Dal 21 maggio ha riaperto a Napoli la sede museale di Gallerie d’Italia di Banca Intesa in via Toledo. “Il Martirio di Sant’Orsola”, realizzata da Caravaggio a Napoli prima della partenza per Porto Ercole è il capolavoro assoluto delle raccolte e apre l’itinerario espositivo del primo piano “Da Caravaggio a Gemito”. Accanto alle collezioni permanenti ad animare gli spazi del Nuovo Museo conferenze, concerti, giornate di studio, performance artistiche. Dopo la prima e la seconda, ecco la terza e ultima tappa della cronaca d’arte di Carmine Negro.

Il corridoio dorato del Museo



TERZA E ULTIMA PARTE
L’incontro con il Museo affascina e rapisce. Uno sfavillante corridoio dorato,che una leggera curvatura rende ancora più misterioso, incanta il visitatore; il suo brillante luccichio è un invito ad attraversarlo. Dall’altra parte una scala di legno è sospesa tra grandi immagini che riempiono, in successione rapida, le due pareti laterali: sono le proiezioni di figure che appartengono alle opere delle collezioni. Quando si arriva sugli ultimi gradini diventa più nitida la feritoia che come un cannocchiale ottico consente di catturare l’attenzione ed indirizzare lo sguardo sulla tela del Caravaggio. L’opera, “Il Martirio di Sant’Orsola”, commissionata dal banchiere genovese Marcantonio Doria e realizzata a Napoli prima della partenza fatale per Porto Ercole, è il capolavoro assoluto delle raccolte ed apre l’itinerario espositivo del primo piano “Da Caravaggio a Gemito”.

La sala del Caravaggio

Il nuovo allestimento, curato da Fernando Mazzocca, non isola la tela più importante dalla collezione ma la immerge in un contesto di riferimento. La troviamo, infatti, insieme a dipinti come la Giuditta del caravaggesco di Faenza Biagio Manzoni o il San Giacomo Maggiore di Simon Vouet, un’opera realizzata per la collezione del principe napoletano Marcantonio Filomarino, che testimonia una Roma caravaggesca e cosmopolita o ancora la tela con Sansone e Dalila una creazione tipica della lunga stagione partenopea di Artemisia Gentileschi. Collegata al soggiorno napoletano di Caravaggio c’è un’altra tela ad arricchire questa sala: Giuditta decapita Oloferne attribuita al fiammingo Louis Finson.
La storia di questo quadro è particolare e ci consente di comprendere il ruolo della città come crocevia dello sviluppo delle arti ed in particolare di quelle pittoriche nel Seicento. Fu acquistato dal Banco di Napoli agli inizi degli anni ottanta come opera di Artemisia Gentileschi. Successivamente alcuni studi su documenti di archivio collegano il dipinto a delle lettere, che nel settembre del 1607, furono indirizzate al duca Vincenzo I Gonzaga della corte di Mantova; in esse veniva riportata la messa in vendita a Napoli, nella bottega di due pittori fiamminghi, di due opere di Caravaggio una Madonna del Rosario ed una Giuditta ed Oloferne[1].
L’artista era partito per Malta da poco tempo, il 14 giugno 1607, e i due dipinti lasciati a Napoli, nello studio condiviso da Louis Finson e dal suo compagno Abraham Vinck, permettono di ricostruire gli esordi di Caravaggio a Napoli.
Si può ipotizzare che il pittore si fosse appoggiato alla bottega dei due fiamminghi, con i quali aveva costruito collaborazione, una forte amicizia ed un sodalizio particolare, durante il suo soggiorno partenopeo. Vinck, quando lasciò Napoli per Amsterdam, intorno al 1609 probabilmente portò con sé i due dipinti. Successivamente anche Finson si trasferì ad Amsterdam.
Le due opere sono di nuovo citate nel testamento datato 19 settembre 1617, preparato da Finson ad Amsterdam. Nel suo testamento Finson lasciò a Vinck la sua quota nei due lavori di Caravaggio che avevano posseduto congiuntamente dai tempi di Napoli. Dopo la morte di Vinck,nel 1619, i suoi eredi vendettero la Madonna del Rosario[2] per 1800 fiorini a un comitato di pittori e “dilettanti” fiamminghi guidato da Peter Paul Rubens per la Chiesa di San Paolo dei frati domenicani ad Anversa.
Nel 1786 l’imperatore Giuseppe II d’Austria ordinò prima la chiusura di tutti gli ordini monastici “inutili” e poi reclamò il dipinto di Caravaggio per la sua collezione d’arte. Ora può essere ammirato al Kunsthistorisches Museum di Vienna. L’opera di Caravaggio, dono dei maggiori artisti di Anversa ed espressione della loro profonda devozione religiosa, era così diventata oggetto di saccheggio da parte dei sovrani austriaci delle Fiandre[3].
Intanto del secondo Caravaggio che rappresentava Giuditta che decapita Oloferne, in comproprietà con Vinck e Finson dall’inizio del 1600 non c’era traccia. Per un periodo si è suggerito di identificarlo con il dipinto che ora fa parte della collezione della banca Intesa Sanpaolo di Napoli. Nel 2014, durante i lavori per una perdita di acqua,viene scoperto a Tolosa nell’intercapedine un olio su tela che rappresenta Giuditta che decapita Oloferne.
I proprietari sono dei discendenti di un ufficiale dell’esercito napoleonico ed è forse con lui che questo quadro è arrivato tra i beni di famiglia. Alcuni studiosi ritengono che il dipinto di Giuditta scoperto a Tolosa nel 2014, sia il perduto Caravaggio. Altri studiosi, invece, vedono sia nella tela di Tolosa che in quella della collezione della banca Intesa Sanpaolo opere dipinte da Finson; qualcuno ha anche sostenuto che si tratta in realtà di creazioni originali di Finson piuttosto che copie di un Caravaggio perduto. La Giuditta di Tolosa doveva essere messa all’asta nel giugno 2019 ma fu acquistata dal gestore di hedge fund J. Tomilson Hill attraverso una vendita privata a un importo non divulgato poco prima che l’asta fosse pianificata per andare avanti[4],[5].

