L’universo è cambiamento,
la nostra vita è conseguenza dei nostri Pensieri
Marco Aurelio
Custodi del pensiero
Ricostruire i pensieri e le idee che abbiamo ascoltato, quando ancora non sapevamo di doverne essere i custodi, ci affida una responsabilità profonda. Senza il contesto che li ha generati — storico, culturale, personale — questi concetti rischiano di apparire oscuri, talvolta addirittura incomprensibili. Mancando gli appigli necessari, potremmo smarrirne il senso più autentico.
Per restituire loro chiarezza e immediatezza, possiamo immaginare di ascoltarli direttamente dalla voce di chi li ha formulati. Come se ci parlasse oggi, spiegando le ragioni, le intuizioni e le urgenze che hanno dato forma a quelle idee. Così il pensiero non si limita a essere trasmesso: torna a vibrare, a riattivarsi, a vivere.
È questo il motivo che mi ha spinto a scrivere questo testo ricostruendo il pensiero di Sergio in una lettera.
Essere custodi del pensiero significa non solo conservarlo, ma renderlo vivo. E per farlo, dobbiamo imparare a dialogare con le sue origini.
Un sogno di fraternità universale
L’idea di creare qualcosa che unisca le persone mi riporta alla mia infanzia, quando frequentavo la scuola delle suore sulle “montagnelle” di Monte Echia, a Pizzofalcone. Quelle religiose, rigorose nei comportamenti ed esigenti nei compiti, sapevano affascinarmi con le loro parole sulla fraternità universale. Quando parlavano di un mondo senza barriere, avevo la sensazione di sollevarmi da terra e di oltrepassare i confini tracciati dagli uomini.
Molti anni più tardi, nel palazzo in cui vivo, in piazza Santa Maria degli Angeli, si è insediata una comunità del Movimento dei Focolari, composta da persone provenienti da diversi continenti. In quel momento ho percepito che il sogno d’infanzia — un mondo in cui tutti, indipendentemente dal luogo di nascita, dal colore della pelle o dal genere, possono godere delle stesse opportunità — stava assumendo una forma reale.
Le contestazioni studentesche degli anni Settanta mi hanno ricordato quanto spesso questo ideale fosse stato tradito. Ma non avrei immaginato che, con il tempo, potesse addirittura scomparire dall’orizzonte dell’umanità.
Le disuguaglianze che segnano il destino
Nel corso dei miei viaggi ho potuto osservare quanto profonde siano le differenze socio-economiche che attraversano il pianeta. Il semplice fatto di nascere in un luogo anziché in un altro può determinare in modo irreversibile il cammino di un’intera vita.
I paesi più ricchi, da sempre, si adoperano per proteggere i propri privilegi: difendono le loro risorse, rivendicano il diritto di consumare senza limiti ciò che il pianeta offre, pongono i propri bisogni davanti a quelli delle nazioni più fragili.
Quando prevale la legge del più forte, le norme che tutelano i più deboli vengono ignorate. Si diffonde un’allergia alle regole, una resistenza a ogni forma di controllo.
Negli ultimi anni, queste malattie dell’animo umano — che gli antichi chiamavano hominis tabes — sembrano aver preso il sopravvento sulla nostra breve esistenza. Ci impediscono di cogliere il senso del prima e del dopo, di riconoscere la continuità che ci lega alle generazioni future e la responsabilità che ne deriva.
Siamo migranti da sempre
Gli esseri umani migrano da sempre, per necessità o per scelta. è così che ci siamo evoluti. Se guardiamo al passato, scopriamo che, ovunque ci troviamo oggi, c’è stato un nativo prima di noi. La migrazione è un fenomeno strutturale, parte integrante dell’identità umana.
La nostra plasticità cognitiva, la flessibilità dei comportamenti e la straordinaria capacità di adattamento si sono formate proprio attraverso i continui spostamenti. Siamo migranti da due milioni di anni.
A volte si migra perché costretti da guerre, discriminazioni o conflitti; altre volte a causa dei cambiamenti climatici, spesso alimentati dalle azioni poco lungimiranti di Homo sapiens.
In fondo, siamo tutti migranti della vita: il corpo, la mente e il cuore formano un unicum che si costruisce e si trasforma nel contatto con il mondo, materiale e immateriale. È un cammino che ci arricchisce e ci consente di arricchire gli altri, prima di concludere il nostro viaggio.
Il legame profondo tra persone e luoghi
La relazione che lega le persone ai luoghi che abitano è un vincolo profondo, fatto di attaccamento e interdipendenza. In passato, i territori, attraverso i frutti della terra, hanno nutrito gli abitanti e ne hanno modellato perfino la corporeità, sancendo così la forza di quel legame.
