
[9] G. C. Aversano Platea seu fundatione Venerabili Chiesa di S. Anna de’ Lombardi opera citata.
[10] FEDE GALIZIA. Mirabile pittoressa Catalogo mostra curata da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa Castello del Buonconsiglio Trento 03 Luglio – 24 Ottobre 2021
[11] FEDE GALIZIA. Mirabile pittoressa Catalogo mostra curata da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa opera citata pag.165
[12] Donne nella Napoli spagnola. Un altro Seicento Catalogo mostra Ed. Allemandi pag.56
[13] Il dossale è una copertura o un rivestimento decorativo, spesso artistico (dipinto, scolpito o ricamato), posto dietro un altare, su mobili, libri (specialmente il messale) o pareti; in ambito artistico, si riferisce specificamente alla pala d’altare (pannello decorativo) o alla parte posteriore dell’altare stesso, fungendo da sfondo monumentale.
[14] Gabriele Paleotti Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582). Digitalizzato da Google Books il testo è consultabile in rete.
[15] Roberto Zapperi Il selvaggio gentiluomo. L’incredibile storia di Pedro Gonzales e i suoi figli, Roma 2005 pp. 81-88, 167-169.







