Tutto era cominciato in un albergo romano: una coppia di turisti cinesi si era sentita male ed era stata ricoverata in ospedale. La notizia, riportata dai telegiornali della sera, aveva provocato curiosità, qualche domanda sulla causa del malessere ma niente di più.
Un politico ne aveva approfittato per ricominciare con le solite litanie anche se una borghese coppia cinese che stava trascorrendo, nel nostro Paese, una lunga vacanza soggiornando nei migliori alberghi non poteva certo essere paragonata ai tanti poveri disgraziati che, ogni giorno, tentano di arrivare sulle nostre coste sognando il Paradiso.
Quel fine settimana, eravamo ancora in inverno, molti affollarono le piste sulle dolomiti. Roma è lontana, pensarono in molti dedicando ai malati, intanto aumentati, la stessa attenzione che, di solito, ogni sera, si dedica al telegiornale.
Il lunedì mattina qualcosa era già cambiato. In un piccolo paese lombardo un giovane uomo aveva accusato un inspiegabile malessere dopo una cena con un suo amico, rientrato da qualche giorno, come si seppe dopo, da un viaggio di lavoro proprio in quelle terre lontane. I giornali e l’opinione pubblica non impiegarono molto a unire i due episodi concludendo che da quelle terre c’era un virus che si trasmetteva con estrema facilità. Qualche politico aveva accusato abitudini alimentari di quel lontano paese. I focolai dell’infezione erano diversi: in Paesi distanti fra loro, infatti, gli ammalati presentavano gli stessi sintomi; la mobilità fu individuata come la causa principale del diffondersi dell’infezione.
Circoscrivere il contagio era impossibile e chiudere le frontiere si rivelò inutile. Dalle zone più colpite cominciò un esodo disordinato. Chi poteva abbandonò il luogo di lavoro. La fuga si rivelò una pessima idea poiché molti, insieme alle proprie paure, portarono nelle terre d’origine anche il contagio sia pure senza accusare sintomi evidenti. Si capì, allora, che questo virus, nuovo per gli studi scientifici, si diffondeva servendosi anche di persone apparentemente sane, asintomatiche come furono definite.
Per la prima volta i mezzi di comunicazione parlarono di pandemia. I medici non sapevano come affrontare questa emergenza. Medicinali utilizzati per precedenti epidemie si rivelarono inutili.
Negli ospedali la gente moriva e anche fra gli operatori sanitari, si contavano non poche vittime. Le strutture pubbliche non riuscivano a contenere i continui ricoveri; nelle periferie di molte città, allora, fu necessario montare ospedali da campo. Sanitari, infagottati in tute spaziali, passavano sugli schermi televisivi. Volti stanchi, stravolti dalle troppe ore trascorse con le mascherine; occhi spenti nei quali si rifletteva il terrore del loro lavoro. Numeri impietosi sommavano, giorno per giorno, i ricoveri, i guariti e, soprattutto le vittime.
Per qualcuno, più ostinato, questa epidemia, in fondo, era una regolare malattia che colpisce ogni anno le fasce più anziane della popolazione. I medici, da giorni, ripetevano che morivano gli anziani già minati da patologie pregresse. Questa diagnosi divenne la facile consolazione mentre nelle case di riposo avveniva una vera ecatombe conseguenza, si scoprì dopo, di stupidità, negligenza ma anche di malaffare politico. La pochezza, anche morale, affiorò nelle iniziative di approfittatori che tentarono spregiudicate manovre economiche.
Indossare mascherine e rispettare la distanza sociale furono suggerimenti mal sopportati. In poco tempo, l’isteria generale prese il sopravvento; anche l’ipotesi di un virus preparato in laboratorio, da una potenza straniera, divenne la verità accettata da molti.
Attività e luoghi pubblici, come cinema e teatri, furono costretti a chiudere; proibito ogni assembramento, anche le scuole furono costrette a chiudere come molte attività lavorative. Misure inutili ed allora “Tutti a casa” divenne l’unica precauzione possibile.
