Per grazia ricevuta. Visioni contemporanee dell’ex-voto è il titolo della mostra proposta al Museo del Tesoro di San Gennaro fino al 30 settembre 2025. Dopo la prima parte, pubblichiamo la seconda dell’excursus di Carmine Negro sull’esposizione (che ha scattato anche le foto).

L’espressione L’arte è la forma del tempo, che il curatore Alberto Mattia Martini richiama nel suo intervento all’inaugurazione, mi impressiona e affascina. Per comprenderne significato e senso devo necessariamente esplorare i tre elementi che compongono questa frase: il tempo, la forma e l’arte.
Il tempo è una dimensione fondamentale della nostra quotidianità ma non possiamo vederlo o toccare perché non è un oggetto fisico e non ha una forma definita. Riusciamo, tuttavia, a percepire il suo passaggio[1] e ad adattare il nostro comportamento di conseguenza. Il tempo è una dimensione particolarmente sfuggente delle esperienze giornaliere.
La forma è il ponte tra l’invisibile e il visibile, tra l’idea e la materia, e permette a quest’ultima di esprimere e manifestare un’idea, rendendola tangibile e percepibile. Nell’arte la forma è la disposizione degli elementi visivi – linee, colori, volumi – che danno vita a un dipinto, una scultura o un’opera d’arte, rendendo percepibile un’idea o una visione.
Infine c’è l’arte. Definirla non è semplice: culture e periodi storici differenti hanno avuto visioni diverse dell’arte, e anche all’interno di uno stesso contesto possono esistere posizioni contrastanti.
Per Ernst Cassirer, filosofo e storico tedesco, l’arte non è una semplice imitazione della realtà, ma la creazione di un nuovo mondo di immagini e simboli che ci permettono di comprendere la realtà in modo più profondo. A spostare l’attenzione dallo studio dei significati e quindi dal simbolismo di Cassier alle relazioni formali, e quindi a come la forma si trasforma nel tempo,, ci pensa George Kubler con la sua opera The Shape of Time (La Forma del Tempo)[2]: Supponiamo che il nostro concetto di arte possa essere esteso a comprendere, oltre alle tante cose belle poetiche e non utili di questo mondo, tutti i manufatti umani in genere, dagli strumenti di lavoro alle scritture. Accettare questo significa far coincidere l’universo delle cose fatte dall’uomo con la storia dell’arte, con la immediata e conseguente necessità di formulare una nuova linea di interpretazione nello studio di queste stesse cose. Ciò apparirà più facile se si sceglierà di procedere dal punto di vista dell’arte anziché da quello dell’uso, giacché se partiamo unicamente dall’uso saremo portati inevitabilmente a trascurare tutte le cose non utilizzabili, mentre, se consideriamo la desiderabilità delle cose, allora saremo capaci di vedere gli oggetti utili nella giusta luce di cose a noi più o meno care[3].
Mi piace immaginare le opere degli artisti presenti in questa esposizione disperdersi per accompagnare le tante manifestazioni degli uomini che, attraverso gli ex-voto, vanno alla ricerca di un dialogo con l’oltre. Io concentrerò le mie attenzioni solo su alcuni di loro.
Nella Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro, sotto il dipinto del Domenichino Infermi alla tomba di San Gennaro, a segnare l’ingresso e a raccontare l’anima dell’esposizione ci sono le due sculture in bronzo di Igor Mitoraj: Angelo II e Maria II. L’artista in questa opera punta sul forte valore simbolico dell’oggetto, sintetizza in quelle forme il proprio vissuto e lo traduce in arte. Lo fa leggendo il quotidiano mentre ricorda le tragedie del passato e proietta la sua opera in un futuro ancorato a valori senta tempo.
Igor Mitoraj nasce a Oederan in Germania nel 1944, da una relazione della madre polacca, deportata in terra tedesca dai nazisti, con un prigioniero di guerra francese. Oederan è poco lontana da Dresda, una città che nel 1945 è devastata dai terribili bombardamenti degli Alleati con cumuli di macerie e strade disseminate di cadaveri mutilati.