Oggi, in un mondo in cui gli scambi commerciali spostano prodotti da un capo all’altro del pianeta, la Terra continua a nutrire e plasmare la vita degli uomini. Tuttavia, l’attaccamento allo spazio del proprio vissuto sembra indebolirsi. Resta, però, il fascino del mistero che scaturisce dall’incontro tra atomi, compagni di viaggio nati da un’unica origine. Tutto ha avuto inizio da uno scambio primordiale tra spazio, energia e tempo — una grande esplosione che ha trasformato l’energia in materia e dato vita all’universo,
Il legame tra le persone e i luoghi prende forma attraverso le azioni che vi compiono: costruire, abitare, seminare, raccogliere. In questo modo, lo spazio diventa un’estensione del corpo, intrecciandosi con la storia personale.
A questo rapporto si possono attribuire funzioni fondamentali:
- Costruzione dell’identità, dove i luoghi diventano codici attraverso cui interpretiamo noi stessi e la società.
- Creazione di significato, trasformando gli spazi in testi narrativi e simbolici che raccontano valori, esperienze e memorie.
- Relazioni sociali, nate dai contesti privati delle case e sviluppate negli spazi comuni della comunità.
Un luogo non è racconto solo per la sua presenza geografica, ma perché viene riconosciuto, vissuto, amato. Gli attribuiamo una dimensione culturale e sociale.
Per descrivere questo profondo legame affettivo, si ricorre a due parole greche: topos (luogo) e filía (amore). La loro unione esprime la complessità di un rapporto che, da collettivo, sa diventare personale e intimo, generando un autentico senso di appartenenza.
Parthenope: il mito che fonda Napoli
Come per molti, anche per me il legame con Napoli è profondo e viscerale. Le sue origini affondano nelle acque del mito e nella figura di Parthenope, nome attribuito al primo nucleo abitativo sorto nei pressi dell’isolotto di Megaride.
La prima Parthenope è una sirena. Secondo Omero, le sirene – creature simili a muse e sibille – conoscono tutto ciò che è accaduto e accadrà. Il loro canto promette una conoscenza assoluta, simbolo del desiderio umano di superare i propri limiti e accedere a una dimensione divina. Ma questa conoscenza ha un prezzo: la morte. Nel mondo antico esse incarnavano l’attrazione irresistibile verso il sapere e venivano raffigurate come esseri metà donna e metà uccello, unendo la sensualità femminile al canto ammaliante degli uccelli.
Secondo i miti, le sirene erano un tempo ancelle della dea Persefone. Quando la giovane venne rapita da Ade, e le fanciulle non riuscirono a salvarla, Demetra, madre di Persefone, le trasformò in sirene. Da allora, persa la loro umanità, iniziarono a incantare i marinai con il loro canto, conducendoli alla rovina. Un’altra versione racconta che furono punite da Afrodite, offesa dal loro disprezzo per l’amore.
Nel libro XII dell’Odissea, Omero racconta di Ulisse, l’eroe assetato di conoscenza, che desidera ascoltare il canto delle sirene, ma sa che il pericolo non risiede solo in loro, bensì anche nelle proprie passioni. Su consiglio di Circe, tappa le orecchie dei compagni con la cera e si fa legare all’albero della nave, per resistere al loro richiamo. Le sirene gli promettono gloria e conoscenza infinita. Ma è proprio il motto greco γνῶθι σεαυτόν — “conosci te stesso” — a salvarlo: solo conoscendo le proprie debolezze si possono affrontare e superare.
Il viaggio di Ulisse rappresenta la ricerca umana della conoscenza, il canto delle sirene, la sua tentazione più potente. Un sapere assoluto che, se perseguito senza misura, può spezzare i legami con la vita e con gli altri. La vera conoscenza, invece, cresce nella condivisione e alimenta il sogno dell’eternità.
La leggenda racconta che, dopo il fallimento nel sedurre Ulisse, Parthenope, sopraffatta dal dolore, si lasciò morire: un desiderio di morte come riflesso inseparabile di un legame non corrisposto. Le onde trasportarono il suo corpo, fino alla costa dove si fuse con la terra: la testa divenne la collina di Capodimonte, la coda quella di Posillipo. Così nasce Napoli, città radicata nel mito e nella poesia.
Un’altra versione, attribuita all’Ottocento, narra di un amore tragico tra la sirena Partenope e il centauro Vesuvio. I due si amano profondamente, ma Zeus, geloso delle loro affettuosità, li separa e trasforma Vesuvio in un vulcano. Partenope ora può continuare a vederlo ma non può più toccarlo. Incapace di sopportare la lontananza, si getta in mare e muore. Le onde la trasportano fino a Megaride, dove il suo corpo si fonde con la terra, dando vita alla città.
