Da pochissimi giorni è stato pubblicato il libro: “Gli autonomi – L’Autonomia operaia meridionale”, a cura di Antonio Bove e Francesco Festa. Il volume, edito dalla casa editrice DeriveApprodi, è contrassegnato dal numero romano X, poiché rientra in una collana tematica più generale dedicata alla storia dell’Autonomia operaia, movimento della sinistra extraparlamentare sorto in Italia negli anni Settanta del secolo scorso.
Il lavoro di Bove e Festa documenta in modo inedito e rigoroso le origini, le lotte e lo sviluppo di quest’area politico-culturale nel Mezzogiorno. Tanti e tali sono i materiali raccolti, che i due curatori hanno optato per la pubblicazione di una trilogia, che si concentrerà su tre differenti oggetti d’indagine. La prima parte è dedicata a Napoli e alla storia dell’autonomia proletaria meridionale nella città più popolosa del Sud. Ne parliamo con Francesco Festa.
Cos’era l’Autonomia operaia?
È stato un laboratorio politico-culturale. Faccio un esempio per rendere l’idea. Potenza, che è la città da cui provengo, nell’immaginario comune è il capoluogo di una regione ritenuta dai più una terra pacificata. Grazie al nostro lavoro, abbiamo documentato il fatto che negli anni ‘70 e ‘80, ben ventimila lotti abitativi vennero occupati grazie alle lotte promosse e organizzate dall’Autonomia operaia. Quelle occupazioni costituirono una prospettiva di vita per famiglie povere in una terra immiserita, che si riteneva appannaggio della Democrazia Cristiana. Soprattutto nelle province dell’entroterra, le cosiddette “terre dell’osso” – come le definì Manlio Rossi Doria-, l’Autonomia ha dato la possibilità di sperare, immaginare, sognare, costruire e disegnare tempo libero.

In alto, veduta dalla terrazza del centro sociale Officina 99. Sopra, la copertina del libro

Possiamo dire che è stato un movimento di liberazione?
Sicuramente sì, se si intende la liberazione dal punto di vista del lavoro. Quest’area ha portato avanti nel tempo un rifiuto dell’egemonia culturale del cosiddetto “fabbrichismo”, che albergava in formazioni della sinistra riformista.
L’Autonomia parlava anche della possibilità di organizzare il tempo libero o il divertimento che, in un contesto di oppressione familista come quello del Sud, era tutt’altro che scontato. Non a caso, in questo volume, figurerà anche un intervento di Peppino Impastato, che descriverà l’esperienza di RadioAut.
L’Autonomia era una forma mentis, una condotta, un modo di fare. Era il rifiuto del lavoro come fine esistenziale, ma anche il rifiuto dell’egemonia capitalistica, il cui primo nucleo nel Mezzogiorno è infuso nella famiglia, in una mentalità chiusa, controllata da una cappa democristiana e perbenista.
L’Autonomia al Sud fu anche il tentativo di declinare in un’altra forma la questione meridionale?
Fu un modo per rompere gli schemi pregressi in cui erano imbrigliati proletari, studenti, disoccupati.
Quel laboratorio di idee fu una vera e propria palestra di lotta per moltissimi giovani, che si aggregarono e formarono politicamente nei primi campeggi, che furono occasione di incontro, studio, socialità, divertimento. Lì, tanti ragazzi conobbero per la prima volta l’attivismo politico. L’Autonomia fu anche lotta alle organizzazioni mafiose. Prima menzionavo l’esperienza di Peppino Impastato, ma non è l’unica. Nel nostro lavoro abbiamo ricostruito anche l’esperienza di Africo – comune alle porte di Reggio Calabria- dove i militanti autonomi si armarono per combattere le cosche malavitose, entrando in scontro non solo con la ‘ndrangheta, ma anche con la polizia e lo Stato, colluso con la mafia. Quella fu una delle tante esperienze che espresse la differenza fra il militare nell’entroterra piuttosto che nei grossi centri metropolitani.
Da dove nasce l’idea di questo studio?
È un’opera scritta a quattro mani con Antonio Bove, studioso e attivista politico. Abbiamo intrapreso questo percorso due anni fa. Lo rimugginavamo da lungo tempo, forse dal 2004. Pensavamo che sarebbe stato utile ricostruire la storia dei movimenti sociali e dei movimenti di lotta nel Sud. Nella nostra mente risuonava sempre questa sorta di stigma che gravava su Napoli e il Mezzogiorno, realtà ricche di partecipazione, attivismo, movimenti ma su cui si era scritto troppo poco, se non sotto questa sempiterna dicitura di “questione meridionale”. Poi, Lanfranco Caminiti e Sergio Bianchi hanno lanciato con la casa editrice DeriveApprodi questa sorta di saga sulla storia degli Autonomi in Italia. Da quel momento in poi, ci siamo determinati a scrivere un qualcosa che colmasse quell’enorme vuoto di narrazione sull’esperienza e le peculiarità dell’Autonomia nelle nostre terre.
Com’è strutturato questo lavoro?
L’opera è divisa in tre parti e parla dell’autonomia proletaria meridionale. Il primo volume si concentra su Napoli. In apertura, c’è un intervento di Alfonso Latella, protagonista di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini. Dopo l’espulsione dalla FIAT, in cui organizzò il primo sciopero senza sindacati, Latella tornò nella sua Salerno, mantenendo uno spirito autonomo e divenendo punto di riferimento delle lotte operaie e dell’operaismo. Il libro prosegue alternando riflessioni teoriche e racconti, memorie, contributi collettivi. C’è un pezzo scritto da Francesco Caruso, che ricostruisce le radici del Sud Ribelle. Poi, un brano di Giso Amendola che analizza il rapporto tra sviluppo, sottosviluppo e rifiuto del lavoro, partendo da una riflessione sui classici dell’operaismo sul Mezzogiorno. Figurano, inoltre, una conversazione di Claudio Dionesalvi con Franco Piperno e una memoria di Lanfranco Caminiti su Primi fuochi di guerriglia, primo gruppo armato che pose al centro della sua elaborazione e della sua prassi combattente la specificità meridionale. Il contributo più voluminoso è composto da due saggi scritti da me e Bove. Per quanto riguarda gli altri due volumi in uscita – senza disvelare troppo – abbiamo fatto parlare le lotte sui territori e chi gli dava l’infrastruttura organizzativa.
Quando verranno pubblicate le altre parti dell’opera e di cosa parleranno?
Il secondo volume si concentrerà sulla Campania e dovrebbe essere pubblicato fra maggio e giugno. Il terzo episodio, invece, sarà incentrato sul Mezzogiorno, con documenti, storie e testimonianze raccolte tra Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia, che, stando al piano editoriale, dovrebbe uscire alla fine del 2022.