Mitoraj ha solo un anno ed è difficile serbare memoria di quelle scene a quell’età; tuttavia è singolare che da adulto i corpi caduti e smembrati sono diventati il tema principale della sua arte. Finita la guerra, la madre ritorna in Polonia col figlio e sposa Czeslaw Mitoraj, che adotta il bambino e gli dà il suo cognome. Igor nella sua vita per diversi motivi non conoscerà mai il proprio padre[4]. Nel ’68 lascia la Polonia per Parigi dove continua a studiare pittura e per sopravvivere si adatta a ogni tipo di mestiere. In questo periodo matura la sua conversione alla scultura e la predilezione per le forme classiche; in breve tempo riesce ad impadronirsi di una tecnica straordinaria, pari a quella dei grandi maestri dell’antica Grecia[5].

Igor Mitoraj
Angelo II, 2008 bronzo 128 cm x 78 cm x 53 cm
Maria II, 2008 bronzo 120 cm x 66 cm x 63 cm
Foto Fabio Trosa
Nel 1976, tiene a Parigi la sua prima personale come scultore e la sua arte, per quasi quarant’anni, non conosce né deviazioni né evoluzioni stilistiche rilevanti. Il suo viaggio nel 1979 a Pietrasanta gli consente di apprendere i segreti degli abilissimi marmisti e fonditori locali, così come una visita della Grecia gli consente una conoscenza diretta della grande statuaria antica. L’Italia diviene ben presto la sua seconda patria dopo che dal 1983 ha aperto uno studio nel territorio di Pietrasanta, in provincia di Lucca. Da allora la città toscana diventa la sua residenza principale, ma anche molto di più: un vero luogo dell’anima.
L’arte di Mitoraj appare inizialmente di facile comprensione, perché il suo linguaggio si basa su forme che ci vengono dall’antichità greco-romana e che per questo percepiamo come familiari, ma definire il suo stile non è semplice perché sfugge a ogni etichettatura.
Ed è lui stesso a dirlo: «Ho scelto la strada forse più difficile, quella dell’arte figurativa, … per molto tempo poco amata rispetto all’astrattismo. … Ho cercato di assecondare i miei tormenti. Le difficoltà mi piacciono[6]».
Non si può definire l’opera di Mitoraj neoclassica perché, all’assoluta compiutezza delle forme e alla levigatezza delle superfici di questo movimento artistico, Mitoraj contrappone il frammento, la rottura, la crepa. «Io non sono uno scultore neoclassico – diceva – e il mio stile non è, nella maniera più assoluta, quello del Canova […] Canova non lo amo […] ha privato dell’anima l’arte classica[7]”. È stato scritto che “se Canova è il classico puro, sereno e privo di anima, Mitoraj era invece il classico che si è contaminato, si è sporcato, si è infettato con i germi della modernità[8]».
L’estetica del frammento di Mitoraj è altra cosa rispetto alla poetica delle rovine che si afferma nel Rinascimento e successivamente nel secondo Settecento[9], dove i marmi antichi frammentati sono soprattutto il segno negativo di una grandezza perduta, emblemi della caducità di tutto ciò che è umano, con spunti meditativi moraleggianti.
Nel Novecento e nell’opera di Mitoraj in particolare l’incompletezza enigmatica del frammento ne potenzia, insieme alla bellezza, il significato. Nella misura in cui esso non subisce la rovina, ma la espone, il frammento si propone autonomamente non come fine ma come inizio, come luogo da cui ogni volta si riforma potenzialmente il mondo. Le due sculture in bronzo l’Angelo e Maria ci raccontano la storia di un incontro ma anche l’incontro di un nuovo inizio.