In alcune attività, il lavoro fu organizzato con il criterio smart working. Le scuole tentarono interessanti esperimenti; in realtà l’insegnamento, con lezioni on-line, evidenziò difficoltà da parte dei docenti e delle famiglie. Chi aveva figli in età scolare constatò la propria impreparazione tecnologica. Stanchi padri e volenterose mamme dovettero riconsiderare l’importanza dei polinomi; i risultati furono un mezzo fallimento e le distanze fra le classi sociali e le generazioni aumentarono; l’assenza del computer, in molte famiglie, sottolineò le diseguaglianze sociali.
La necessità di evadere da tutto questo divenne un’esigenza. Ci suggerirono, allora, di scaricare sul cellulare un App che ci avrebbe avvertito se, nelle vicinanze, ci fosse stato un contagiato da fuggire come un appestato. Una volta questi erano obbligati a portare un campanello che rivelava la loro presenza. Ma la tecnologia, sì sa, chiede un suo ruolo. Comunque pochi capirono l’effettivo uso di questo strumento mentre molti, temendo invasione nella propria sfera privata, lo rifiutarono accettando, però, il suggerimento dei guanti, della mascherina e, soprattutto, della distanza.
Intanto le file di mezzi militari che trasportavano le bare dei deceduti nei crematori, diventavano sempre più lunghe; la solitudine e l’anonimato di quelle bare divennero il paesaggio delle periferie delle nostre città. Vuoto e silenzio scandivano i lunghi pomeriggi e l’ululato delle sirene, peggiorava le condizioni psicologiche degli abitanti.
Ma la solitudine ha un prezzo e non per tutti fu un momento felice. A spazi liberi come terrazzi e giardini, per alcuni, per molti altri la dura realtà, erano pochi metri quadrati in cui vivere; insomma per troppi, quei giorni divennero giorni di una insopportabile prigionia e le case trappole nelle quali i rancori scoppiarono insanabili.
Nelle prime settimane molti balconi furono addobbati con bandiere, striscioni di incoraggiamento e non pochi improvvisarono concerti con canti e musiche che si inseguivano di palazzo in palazzo, di strada in strada.
Egoismo e insofferenza si manifestò in tutto il Paese Dove meno sembrava che il virus avesse colpito, ci furono atteggiamenti irresponsabili; qualcuno, approfittando del caldo, tentò una sortita sulla spiaggia; un cittadino, notizia diffusa su tutte le reti, ogni giorno andava a fare il bagno ed ogni giorno veniva multato. “Sono libero” diceva ai carabinieri, e sono “ricco”, aggiungeva subito dopo. Non si accorgeva di essere solo un poveraccio senza dignità, un volgare individuo non degno di essere chiamato cittadino. Fu necessario ricorrere a misure ancora più drastiche.
I telegiornali ripetevano “lockdown” senza avanzare nessuna ipotesi di ripresa. Intanto il virus, con buona pace dei complottisti, continuava spietato a colpire senza distinguere, ceto, età, o luogo perché le grandi aree urbane, così come i piccoli centri, furono colpiti con una virulenza che lasciava senza spiegazioni; e quando il numero dei morti aumentò, giorno per giorno, molti, con tristezza ma anche con rassegnazione, tolsero, dai propri balconi i lenzuoli con la scritta “andrà tutto bene”.
Un atavico rancore, tutto italiano, trovò un nuovo argomento sul quale manifestarsi; nessuna categoria si salvò: medici contro colleghi, politici che cercavano motivazioni ai propri errori, gente comune che si ritrovò a discutere di argomenti di cui gli stessi specialisti sapevano poco.
Una sera arrivarono le immagini dei poveracci che, in Ecuador, morivano per strada o dei morti allineati nei loro bianchi sudari e seppelliti nella fredda terra del cimitero di Hart Island a New York, erano scene raccapriccianti che ponevano interrogativi ai quali nessuno sapeva rispondere. E la piazza deserta di San Pietro con la bianca figura del pontefice che avanzava, tutto solo nella notte piovosa, lasciò, in ognuno, una sensazione di solitudine e di impotenza di fronte al male che non dava tregua.
