Nella opaca nebbia della notte, che ancora ristagna nella valle, scorgo, lontana, la sagoma del treno sul binario morto. Ormai sono anni che è  fermo, lì dove lo hanno lasciato in attesa di essere smantellato; anche dopo che successe la tragedia le ferrovie, fra continui rimandi, hanno solo chiuso le carrozze, saldando le porte, ed ora le erbe salgono piano, entrando dai vetri rotti dei finestrini.
Nessuno più racconta di quegli avvenimenti ma da allora i ragazzi hanno scelto altri luoghi per giocare mentre quel treno è diventato oggetto di quelle leggende che si tramandano con particolari sempre diversi. Il fatto di cronaca, nella sua cruda realtà, è diventato un morboso avvenimento raccontato con terrore o con ironia secondo che a raccontarlo sono le donne in chiesa, prima del rosario, o gli uomini seduti dal barbiere in attesa del loro turno.    
Ormai nessun treno si ferma più in questa stazione; siamo, come hanno detto, un ramo morto; hanno murato anche l’ingresso dell’edificio per evitare che qualche drogato si fermasse in quei locali. Da un buco, nella rete di recinsione, entra qualche barbone o un cane randagio anche se sulla massicciata, in parte invasa dai rovi, non troverà mai niente.
Anch’io entro da quel buco, due volte al giorno, e seduto su un muretto basso aspetto; quando il terreno comincia a tremare capisco che è l’ora ed infatti, poco dopo lo vedo avanzare mentre anche il rumore aumenta assordante.
Arriva e passa rapido alzando una nuvola di polvere e trascinando il suo rumore metallico; corrono veloci, nelle due direzioni, uno alle sette del mattino e l’altro alle sette del pomeriggio. Io preferisco quello serale perché, specialmente d’inverno, mi passa davanti con le sue luci accese, una freccia luminosa che si perde nella notte. A volte fischiano e a me pare che il treno voglia salutarmi. Poi tutto ritorna nel silenzio mentre gli insetti, con i loro mormorii, ritornano padroni del tempo che scorre via fino al giorno dopo.
Prima di rientrare, resto ancora un po’ seduto e nella mente la nostalgia si confonde con i ricordi.  Da ragazzo tutti noi giocavamo intorno a quel treno. Nei lunghi, caldi pomeriggi d’estate per un tacito appuntamento eravamo tutti la, attorno a quei vagoni non ancora arrugginiti.
Il gioco era sempre lo stesso; divisi in due squadre tiravamo poi a sorte per stabilire i ruoli: un gruppo saliva sulle carrozze, per fare i passeggeri che venivano assaliti da feroci indiani formati dai ragazzi dell’altra squadra.
Tutti volevano essere gli indiani pretendendo che le ragazzine facessero parte, sempre, dei passeggeri. Non tutte accettavano questo ruolo in silenzio e non poche volte una feroce battaglia, con sassi e spintoni, si accendeva prima che cominciasse la vera battaglia, quella con gli indiani.
Il risultato era sempre lo stesso: quelli sul treno tentavano, con calci e fionde, di impedirci di salire sul treno dove, una volta giunti, avremmo cercato di abbrancare le ragazzine con patetiche manovre nella speranza di una maggiore docilità da parte di queste.
Con gli anni le preferenze cambiarono perché qualcuno di noi, fra quelli più grandi, preferiva passare nel gruppo dei passeggeri per restare nascosto nelle carrozze semmai in compagnia della ragazzina che gli aveva provocato i primi, ingenui sentimenti di simpatia. In realtà, anche in questo caso la recita non sempre riusciva; almeno in quegli anni tutto era più difficile e le ragazze volentieri recitavano la parte della bella corteggiata mentre noi ragazzi spingevamo il gioco sempre più avanti.