È stato Mimmo Paladino, dopo il successo della mostra a Milano, a suggerire di portarla in quello che è il regno degli ex voto: Napoli. Il percorso espositivo parte nella Sacrestia, dove sono custoditi i dipinti a olio su rame di Luca Giordano da poco restaurati, con il Monocromo blu di Yves Klein donato dall’artista francese nel 1958 al monastero di Santa Rita da Cascia in segno di devozione.
Il lavoro di Yves Klein, figura originale del panorama artistico europeo del secondo dopoguerra, è caratterizzato dalla ricerca del colore puro che lo porta alla realizzazione di grandi tele monocrome capaci di trasmettere l’idea di immaterialità. «Quando ero ragazzo, feci un sogno ad occhi aperti in cui firmavo il confine della volta celeste. Quel giorno iniziai ad odiare gli uccelli che volavano nel cielo perché cercavano di bucare la mia opera più importante e più bella. L’evento segnò l’inizio della mia carriera come pittore».
Nella sua prima mostra, il 15 ottobre 1955, l’artista espone quadri monocromatici di diversi colori: rosa, verde, blu, rosso, arancione e giallo, dipinti con un rullo, considerato più anonimo e meno psicologico del pennello.
«Per me – disse in occasione di una sua mostra alle Editions Lacoste – ogni sfumatura di colore è, in un certo senso, un individuo, una creatura vivente dello stesso tipo del colore primario, ma con un carattere e un’anima sua propria. Ci sono molte sfumature … delicate, aggressive, sublimi, volgari, serene».
L’artista vuole mettere lo spettatore di fronte a uno spazio pittorico libero, nel quale non è possibile trovare punti fissi o figure, ma soltanto la forza ipnotica del colore puro: “Avvertire l’anima, senza spiegazioni, senza parole e dipingere questa sensazione – questo è credo ciò che mi ha portato alla pittura monocroma».

Quando gli si domanda che cosa significa il suo nome e che cosa rappresenta la sua arte, l’artista si mette a narrare un antico racconto persiano: «C’era una volta un flautista che un giorno si mise a suonare una nota unica, continua e ininterrotta. Dopo aver fatto così per vent’anni, sua moglie gli fece notare che gli altri flautisti producevano un’ampia gamma di suoni armoniosi e persino intere melodie, creando una certa varietà. Ma il flautista monotono replicò che non era colpa sua se egli aveva già trovato la nota che tutti gli altri stavano cercando».
Quando si accorge che i visitatori pensano che le numerose tele, colorate in maniera uniforme, costituiscono un nuovo tipo di decorazione luminosa e astratta per interni rimane sconvolto e capisce che deve compiere un ulteriore e decisivo passo in direzione dell’arte monocroma. Deve cessare di dedicarsi alle sfumature e alle gradazioni per concentrarsi soltanto su un unico colore primario: il blu. Così nell’autunno del 1956, trova quello che cerca e crea l’International Klein Blue: un blu oltremare intenso, luminoso, completamente avvolgente che egli definisce l’espressione più perfetta del blu.
Eliminata del tutto la piatta linea dell’orizzonte, questo blu, può evocare l’unificazione del cielo con la terra. Klein sostiene che non esistono limiti obiettivi all’espressione artistica, né nel contenuto, né nella forma. L’unica autorità che ritiene di dover riconoscere è la voce dell’intimo. «Le opere creano l’effetto di un distacco eterno, ricorda ancora Klein, e tuttavia la vita che si aggrappa ancora alla vuota carcassa umana le rende magicamente irresistibili».
Klein muore di infarto del miocardio nel 1962 a soli 34 anni di età. Prima di morire affida al suo diario le sue ultime riflessioni: «Ora voglio andare oltre l’arte – oltre la sensibilità – oltre la vita. Voglio entrare nel vuoto. La mia vita dovrebbe essere come la mia sinfonia del 1949, una nota continua, liberata dall’inizio alla fine, legata ed eterna al tempo stesso perché essa non ha né inizio né fine … Voglio morire e voglio che si dica di me: Ha vissuto perciò vive».