Era una rivincita della natura? Si chiese qualcuno. Può essere un invito a riconsiderare il nostro costume di vita? Ogni sera i comunicati televisivi, insieme al numero dei decessi ed alle inchieste giudiziarie, informavano delle iniziative di assistenza. Il Paese rispondeva; militari ed associazioni di volontari si organizzarono; la solidarietà diventò una catena umana che cercava di sopperire alle enormi esigenze per gli strati più poveri della popolazione ma non mancarono atti di sciacallaggio e vere truffe. Come sempre, il bene e il male convivono individuando il carattere di un popolo.
La normalità tardava ad arrivare; fu chiaro che bisognava abituarsi a vivere in queste condizioni. E non era facile. Anche la pietà umana, ad un certo punto, chiede una tregua.
Riaprire le attività, come da più parti si chiedeva, poteva essere una soluzione anche a costo di un continuo stillicidio di decessi. Si muore di malattia ma si muore anche di fame. Non pochi si convinsero che il tributo di morti da pagare doveva continuare ancora mentre gli operatori sanitari avvertivano che per il vaccino c’era un’attesa senza data certa.
Non si andava oltre quelle misure preventive già suggerite all’inizio dell’epidemia: lavarsi bene le mani, uscire solo per necessità, in pubblico utilizzare guanti e mascherine e, soprattutto, osservare le distanze sociali. Brutta espressione per indicare la necessità di stare ad un metro almeno di distanza nei luoghi pubblici. Spostarsi nel proprio comune divenne difficile e, comunque, sconsigliato per evitare che anche persone della stessa famiglia potessero contagiarsi. In certi casi, questa distanza divenne una paranoia come le proposte dei corridoi di plastica nei quali soggiornare andando in spiaggia. Per fortuna queste proposte estreme non ebbero fortuna. Ma tutti diventammo sospettosi; vecchi amici, incontrandosi, mormoravano un ciao, sempre dietro la mascherina che impastava parole ed allontanava sentimenti. Il concetto di alienazione non fu mai così chiaro. La forzata separazione creò malinconie profonde; nonni separati dai nipoti, genitori soli con figli lontani.
Chi cercava conforto nella fede si trovò in difficoltà. Segnarsi con l’acqua santa manco a pensarci e la comunione divenne il gesto del prete che allungava il vassoio, con l’ostia, verso il fedele.
Intanto la quotidiana convivenza, in molte case, non fu indolore; una spesa condominiale o in farmacia per i vicini, fu letta come solidarietà laddove, spesso, mascherava solo un pretesto per uscire.
Mai fu tanto apprezzato quel quarto d’ora d’aria speso per portare giù, nella strada, l’immondizia o fare il giro del palazzo per le necessità del cane di casa. Figli, ai quali, ogni giorno, era stato necessario imporre di portare giù il cane, si scoprirono amanti degli animali; anche il vecchio nonno lasciava volentieri la sua postazione davanti al televisore, che aveva monopolizzato.
E chi era rimasto solo? Chi si prendeva cura degli anziani? Adattarsi alla presenza di una badante non era stato facile ma sentire un rumore in un’altra stanza, una fontana che scorreva allegra in cucina, una voce che cantava, sia pure con parole straniere, divenne una solidarietà mai così desiderata.
C’erano però anche i solitari per scelta. Riordinare cassetti nei quali erano naufragati ricordi di feste, vecchie foto di tempi lontani, oggetti inutilizzati, scorie di vite dimenticate tutte operazioni che durarono pochi giorni e poi il vuoto ed il silenzio imposero la loro presenza destabilizzante.
Qualcuno riconsiderò antichi interessi. Furono ripresi studi abbandonati o mai terminati: i dischi del Corso di russo o di quello mai completato d’inglese, per qualche giorno, gracchiarono parole incomprensibili anche se ascoltate fino allo sfinimento.
