“Quello era un posto” di Sonia M. Laezza è un esordio narrativo che si colloca con naturalezza nel filone delle opere dedicate all’esperienza femminile e alle sue complessità psicologiche.
Non un memoir, non un romanzo di formazione in senso tradizionale ma un testo che lavora sulla materia viva dell’identità, sul rapporto tra corpo e mente, sulla fragilità della costruzione familiare. L’autrice affronta soprattutto il tema della depressione post partum con uno sguardo lucido e privo di compiacimenti, e senza ricorrere a stereotipi consolatori.
La protagonista, Valentina, appare sin dalle prime pagine in una dimensione sospesa: una madre presente, ma in una presenza che è anche distanza; una donna che vive il quotidiano, ma come se lo guardasse dall’esterno. L’ambientazione iniziale – la piscina in cui osserva la figlia Carlotta nuotare – funziona simbolicamente come spazio di osservazione e insieme di memoria.
Da quel luogo, “il suo posto”, si riaprono i varchi del passato: il periodo segnato dalla nascita ravvicinata delle figlie, dal lavoro alienante, da un compagno incapace di comprendere l’abisso che la abita.
L’autrice sceglie di nominare la depressione con il termine “Lupo”: è un’immagine efficace perché riporta la sofferenza alla dimensione umana, a ciò che vive dentro e chiede riconoscimento.
Il Lupo non è qualcosa da espellere ma qualcosa con cui imparare a convivere; in questo sta la forza politica del libro: il rifiuto dell’idea che il malessere debba essere necessariamente superato o rimosso per tornare “uguali a prima” o, peggio ancora, “normali”. L’autrice suggerisce, invece, che esista una condizione di sopravvivenza consapevole, una forma di equilibrio trovato dentro la ferita, e non fuori.
Un ruolo decisivo nella narrazione è attribuito alla terapia, ma non come strumento salvifico bensì come dispositivo di definizione del sé; l’incontro con lo psicoanalista non introduce a una rivelazione istantanea ma a un lento lavoro di scavo e di linguaggio: Valentina impara a dire ciò che prova, con onestà e senza paura. L’altra presenza fondamentale è il padre, figura affettiva complessa e non risolta: è lui a individuare la frattura emotiva della figlia perché ne ha conosciuto, in altre forme, la genealogia.
Lo stile di scrittura di Sonia M. Laezza è ritmico, incalzante e costruito su immagini quotidiane che si espandono in risonanze emotive, che tuttavia non scadono mai nello stucchevole. “Quello era un posto” è un romanzo che non cerca di spiegare la depressione ma di darle voce; è un libro necessario che si interroga sull’idea stessa di cura: non come restituzione alla normalità ma come possibilità di restare – davvero – nel proprio posto. (Roberta Bassi)
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