La Rivista Artuu Magazine[10] riporta, nel numero di luglio 2024, il ritrovamento dell’ex voto di Klein per il Santuario di Santa Rita da Cascia. Dopo il terremoto del 1979, che danneggia la cupola della Basilica del monastero di Santa Rita da Cascia in Umbria, viene dato incarico al pittore Armando Marrocco di creare delle vetrate moderne per il presbiterio. Quest’ultimo, dopo aver chiesto alla Badessa l’eventuale presenza nel monastero di oro in foglia, si vede recapitare un pacco contenente foglie di oro zecchino ed inoltre dei dépliant con dentro una cassetta, apparentemente contenente polveri colorate per il restauro di affreschi. Non ci vuole molto per scoprire che quella cassetta è in realtà una scoperta sensazionale, di cui nessuno immagina l’esistenza: un ex-voto di Yves Klein dedicato a Santa Rita, a cui il pittore è devotissimo.
Si tratta di un contenitore di plastica trasparente di 22×15 cm, suddiviso in vari scomparti. La parte superiore è composta da tre cassetti, contenenti rispettivamente pigmento blu-oltremare (il blu I.B.K.), pigmento rosa (monopink) e oro in foglie (monogold). La parte inferiore contiene per tutta la sua lunghezza tre lingotti d’oro di diverso peso appoggiati su una base di pigmento blu[11].
Nella cassetta è sintetizzatala la sua ricerca raccontata nel noto trittico di Krefeld, dove nel 1961, è stata realizzata la più grande retrospettiva nel 1961 attraverso i colori della triade: il blu, l’oro e il rosa. Essi racchiudono il senso della Trinità: il blu spirituale, colore dell’infinito e della divinità, l’oro che rimanda all’alleanza tra Dio e gli uomini e il rosa che fa pensare al sangue e all’acqua sgorgati dal costato di Cristo.
La parte centrale del contenitore è formato da una larga fessura nella quale è stato deposto un testo manoscritto di Yves Klein su sette foglietti di carta tenuti insieme da un sottilissimo filo di cotone. Il testo è un vero e proprio inno di richiesta di grazie a Santa Rita: dopo averla ringraziata dei suoi precedenti favori, Yves Klein si pone sotto la protezione della Santa e invoca il suo aiuto per assicurare successo, bellezza e immortalità alla sua opera.

Per ricapitolare possiamo dire che:
– la scultura di Igor Mitoraj, è posta sulla soglia tra l’interno e l’esterno del museo. Il suo volto spezzato richiama frammenti del mondo classico, le sue opere sono figure spezzate, incomplete, sospese tra la bellezza ideale della scultura greca e la fragilità dell’essere umano. Come i fedeli che pongono la propria devozione agli occhi del Santo in un gesto carico di speranza e gratitudine, Mitoraj mostra il sacro nella vulnerabilità dell’umano.
– tra le tante proposte espostemi ha colpito l’ex-votoper Santa Rita di Yves Klein famoso per il blu intenso delle sue opere, l’IKB (International Klein Blue), e per le sue sperimentazioni sul concetto di vuoto e invisibile. L’ex-voto per Santa Rita è un esempio affascinante di come anche un artista d’avanguardia senta il bisogno di un gesto di gratitudine e di fede. Mitoraj e Klein due autori molto diversi tra loro, ma entrambi immersi pienamente nell’esperienza umana, impegnati a ricercare l’oltre e determinati nel loro percorso esistenziale, che offrono due percorsi di ricerca spirituale attraverso la forma.
Le opere sono distribuite tra la Cappella del Tesoro, le Sacrestie e le sale del museo, in un dialogo continuo con l’architettura barocca, le suppellettili liturgiche e il Tesoro stesso. L’allestimento non si presenta solo come una mostra d’arte contemporanea, ma come un vero e proprio ex voto collettivo, in cui il linguaggio dell’arte si fa ponte tra passato e presente, tra sacro e quotidiano, tra memoria e speranza.