I pianoforti ripresero a suonare, nonostante tasti incastrati ed ormai inamovibili, cavalletti e colori conservati in tubetti rinsecchiti presero posto davanti a finestre e balconi creando pinacoteche senza visitatori.
La propria ombra divenne l’amico con il quale parlare e la propria immagine riflessa nello specchio diventò una presenza necessaria. Tutti si resero conto che pur vivendo in mezzo agli altri ognuno, ormai, restava irrimediabilmente solo. Sarebbe stato così il giudizio universale? Ognuno condannato a restare solo?
I più malinconici, per non dire degli ipocondriaci, furono presi da una nuova paura: morire da soli e restare abbandonati nelle proprie case. Le luci accese, in ogni ambiente, divennero un segnale per i vicini ed anche la ginnastica esibita sul balcone, una necessità quotidiana per segnalare, agli altri, la propria esistenza divenne uno stanco agitare le braccia che si muovevano nell’aria.
Bisognava evadere se non fisicamente almeno con il pensiero. Chi, in particolare i più anziani, incapace di smanettare per le videochiamate e sprovvisto di sofisticati smartphone, si arrese all’uso del telefono; ma, dopo qualche giorno, l’antico strumento di comunicazione perse le sue funzioni consolatorie; la telefonata dell’amico sembrò un rito scontato o peggio una sorta di appello per controllare quanti fossero sfuggiti alla decimazione. Amici e parenti si stancarono presto di sentire, nell’apparecchio, l’eco della propria solitudine. Ogni manuale di sopravvivenza fu abbandonato.
Molti trascurarono anche la cura personale; vecchie tute, con borse sulle ginocchia, e felpe, con i polsi sfilacciati, divennero la divisa d’ordinanza. Barbuti signori e donne in vestaglia ciabattavano per poi sprofondare in poltrone e divani.
Qualche politico, in cerca di facili consensi, si inventò stratagemmi per consentire ai suoi amministrati di uscire. Le visite a lontani parenti, mai più visti dal giorno del matrimonio, devennero congiunti bisognosi di assistenza.
Poi, all’improvviso, arrivarono i primi vaccini per la pandemia battezzata Covid19 (acronimo di CoronaVirusDisease). Tutti affollarono i luoghi nei quali venivano somministrati; insieme all’effetto medico la vera cura arrivò dal ritrovato rapporto umano anche se le lunghe file erano mal sopportate; non mancarono scorciatoie e furberie mentre il partito dei No-Vax ebbe un certo seguito almeno nei commenti; un insieme di egoismi e di luoghi comuni avevano un solo obiettivo: cercare il colpevole. Additarlo fu un esercizio al quale pochi politici, giornalisti ed opinionisti improvvisati, si sottrassero.
I senza dimora si resero conto che qualcosa era cambiato perché dai loro improvvisati rifuggi di cartone, videro una gran folla passargli accanto, indifferenti. Per loro non fu un miglioramento; i volontari erano scomparsi e loro erano ritornati un arredamento della metropoli.
Anche se tutti continuarono a indossare le mascherine non era insolito vedere, uomini e donne, utilizzarle come un oggetto di abbigliamento. I negozi riaprirono ma ritrovare una normalità non fu facile. La ripresa di ogni attività pretese tempi e modalità difficile da stabilire. La distanza, questa volta sociale, fra le persone era aumentata. Nei mezzi pubblici tutti si guardavano con sospetto; e se uno tossiva la fermata prossima era quella in cui ognuno ricordava di dover scendere. In molte categorie prevalsero gelosie e invidie; dispute sull’efficacia dei vaccini sorsero fra medici, per motivo di prestigio offeso, e fra politici i quali tentavano di ricavare un utile personale da quella situazione di difficile convivenza.
Non ci volle molto per capire che niente era più come era stato prima. Chi aveva creduto che la tecnologia ci avrebbe aiutato a risolvere le esigenze quotidiane si dovette ricredere. Strumenti sofisticati furono abbandonati come inutili. Anche l’applaudito smart working dopo poco si rivelò una trappola infernale; convivenze forzate misero a dura prova le famiglie.