Il co-autore del libro, Francesco Festa

Avete fatto un lavoro enorme…
È un’opera su cui abbiamo impegnato due anni e mezzo di vita. Vi hanno contribuito tantissimi compagni e compagne. Lo spunto ci è venuto da una riflessione di Lanfranco Caminiti contenuto nell’Orda d’oro di Nanni Balestrini, in cui si parlava per l’appunto di autonomia meridionale. Ci siamo chiesti se questa realtà esistesse realmente. Io e Bove provenivamo da esperienze eredi di quell’area politica, come i centri sociali Officina 99 e lo SKA. Rispetto alle orgini, per un fattore di ricambio generazionale, ci sono stati addentellamenti. Nei movimenti c’era chi, facendo riferimento all’Autonomia, accentuava di più il tema del reddito e del salario, altri hanno provato a strutturare di più il movimento dei disoccupati o il movimento studentesco. Abbiamo riflettuto a lungo sulle caratteristiche di queste esperienze, che avevano una matrice comune, in quanto ispirate ad una massima di Renato Panzieri, che parlava dell’importanza di aprire e tenere aperti i movimenti. Questo è stato il background che abbiamo respirato nell’area in cui abbiamo militato ed è stato il filo rosso che abbiamo tenuto nell’opera.
Come avete riannodato i fili di questa storia?
Metodologicamente, ci siamo domandati chi fossero gli Autonomi prima dell’Autonomia nel Mezzogiorno. Perché un conto è parlare dell’organizzazione, in senso stretto, a Roma, Padova, Milano, Bologna, Torino, Genova, un conto al Sud, dove a una prima analisi le esperienze più significative parevano esprimersi soltanto a Napoli, Catania e Potenza. Per estendere la ricerca, abbiamo allargato il campo di riferimento e, via via, raccogliendo contributi, memorie, materiali, sono emerse le caratteristiche di soggettività di compagni che avevano militato in Lotta continua, però si erano spostati nel Coordinamento antinucleare e antimperialista, che è una realtà che ha segnato molto l’esperienza meridionale negli anni ‘80.
Quali furono le radici di classe di quella che definite ‘Autonomia proletaria meridionale’?
In termini marxiani, l’ambito politico in cui veniva agito il conflitto col capitale era la fabbrica. La presenza dell’Autonomia operaia era circoscritta ad alcune fabbriche, tutte importanti, come a Bagnoli, a Pomigliano d’Arco, a Giugliano, a Castellammare. Ma il vero pregio dell’Autonomia fu quello di muoversi in una prospettiva più metropolitana, analizzando realtà sociali lasciate ai margini. A partire da questa considerazione, si fece largo una diversa interpretazione del cosiddetto lumpenproletariat, che non era sottoproletariato, ma una realtà composita in cui l’operaio sociale – che oggi chiameremmo ‘precario’, figura emersa della terziarizzione produttiva – era già presente a Napoli dalla fine degli anni ‘70. Chi fa mille lavori per sopravvivere, è un lavoratore che produce sia in termini capitalistici, sia in termini di valorizzazione capitalistica.
Questo spinse l’Autonomia a intervenire in questi contesti sociali?
Nel nostro lavoro documentiamo la vicenda dei contrabbandieri, dei disoccupati, dei portantini negli ospedali. C’erano compagni che organizzavano questi segmenti, come Raffaele Paura. C’erano tanti comitati e collettivi distribuiti nella città, che agivano anche nel settore studentesco. Emerse col tempo un laboratorio politico che, per quanto avesse contatti nelle principali aziende del territorio, non era legato alla fabbrica, ma esprimeva un mondo frastagliato. Tutto era raccolto in una dimensione liquida, ossia distribuita e parcellizzata, che faceva riferimento a livello nazionale ai Comitati autonomi operai.