Infine, la scrittrice napoletana Matilde Serao, agli inizi del Novecento, offre una versione più umana: Partenope è una giovane greca innamorata dell’eroe ateniese Cimone. Ostacolati dal padre di lei, i due fuggono e approdano nel golfo di Napoli, dove vengono raggiunti dalle famiglie e fondano il primo nucleo della città. In questa narrazione, Partenope non muore, ma diventa madre di dodici figli e simbolo di un popolo, che continua ad accompagnare e proteggere.
Il mito come via alla trascendenza
I miti, che sono opera degli uomini, nascono per dare forma e senso alla realtà. Soprattutto in luoghi come Napoli, dove acqua, aria, terra e fuoco si mescolano creando un equilibrio unico: un palcoscenico primordiale dell’esistenza.
In questo scenario, i ruoli si capovolgono: il mare diventa palco, aperto all’infinito, mentre la collina e il Vesuvio, divenuti spalti, incorniciano il luogo dell’azione. È qui che il presente si fa mito, e l’eternità non è sogno ma vocazione.
Nel corso dei secoli, le civiltà umane hanno usato immaginazione e fantasia per costruire narrazioni mitologiche, cercando risposte agli interrogativi esistenziali. Qualcuno ha scritto che la sede dell’anima è laddove il mondo esterno e quello interno s’incontrano… nel paese delle meraviglie del mito.
Questo paese delle meraviglie non è un mondo illusorio, ma uno spazio in cui si risveglia una particolare attenzione, facilitata dalla forma narrativa del mito, che ci apre alla trascendenza e ci insegna a cogliere il significato profondo di ogni simbolo.
I miti cosmogonici, che raccontano l’origine dell’universo, e quelli soteriologici, che narrano la salvezza dell’umanità attraverso eroi, divinità o rituali, ci invitano a guardare non al singolo popolo, ma all’intera umanità. In ogni divinità locale è nascosta una simbolizzazione universale che supera il limite della vista e del pensiero.
Quando il pensiero mitologico smette di essere interpretato alla lettera, ma lasciato libero di evocare e suggerire, diventa una porta verso la transculturalità. L’arte, in questo incontro, ha il potere di trasformare la coscienza e la visione abituale della realtà, elevando la mente al di sopra del desiderio e dell’odio.
È un percorso che ricorda il cammino ascetico del Buddha verso l’illuminazione: superare i tre demoni — il desiderio (Kāma), la paura della morte (Māra) e l’identificazione con i vincoli sociali (Dharma) — per accedere a una condizione che li trascenda.
C’è chi sostiene che i miti siano la via maestra per coltivare una trascendenza che non rimanda a mondi altri o paralleli, ma anima l’immanenza, qui e ora. È una ricerca che accompagna da sempre la vita dell’umanità e quella di ogni singolo uomo.
La ricerca: il cuore dell’esperienza umana
Il termine “ricerca” deriva dal verbo latino circare, che significa “andare intorno”, “fare il giro”. A sua volta, proviene da circum, “intorno”. e da circus, il “cerchio”. Unito al prefisso ri-, indica ripetizione, intensità, ritorno. Ne nasce recercare e quindi “ricercare”.
Si può dire che la ricerca del sapere è intrinseca all’essere umano fin dalla nascita: un istinto senza tempo. Già Aristotele, nel IV secolo a. C., parlava della meraviglia come motore della filosofia: è lo stupore, davanti ai fenomeni più semplici che ci spinge a porre domande sempre più complesse.
La ricerca è un impulso antico, radicato nel profondo dell’essere umano sin dal primo respiro. Non appartiene solo a scienziati o a studiosi: è ciò che ci spinge a esplorare, comprendere, comunicare, vivere. Fin dall’infanzia, ognuno di noi è immerso in un processo spontaneo di scoperta: cerchiamo parole per dialogare, gesti per esprimerci, forme per interpretare il mondo. È una ricerca naturale, istintiva, che costruisce i primi ponti tra noi e gli altri.
Crescendo, la ricerca si trasforma ma non si spegne. Cerchiamo ciò che è noto ma non ancora compreso, ciò che è pubblico ma non ancora personale Ogni fase della vita porta con sé nuove domande e nuove necessità di senso. La ricerca diventa così un compagno silenzioso, una guida che orienta il cammino individuale e collettivo.