Non era difficile, allora, vedere una ragazza scappare inseguita dal suo poco convinto corteggiatore; in fondo era un gioco dei ruoli nel quale, ognuno dei protagonisti cercava la conferma di se stesso. Poi tutti, stanchi e sudati, ci stendevamo al sole ridendo delle fallite manovre di qualcuno che vantava successi inesistenti.
Con il passare degli anni il gioco cambiò e soprattutto acquistò un altro sapore, certo più dolce. Le ragazze pretendevano prolungare la sosta sul treno semmai coinvolgendo riottosi compagni di viaggio a leggere con loro i settimanali, “Grand Hotel” e “Sogno” allora la letteratura più seguita dalle giovani adolescenti.
Per noi tutti, i ruoli divennero più chiari. Nessuno pensava più a scegliere in quale gruppo giocare perché la recita aveva un copione ormai deciso: ogni coppietta cercava il suo angolo più nascosto agli occhi degli altri. E il pomeriggio trascorreva fra i primi, timidi approcci e le promesse di eterno amore. Altre frecce colpivano i nostri cuori; il treno divenne anche testimone di amori consumati, di giuramenti poco convinti e di lacrime senza ascolto.
Specialmente d’estate, il treno abbandonato diveniva la scena per attori diversi. Tutti i giorni, per molte ore del mattino, l’ampia massicciata risuonava delle risate dei ragazzi che, di pomeriggio, venivano sostituiti da quelli più grandi. Questi avevano liberato un rettangolo, da sassi ed erbacce, trasformandolo in un improbabile campo di calcio; ogni pomeriggio si disputavano furiose partire che, molto spesso, finivano in risse non meno cruenti. Fra gli spettatori c’era sempre qualche ragazza disposta a consolare i perdenti semmai seduti sugli scomodi sedili di legno del treno.
La notte poi, coppie furtive scivolavano lungo i binari arrampicandosi sui vagoni. Era un economico albergo per quanti non avevano ancora un proprio domicilio e che, certo, non potevano lasciare il paese. Le avventure notturne, però, non avvenivano senza rischio; il pericolo di essere riconosciuti e poi additati alle critiche del paese, era costante cosa che per le ragazze avrebbe costituito un serio disonore che non sempre il suo cavaliere era disposto a risolvere con il matrimonio. Le chiacchiere, si sa, sono un passatempo al quale nessuno vuole rinunciare. E fu proprio una di queste dicerie, messa in giro e passata di bocca in bocca, a provocare la tragedia.
Rosaria, la bella moglie del barbiere, era l’oggetto di continui mormorii non troppo silenziosi da non giungere anche alle orecchie del geloso marito. Era un uomo per natura tranquillo ma che un terribile incidente, durante la ferma militare, aveva trasformato in una persona litigiosa e facile al sospetto. “Non ci sta con la testa” diceva la moglie ma, certo, lo diceva per giustificare il suo comportamento. La “cosa”, come dicevano le donne abbassando il tono della voce, era diventata nota a tutti; e gli incontri della bella signora con Tonino, il giovane figlio del panettiere, furono commentati con maggiore o minore benevolenza, dato il carattere del marito, ma tutti, proprio tutti non esitarono a tradurre il “fatto” in giocate al lotto i cui numeri potevano cambiare aggiungendosi a due fissi, sempre quelli: 80, le corna, e 78, la femmina  allegra come dicevano, con pudore, le donne all’impiegato della ricevitoria.
Una mattina il barbiere  si recò presso la stazione dei carabinieri dove denunziò la scomparsa della moglie. Non colse il sorriso del maresciallo al quale, qualche ora prima, la mamma di Tonino aveva denunziato la fuga, così aveva detto, del figlio con quella svergognata; in realtà le parole con le quali aveva nominato la moglie del barbiere erano state molto più colorite.