Ogni opera nasce da un’esperienza umana, da un percorso di ricerca e consapevolezza che culmina nella creazione del manufatto artistico. Questa esposizione raccoglie e custodisce le narrazioni di 120 artisti. In questa sede, non potendo approfondire le storie di ciascuno, ci limitiamo a riportarne i nomi, consapevoli che ognuno di loro porta con sé una visione unica del mondo e della realtà. Una ricchezza preziosa per tutti.

Prega 2024, plexiglas 33 cm x 50 cm
Gli artisti coinvolti sono:
Yves Klein, Igor Mitoraj, Guido Airoldi, Maddalena Ambrosio, Stefano Arienti, Gabriele Arruzzo, Mattia Barbieri, Mirko Baricchi, Matteo Basilè, Matteo Bergamasco, Alessandro Bergonzoni, Thomas Berra, Bertozzi&Casoni, Andrea Bianconi, Antonio Biasucci, Valentina Biasetti, Lorenzo Brivio, Nicolò Bruno, Michele Bubacco, Luca Caccioni, Chiara Calore, Anna Capolupo, Felipe Cardeña, Nicola Caredda, Linda Carrara, Valeria Carrieri, Antonio Catelani, Andrea Chiesi, Marco Cingolani, Gianluigi Colin, Giacomo Cossio, Fabrizio Cotognini, Rudy Cremonini, Nicola Cucchiaro, Vanni Cuoghi, Sabrina D’Alessandro, Aldo Damioli, Alberto De Braud, Leonida De Filippi, Francesco De Grandi, Francesco De Molfetta, Silvano De Pietri, Marta Dell’Angelo, Mario Dellavedova, Aron Demetz, Marco Demis, Pino Deodato, Nicola Di Caprio, Fulvio Di Piazza, Roberto Dolzanelli, Tamara Ferioli, Enzo Fiore, Sergio Fiorentino, Francesco Fossati, Giovanni Frangi, Maurizio Galimberti, Michelangelo Galliani, Omar Galliani, Daniele Galliano, Laura Giardino Robert Gligorov, Giuseppe Gonella, Domenico Grenci, Ester Grossi, Franco Guerzoni, Agnese Guido, Audrey Guttman, Silvia Inselvini, Mimmo Jodice, Filippo La Vaccara, Francesco Lauretta, L’orMa, Giovanni Manfredini, Bruno Marrapodi, Franco Marrocco, Luciano Massari, Andrea Mastrovito, Marco Mazzoni, Paolo Migliazza, Enrico Minguzzi, Kazumasa Mizokami, Concetta Modica, Elena Modorati, Tomoko Nagao, Silvia Negrini, Marco Pace, Silvia Paci, Mimmo Paladino, Robert Pan, Alessandro Papetti, Paola Pezzi, Paolo Pibi, Alex Pinna, Giulia Piscitelli, Michelangelo Pistoletto, Luigi Presicce, Massimo Pulini, Pierluigi Pusole, Gherardo Quadrio Curzio, Alfredo Rapetti, Carlo Alberto Rastelli, Giotto Riva, Brigitta Rossetti, Elisa Rossi, Laboratorio Saccardi, Roxy in the Box, Nicola Samorì, Aldo Sergio, Davide Serpetti, Marta Sesana, Giuseppe Stampone, Giorgio Tentolini, Luca Trevisani, Wainer Vaccari, Vedovamazzei, Nicola Verlato, Flaminia Veronesi, Dany Vescovi, Fabio Viale, Velasco Vitali.
La mostra, aperta al pubblico nel Museo del Tesoro di San Gennaro di Napoli fino al 30 settembre 2025 può essere visitata negli orari di apertura della struttura nuseale. Il costo del biglietto del museo comprende l’ingresso all’esposizione.