Quando diventa specialistica, la ricerca si concentra su ipotesi di meccanismi ancora da individuare. È qui che il sapere si affina, si struttura, si fa metodo. Il modello scientifico diventa lo strumento per interrogare la realtà, svelarne le leggi, condividere scoperte che non solo arricchiscono la conoscenza, ma migliorano la qualità della vita. In questo senso, la ricerca non è mai fine a sé stessa: è un atto di responsabilità verso il mondo.
Nell’epoca dei social, dove l’apparire talvolta prevale sull’essere, il sapere scientifico può essere messo in discussione. Alcuni insinuano dubbi sulle scoperte consolidate per emergere nell’arena digitale, minando le fondamenta del sapere condiviso. Ma la ricerca autentica non teme il confronto: si nutre di verifica, apertura e dialogo. La sua forza sta proprio nella capacità di evolversi, correggersi, accogliere nuove prospettive.
La ricerca è, e sarà sempre, il cuore pulsante dell’esperienza umana. Un viaggio senza fine, che ci permette di conoscere il mondo e di abitarlo con consapevolezza.
La ricerca che unisce
La ricerca specialistica rappresenta una delle espressioni più elevate dell’intelligenza umana. Si sviluppa soprattutto nelle università, luoghi del pensiero che custodiscono e alimentano il sapere in tutto il mondo. Non è confinata, tuttavia, solo tra le mura accademiche: vive ovunque nasca una domanda, un dubbio, un’intuizione. E la sua forza più grande è la condivisione.
Ogni risultato — ottenuto in laboratorio, nell’analisi di un testo, nell’osservazione di un fenomeno — non è mai un punto d’arrivo, ma un nuovo inizio. È un gradino in più nella lunga scala della conoscenza. Ogni scoperta apre la strada ad altre domande, ad altri percorsi, ad altri orizzonti. Il sapere cresce non per accumulo, ma per dialogo.
La ricerca non divide: unisce. Rende gli uomini consapevoli della loro condizione comune, li affratella nella fragilità e nella meraviglia dell’esistere. Non conosce confini, né nemici. Ha il linguaggio universale della pace, avvicina i popoli, allontana l’ombra della guerra. Dove si cerca insieme, si costruisce insieme.
I frutti della ricerca sono risorse immateriali: idee, modelli, visioni. Eppure, proprio queste risorse immateriali (invisibili) generano quelle materiali (visibili): tecnologie, cure, infrastrutture, sviluppo. Sono semi che, se coltivati, possono far fiorire una comunità intera.
Le città che sanno produrre e valorizzare queste risorse — attraverso scuole, centri di studio, laboratori, biblioteche — realmente si arricchiscono. Non solo economicamente, ma culturalmente e umanamente. E nel farlo, arricchiscono l’umanità intera.
Perché la ricerca non è un’attività: è una vocazione. È il modo in cui l’uomo si prende cura del mondo e di sé stesso. È il gesto più nobile che possiamo compiere: cercare, insieme, la verità che ci rende liberi.
SEMI: un’idea che germoglia a Napoli
Nel mio ruolo di delegato all’internazionalità dell’Ateneo, ho avuto la fortuna di incontrare molte realtà di studio e di ricerca, e, soprattutto, molte realtà umane. Esperienze che mi hanno arricchito. Ogni volta che rientro a Napoli, provo un’emozione intensa. Questa città, abitata dal mito e attraversata da un’energia antica, mi ha visto nascere e crescere: è stata Napoli a insegnarmi come accogliere l’altro e come cogliere l’attimo.
Un giorno, mentre ero in attesa di un volo nel grande scalo di Bangkok — città dalla vivace vita di strada, dove convivono il futuro dei grattacieli e la tradizione dei templi antichi — vengo colpito da una frase riportata con evidenza su un giornale:
“If you can look into the seeds of time and say which grain will grow and which will not…”
(Se potessi guardare nei semi del tempo e dire quale grano crescerà e quale no…)
La frase, tratta dal Macbeth di William Shakespeare, suggerisce che predire il destino degli uomini è come osservare un pugno di semi e intuire quali germoglieranno.
Tornato a Napoli, non riesco a smettere di pensarci. Mentre osservo dalla finestra della mia stanza il Chiostro di Sant’Andrea delle Dame — caratterizzato da una rigogliosa vegetazione e arricchito dalla presenza di un albero di canfora di almeno duecento anni — rifletto sulla relazione tra semi e tempo.
Il seme trattiene e cancella il tempo
Dal momento in cui nasce dal frutto a quello in cui germoglia non accade niente. Un “niente” che può durare giorni, mesi, anni, secoli. Un niente che sospende il tempo e custodisce la vita.