La cartella, con sulla copertina la scritta “amanti fuggiti”, rimase sulla scrivania del maresciallo molto tempo; ogni giorno lui la guardava e sorridendo la spostava sia pure di poco. La maggiore età del ragazzo, così aveva detto alla mamma, escludeva ogni ipotesi di reato da parte della bella Rosaria; in fondo, aveva aggiunto, sono due amanti che cambiano paese; non è la prima volta e certo non sarà l’ultima aveva concluso fra le urla della donna che avrebbe preteso ben altra iniziativa. Il fatto fu commentato in paese suggerendo nuovi numeri da aggiungere alle giocate settimanali e quando qualcuno vinceva il primo a saperlo, naturalmente, era il barbiere.
I mesi passarono e se ancora qualcuno raccontava l’accaduto era solo perché nessuna nuova vicenda, altrettanto piccante, era accaduta per poter sostituire il racconto della fuga dei due amanti. Poi un giorno un gruppo di ragazzi, entrati in una carrozza furono incuriositi da una massa maleodorante nella quale, però, si distingueva qualche cosa che somigliava a una mano, un piede, e altri particolari che terrorizzarono i ragazzi.
Il medico legale non ebbe difficoltà a stabilire, più o meno, da quanto tempo i due corpi fossero morti così come, nonostante il loro avanzato stato di decomposizione, ancora poté distinguere il numero di ferite, anzi di rasoiate, come scrisse nel verbale, aveva causato la morte ai due cadaveri per i quali il riconoscimento trovò tutti d’accordo: Rosaria e Tonino.
La riconosciuta infermità di mente del barbiere e le testimonianze dei paesani, tutte a suo favore, – le donne in particolare sembrava che avessero, tutte, imparato la canzone di de Andrè- contribuirono a una lieve condanna che scontò in un istituto di igiene mentale, come poi si sarebbe chiamato il manicomio, dove rimase solo pochi anni.
Da qualche tempo è ritornato in paese ma non ha più riaperto la barberia; certo nessuno avrebbe offerto il proprio collo al suo rasoio. Le ferrovie hanno piombato i vagoni in attesa di portarli via; ma, ormai, i ragazzi non hanno più il coraggio di utilizzarli per i propri giochi.
Leggende e macabri racconti di zombi che si aggirerebbero di notte, per le strade del paese, ripetuti da molti, nonostante le omelie e le prediche del parroco, sono l’unica traccia dell’avvenimento anche se, di tanto in tanto, qualche giornale locale, a corto di fatti di cronaca, invia giornalista e fotografo per raccontare, ancora una volta, l’episodio.
Allora, i paesani, contenti di essere nominati nel giornale, fanno a gare a ricordare, a giurare di essere gli unici testimoni dei fatti di quei giorni e il racconto si gonfia, si arricchisce di particolari che nessuno, pur non ricordando, ha il coraggio di smentire. Dopo qualche giorno l’edicola espone il giornale con la pagina di cronaca tenuta con mollette. Molti si fermano a leggere, pochi comprano il giornale, tutti commentano. E così per qualche giorno ancora e poi tutto ritorna nella norma di una noiosa vita di paese.
Ora il terreno sotto i miei piedi trema; non faccio in tempo a voltarmi; ecco il convoglio, rapido, mi passa davanti investendomi con nuvole di polvere. In orario, il rapido delle diciannove fugge lasciando nel buio della sera una scia luminosa. Piano il frastuono del treno diminuisce mentre l’eco del suo fischio resta ancora un po’ di tempo nella valle.Come ogni sera, è tempo di rientrare.
Mi viene da pensare alla mia vita come a un treno ma non quello che, veloce, passa due volte al giorno piuttosto come a quei vagoni arrugginiti che prima o poi, verranno sfasciati.
©Riproduzione riservata
Foto da Pixabay

L’AUTORE
Già professore ordinario di storia dell’architettura all’università Federico II, autore di saggi, racconti e pubblicazioni collettive, Francesco Divenuto offre a lettrici e lettori un nuovo racconto dal titolo “Il treno dai toni malinconici. Come sempre, l’autore si lascia ispirare dalla realtà me dalla cronaca, senza tralasciare tracce di vita vissuta in prima persona.

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