Francesco Solimena, Agar ed Ismaele

Quando si lascia questa sala per visitare le altre opere del percorso, non si può fare a meno di guardare le volte del soffitto che rimandano a quelle della struttura preesistente stilisticamente simile a quella di Palazzo S. Giacomo. Sono state inglobate durante la trasformazione di Marcello Piacentini ed ora ci ricordano che da sempre Napoli è una città stratificata dove il preesistente convive incorporato nel nuovo.
La selezione di dipinti e sculture offre un’antologia in grado di tratteggiare, a grandi linee, un profilo delle vicende salienti della pittura a Napoli e in ambito meridionale dagli esordi del Seicento ai primi decenni del XX secolo. La raccolta, già esposta a Palazzo Zevallos Stigliano, è integrata e ampliata da nuovi capolavori, alcuni di recente riscoperta.
La sezione Natura Morta, presente con una selezione ridotta ma esemplare di dipinti, due preziosi Sottoboschi di Paolo Porpora e tele di Giuseppe Recco e Giovan Battista Ruoppolo, manifesta la rilevante presenza di questo genere nelle collezioni dei ricchi committenti e dei collezionisti presenti a Napoli nel Seicento.
Il Seicento Napoletano è il periodo storico nel quale la pittura locale raggiunse un livello qualitativo che non aveva mai avuto negli anni precedenti; la città raggiunge un’autonomia e una consapevolezza artistica tale da renderla nota nel panorama europeo. Nel corso del secolo la città, meta di un rilevante gruppo di artisti già famosi in ambito continentale, vede la fioritura di un cospicuo numero di pittori locali che determinano la nascita e l’avvicendarsi di svariate correnti pittoriche, dal caravaggismo, al classicismo, al barocco, fino alla pittura paesaggista e di battaglia, nonché alle nature morte, il periodo viene definito dalla storiografia ufficiale anche come “secolo d’oro della pittura napoletana[6]. Spiccano tra le opere esposte tre tele di Bernardo Cavallino, una Sacra famiglia di Battistello Caracciolo, San Francesco di Assisi che riceve le stigmate di Gerrit van Honthorst, il San Giorgio di Francesco Guarini, il Ratto di Elena di Luca Giordano.
La sala Immagini del Settecento evoca con grande efficacia il contesto culturale della straordinaria stagione del nuovo secolo. Nella tela Immacolata Concezione di Luca Giordano è possibile osservare quel dilagare di materie cromatiche sempre più lievi e delicate che caratterizza la pittura degli ultimi anni dell’artista mentre in Agar ed Ismaele la vivacità pittorica di Francesco Solimena, attutita da una ricerca di fermezza e nobiltà nel disegno, preannuncia le inclinazioni classicistiche del nuovo secolo. Le due tele di Gaspare Traversi Il Concerto e la Lettera segreta mettono in mostra la penetrante lucidità con cui l’artista coglie aspetti della vita quotidiana. Le tele, espressione di un recupero dei migliori esempi di naturalismo del secolo precedente, sembrano denunciare una velata critica socio-morale nei confronti della nuova borghesia emergente.