L’ingresso del C.S.O.A. Officina 99 [Photo credit: Daniele Maffione]

Vi furono altre caratteristiche significative?
Rispetto ad altre realtà, a Napoli i militanti di quest’area furono prevalentemente marxisti-leninisti. C’era una rivista, Lotta di lunga durata, da cui sono emersi tanti compagni ancora attivi nel sindacato. Queste radici ideologiche definirono Napoli come una sorta di ‘anomalia italiana’, cosa che, tuttavia, non le impedì di partecipare all’area nazionale degli Autonomi.
Che cosa rappresentano esperienze come i centri sociali Officina 99 e il Laboratorio occupato Ska nella ricostruzione di questa storia?
La liberazione di questi spazi ha origini molteplici. Sostanzialmente, si tratta di un fatto generazionale. Rispetto agli anni ’70, tanti compagni e compagne si formarono nel movimento studentesco della Pantera. Come dicevo, negli anni ‘80, mentre molti compagni erano finiti in carcere preservando le loro idee, c’erano state le esperienze del Coordinamento antinucleare e antimperialista e dei campeggi politici, che generarono l’amalgama da cui provennero nuovi militanti che andarono poi ad occupare Officina 99, divenuto poi il patrimonio di trasmissione di alcuni metodi di lotta. L’idea era di dare più importanza ai movimenti, pensando che l’accumulo di energie nelle fasi di riflusso potesse tenere aperta la possibilità al cambiamento dei rapporti di forze, anziché farli confluire in tentativi elettorali. “Prima la classe e poi il capitale”, si diceva. Questa cosa si è poi, evoluta in prima il soggettivismo e poi l’oggettivismo.
Cosa intendi?
Questa dicotomia la si comprende soltanto a distanza di tempo. Oggi, questo dibattito fra la realtà e il tipo di organizzazione che serve per cambiarla è pressochè inesistente. L’eredità è questa. Nel 1993, il Coordinamento si ruppe. I padovani presero la via della “Carta di Milano”[1], e sostennero poi la fondazione delle Tute bianche[2], compiendo la scelta di fare entrismo nelle istituzioni. Il che segnò la divisione nel movimento dei centri sociali. Sembra una storia confusa, ma se la si legge in termini di soggettività, concetti, grumi teorici, c’è un continuum. Lo stesso movimento della Pantera nacque da quell’humus e a Napoli venne animato da compagni che si riunivano prima al Riot dei Banchi Nuovi. Poi, spostarono il loro baricentro all’università, cavalcando l’onda della Pantera e dando origine ad una nuova stagione di lotta sotto il segno dell’Autonomia.
Nel vostro libro, allora, bisogna leggere anche un tentativo di liberare dalla damnatio memoriae la storia degli Autonomi meridionali?
È il nostro auspicio. Speriamo che questo lavoro possa far discutere, fornendo un altro sguardo al Mezzogiorno e alla partecipazione nel sociale e nel civile, inteso come protagonismo di cittadini, abitanti, popolazione. La verità è che sono state condotte moltissime lotte nel Sud, ma si è scritto troppo poco. Forse, è questa l’origine della damnatatio memoriae. Questa trilogia può far parlare della questione meridionale, non nel senso classico del termine, intesa dall’alto, ma spiegandone la complessità.
A quale pubblico vi rivolgete?
Parliamo a chiunque voglia conoscere la geografia urbana e i contesti sociali. Su questi temi, ci sono pochissimi volumi, che hanno un taglio prettamente accademico o sociologico, che hanno studiato dall’esterno questa realtà -esterno inteso come venuto da fuori- e si interrogano sul fervore napoletano. Può sorprendere, ma l’argomento da noi trattato è stato molto studiato da ricercatori di università anglo-americane. Tuttavia, non si è studiata ciò che è stata la sottrazione, in termini politico-criminali, della società secondo categorizzazioni ben precise.