Una vita dormiente che attende il momento giusto per risvegliarsi.Una vita dormiente che riduce la propria respirazione, la propria evaporazione, i propri scambi con l’esterno… in attesa del momento adatto, in attesa della semina.
In quel momento ho compreso che forse non era più tempo di attendere. Era il momento di piantare, con decisione e cura, quei piccoli semi — organi di propagazione della vita — capaci di generare futuro.
Da questa intuizione è nata l’idea della Fondazione SEMI: un progetto pensato per Napoli e per tutti i ricercatori del mondo che desiderano intraprendere un percorso di studio in questa città. Un luogo dove il sapere possa mettere radici, crescere e fiorire, alimentato dalla bellezza, dalla storia e dall’energia di una terra che ha sempre saputo accogliere e trasformare.
Napoli come risorsa materiale e terreno fertile
Napoli è una città stratificata, contraddittoria, generosa. Ha una storia millenaria fatta di accoglienza, arte, filosofia e resilienza. In questo contesto unico, la Fondazione SEMI può trasformare Napoli in:
- Un laboratorio globale di idee e sperimentazioni
- Un rifugio creativo per menti brillanti in cerca di libertà
- Un ponte tra il Sud del mondo e il Sud dell’Europa, dove le marginalità si incontrano per generare centralità culturale
I cittadini che hanno disponibilità di abitazione possono aderire ai progetti di ricerca, individuati dalla Fondazione annualmente, donando o mettendo a disposizione, anche per brevi periodi, uno spazio per gli studiosi. Chi non ha questa possibilità può comunque partecipare accogliendo e proteggendo gli ospiti. L’incontro tra persone di culture diverse crea ponti e arricchisce tutti.
Le risorse immateriali: il vero tesoro
La Fondazione non punta a costruire grattacieli o centri di potere, ma a incentivare lo sviluppo attraverso la ricerca, per i cittadini del futuro.
Il suo obiettivo è coltivare:
- Intelligenza collettiva
- Empatia interculturale
- Etica della conoscenza
- Bellezza del pensiero libero
Il Capitale Immateriale che ne deriva è una risorsa per costruire la Napoli del futuro: un patrimonio che è culturale ma anche economico, e può arricchire la città più di qualsiasi investimento materiale
Sono semi che fioriscono nelle scuole, nei quartieri, nelle biblioteche e nelle piazze. Sono il nutrimento invisibile di una città che sa generare futuro. Queste risorse immateriali si realizzano anche grazie ai cittadini — uomini e donne della città — che mettono a disposizione, spazi abitativi e risorse materiali indispensabili per il progetto. È giusto che il loro contributo venga riconosciuto e ricordato nei risultati delle ricerche.
Visione a lungo termine
Immaginiamo Napoli nel 2035: una città dove si parla arabo, cinese, swahili e napoletano nei corridoi di un centro di ricerca; dove i bambini delle scuole incontrano scienziati venuti da lontano; dove le idee viaggiano più veloci dei pregiudizi. SEMI non è solo una fondazione. È un movimento culturale. È la convinzione che ogni mente libera sia un seme di futuro.
Conclusione: seminare pensiero, fiorire umanità
Napoli, città di mito e di mare, di stratificazioni invisibili e bellezza tangibile, si offre come terreno fertile per un sogno antico e necessario: coltivare il pensiero, farlo germogliare tra pietre, voci, lingue, mani.
La Fondazione SEMI nasce da questa intuizione: che ogni idea, ogni gesto di ricerca, ogni sguardo curioso è un seme. Se accolti e nutriti, questi semi possono fiorire in conoscenza, relazione e futuro.
Il mito ci ha insegnato a cercare.
La filosofia a comprendere.
La scienza a condividere.
E la città — questa città — ci insegna ad accogliere.
SEMI non è solo un progetto. È un respiro collettivo. È il desiderio di un mondo in cui la ricerca non sia privilegio, ma vocazione; in cui il sapere non sia potere, ma cura; in cui ogni mente libera sia un giardino da coltivare.
In un tempo che corre veloce, SEMI ci invita a fermarci, a piantare, a custodire. Perché il pensiero, come la vita, ha bisogno di radici.
E Napoli, con la sua anima antica e il suo cuore aperto, è pronta a farli fiorire.
©Riproduzione riservata
In copertina, professor Sergio Minucci ci ha lasciato l’8 luglio 2024, ma la sua eredità continua a vivere. La Fondazione SEMI, con la sua fiducia nel valore della conoscenza e la capacità di immaginare il futuro, è il suo sogno che cresce oltre il tempo.