Poi riaprirono i ristoranti e anche qui le difficoltà da superare non furono poche. I tavoli distanziati non furono il problema peggiore, almeno per i clienti, ma i divisori in plastica, sul tavolo, costrinsero a ginnastiche impensabili mentre sulle spiagge la distanza, stabilita fra gli ombrelloni, se le prime volte divenne un invito a godere la propria privacy, poi trasmise un senso di solitudine.
Ma fu nel campo lavorativo che si ebbero i maggiori cambiamenti. Andando dal parrucchiere ogni cliente dovette rinunciare al gossip: senza settimanali, una cliente per volta e la shampista lontana relegata dietro mascherina e visiera da astronauta. Chi invece soffriva per la mancanza di spettacoli, non trovò nessun godimento da film, opere e concerti trasmessi in televisione. Lo spazio delle sale pubbliche, così come quello dello stadio, ha un fascino insostituibile. Il medico di base inviò le prescrizioni via e-mail e tutti fummo costretti prendere confidenza con il computer.
Una visita dal dentista o dall’oculista comportò una prenotazione di giorni con attese estenuanti mentre per andare in banca occorreva prendere un appuntamento. Il programma della giornata era stabilito dagli appuntamenti presi una settimana prima; guai a dimenticare che quel giorno, e solo quello, l’idraulico ti aveva promesso di passare per riparare quel maledetto impianto che gocciolava tutta la notte.
Alcuni politici ripresero i loro progetti: no agli sbarchi, ma una cosa era gridare prima gli italiani, e un’altra fu rendersi conto che, nei campi, se non ci andavano poveri disgraziati, sfruttati e schiavizzati, non si trovavano lavoratori disposti ad andarci. Purtroppo molti continuarono a manifestare; fare il negriero, in fondo, un vantaggio te lo da: ti fa sentire migliore di quello che sei senza fare troppa fatica. Gli aiuti dello Stato alle imprese richiesero pratiche burocratiche, ma qualche società ottenne sussidi per danni denunciati ma, in realtà inesistenti. La miseria umana non ha limite.
Iniziò una ribellione alle regole fatta di piccoli gesti ma anche di affollati incontri: partite di calcio, strade intasate per la movida; in particolare, i giovani esibirono l’incosciente disinvoltura della propria età; ma poi anche gli adulti cominciarono a rivivere le loro abitudini, senza alcun ripensamento.
Anche i giornali smisero di pubblicare l’elenco degli ammalati e dei deceduti; l’epidemia ormai veniva vissuta come un male endemico, una realtà con la quale bisogna convivere; e il vaccino fu ripetuto con una discreta frequenza.
Sono trascorsi alcuni anni. In Italia si sono avute più di duecentomila vittime; ora tutto sembra rientrato nella normalità; i medici e gli infermieri sono usciti dall’attenzione dei giornali e, purtroppo, anche dalle promesse dei politici; e i contrari ai vaccini hanno ripreso a dire la loro.
È di nuovo autunno e, come ormai da qualche tempo, i primi raffreddori vengono vissuti con attenzione. Le paure sono diminuite ma tutti ci chiediamo se una nuova pandemia è possibile semmai sotto forma diversa. I medici, quelli più informati, ammettono di non avere risposte certe.
Chi aveva previsto un cambiamento nelle nostre abitudini, ha dovuto ricredersi: siamo e restiamo degli inguaribili egoisti e se il prezzo da pagare è troppo alto, bene, un nemico al quale addossare la colpa lo si trova sempre che diamine!
©Riproduzione riservata
L’AUTORE
Già professore ordinario di storia dell’architettura all’università Federico II, autore di saggi, racconti e pubblicazioni collettive, Francesco Divenuto ci invita a ricordare cosa è successo quando è scoppiata la pandemia a livello mondiale. E ci ricorda quanto forse siamo peggiorati, conservando intatto il nostro egoismo. A volte acuendolo, anche.