Quanto è cambiata la Napoli descritta nel libro rispetto a quella attuale?
Icasticamente tanto. Le piazze e gli spazi pubblici sono mutati nel tempo. Napoli è un enorme spazio pubblico, nel senso politicizzato del termine. È sempre stato un luogo di incontro, scambio, fermento, vitalità, lotta. Oggi, invece, è uno spazio prevalentemente economico, con esercizi commerciali, boutique, ristoranti, bar in ogni dove. Ambiti che prima erano per lo più circoscritti ad alcune strade o zone – come il Vomero, via Toledo, corso Umberto – adesso hanno invaso l’intera città, ancor più dopo la pandemia. Anche perché i movimenti sociali, oggi, nonostante la loro generosità, fanno fatica a contendere la città, intesa come spazio pubblico, a quest’ondata.
Quando parli di continuum tra passato e presente dell’Autonomia napoletana, a cosa ti riferisci?
Quello che si sta facendo in termini di lotte sociali sul lavoro, è stato il vero filo rosso di questa storia. Per tutti gli anni ‘90, la continuità si è espressa nelle lotte dei disoccupati, che sono state importantissime e, per certi versi, uniche nel panorama italiano. Quelle hanno tenuto vivo un retroterra. Le lotte studentesche hanno trovato poi, un altro tipo di catalizzazione e organizzazione. Tuttavia, sarebbe utile ritrovare una discussione comune sulla prospettiva, che è la cosa che manca di più in questa fase storica.
Quale pensi che sia il futuro del pensiero autonomo nel Mezzogiorno?
Vive laddove è stato trasmesso e tramandato. A Napoli, sopravvive in alcuni spazi sociali, nonostante la diaspora dell’attivo politico del passato. Non è solo una questione generazionale, ma anche di pratiche. Il pensiero dell’Autonomia ha invaso, in alcuni momenti, anche il programma di Rifondazione Comunista o di organizzazioni marxiste-leniniste, a partire dall’idea che la classe e i proletari si dotassero di una propria organizzazione autonoma. Questa autorganizzazione può essere fattore produttivo e organizzativo delle risorse pubbliche, facendo diventare comune l’eredità del pensiero operaista e autonomo. Bisognerebbe ragionare al di là della propria soggettività per raggiungere questo obiettivo.
I centri sociali potrebbero svolgere nuovamente una funzione propulsiva per il conflitto sociale?
Quelli che ci sono svolgono un ruolo lodevole, anche se non so dire quanto tramandino la pratica di lotta. Sicuramente, la proliferazione di esperienze che c’è stata in questi anni è diventata foriera di isole della rete del conflitto. Tuttavia, è necessario non stare fermi nei luoghi. Officina 99 ci serviva dal punto di vista logistico, per l’organizzazione della nostra area politico-culturale, per l’autofinanziamento. Era lo strumento, non il fine. Per noi, era uno spazio in cui si organizzava la lotta e il tempo libero e liberato dal lavoro, dal familismo, dallo Stato, dal capitale. Non era un luogo in cui trincerarsi. Bisogna lottare ancora tanto per preservarne l’idea, la memoria storica, la funzione sociale per non scadere in logiche alienate e alienanti.
©Riproduzione riservata


NOTE

[1] Documento stilato dall’assemblea nazionale dei centri sociali riunitasi nel Settembre del 1998 al Centro sociale “Leoncavallo” di Milano. Per approfondire, si rimanda al seguente link: http://www.ecn.org/leoncavallo/26set98/

[2] Per una prima infarinatura su questo movimento, consulta il link: http://www.alloradillo.it/le-tute-bianche/

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