©Riproduzione riservata
(2.fine)
Per saperne di più
www.tesorosangennaro.it

Rita au Bain 2024,
collage di carta su modelli in legno per scarpe, 13 cm x 13 cm
NOTE
[1] Il tempo non ha una forma perché non è un oggetto fisico con una forma definita, ma piuttosto una forma di coscienza, una dimensione dello spazio-tempo e una misura della successione degli eventi.
[2] Nella Premessa scrive La stesura del testo avvenne in gran parte a Napoli, all’inizio del 1960, e il manoscritto completo fu presentato alla Yale University Press nel novembre dello stesso anno.
[3] George Kubler La Forma del Tempo Edizione di riferimento: George Kubler, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, con una nota di Giovanni Previtali, traduzione italiana di Giuseppe Casatello, Einaudi, Torino 1976 e 1989 Titolo originale: The Shape of Time, Yale University Press © 1972 George Kubler. Pagina 8
[4] Giuseppe Pucci nell’articolo il più antico dei moderni: un profilo di Igor Mitoraj suteCLa, Rivista di temi di Critica e Letteratura artistica, numero 13 – 30 giugno 2016 pag. 43-71 riporta che in un’intervista a Costanzo Costantini rivela di avere rintracciato il padre in Francia, di essersi recato fino alla casa in cui questi abitava ma di non avere avuto il coraggio di premere il campanello. Nel testo di Costanzo Costantini L’enigma della pietra. Conversazioni con Igor Mitoraj, Il Cigno GG Edizioni, Roma 2004, p. 19. Mitoraj confessa: Inconsciamente, forse, scelsi il mistero che aveva avvolto ormai per sempre la figura di mio padre. Forse perché i sogni più belli sono quelli non realizzati. Forse volevo stare col sogno di una persona che non esisteva (pag. 25); ma è chiaro che quella rinuncia, che assomiglia a un’automutilazione, lo ha segnato profondamente. Quando, a proposito dell’indefinitezza dei soggetti delle sue opere, parla di enigma e attesa di una figura misteriosa, a me ignota (p. 118) non si può non pensare a quell’assenza.
[5] Nonostante la formazione giovanile come pittore, numero 13 – 30 giugno 2016 la visione della forma che ha Mitoraj è preminentemente plastica. Nel catalogo Mitoraj, Mito e Musica, del 2005 l’amico Jean-Paul Sabatié testimonia che Igor, delle sue opere, non ha mai tracciato nulla che possa essere considerato un “disegno preparatorio”. Gli è certamente capitato di schizzare delle idee, durante i viaggi, nell’impossibilità di plasmare la materia, ma erano solo “pensieri personali” issati su di un foglio. In ogni caso, non furono mai la rappresentazione di un’idea che successivamente avrebbe preso forma plastica». Delle sue sculture Mitoraj diceva che «appaiono quando già le sto plasmando, a lavoro in corso» (C. Costantini, L’enigma della pietra…, 2004, p. 54)
[6] Intervista di Laura Larcan su la Repubblica 15.04.2011. Un classico al cospetto del mito Mitoraj show nella Valle dei Templi
[7] C. Costantini, Opera citata 2004, p.61. In un’altra occasione ha affermato: Non ho mai avuto dei modelli antichi come estetica, ma cerco il loro contenuto emozionale, la loro anima Catalogo Igor Mitoraj. Dialoghi etruschi, 2011
[8] A. Riva, Addio a Mitoraj, lo scultore della classicità perduta, in Italian Factory Magazine dello 06.10.2014
[9] G. Pucci, Il buon uso delle rovine, in Semantica delle rovine, a cura di G. Tortora, Manifesto libri, Roma 2006, pp. 291-306
[10] Artuu Magazine nel numero del 20 Luglio 2024 Per grazia ricevuta, 100 Ex Voto fatti ad arte. Tra sacro e profano riporta il ritrovamento dell’ex-voto.
[11] I lingotti d’oro fino sono il prodotto delle prime quattro vendite di aree di sensibilità pittorica immateriale, una complessa operazione con la quale Yves Klein intendeva restituire in parte o tutto l’oro al cosmo.