Gaspar van Wittel, Borgo di Chiaia da Pizzofalcone


La sala Da van Wittel alla Scuola di Posillipo documenta la rappresentazione del paesaggio che ha avuto a Napoli uno straordinario sviluppo tra il Settecento e l’Ottocento. Il Largo di Palazzo e il Borgo di Chiaia da Pizzofalcone dell’olandese italianizzato Gaspar Van Wittel, al servizio del viceré duca di Medinaceli tra il 1699 e il 1702, con la loro precisione ottica e topografica segnano una moderna e razionale  rappresentazione del paesaggio e marcano le potenzialità di sviluppo collegate ad una nuova e più ampia visione del tessuto urbanistico. Differenti le ragioni che animano le opere dell’olandese naturalizzato a Napoli Anton Sminck Plitoo e del tedesco Franz Ludwig Catel. Nel nuovo clima che si sviluppa tra metà Settecento e la prima parte del secolo successivo che vede la città come meta del Grand Tour, essi ricercano nell’ambiente naturale una visione atmosferica e sentimentale; i dipinti riprodotti in formati piccoli si caratterizzano per una stesura rapida e per la luce che anima i colori.
La Scuola di Resina e la Pittura Prospettica rievocano lo sviluppo della pittura a Napoli nella seconda metà dell’Ottocento. A Resina, località ai piedi del Vesuvio, sollecitati dal macchiaiolo toscano Adriano Cecioni, i pittori di paesaggio si ritrovano per dipingere con tecniche che ricordano quelle dei macchiaioli e poi degli impressionisti. Questa sezione risplende di un piccolo capolavoro di Domenico Morelli, La terrazza, uno studio preparatorio per un’altra opera dell’artista.

Domenico Battaglia, Prima della Processione



Di Vincenzo Abbati e Domenico Battaglia le vedute di antichi monumenti; si tratta di edifici che oggi ritroviamo profondamente trasformati e che presentano un genere che ha goduto di grande interesse in tutta Europa nel corso dell’Ottocento; in particolare, nei due grandi dipinti di Domenico Battaglia, vengono rappresentate le funzioni che si svolgevano all’epoca tra le mura delle Chiese di Donnaregina nuova e dell’Annunziata. Sono inoltre raffigurate, decorazioni ed arredi ormai in parte scomparsi. In una delle tele, Prima della Processione del 1890,nella sua complessa composizione Domenico Battaglia non rinuncia a raccontare di uno sguardo tra una delle giovani donne impegnate nel canto ed un trombettista della banda.

Vincenzo Migliaro, La Taverna a Posillipo


Nella sala La Pittura della Vita moderna sono presentate scene di vita quotidiana popolari e mondane sorprese lungo le strade di Napoli, al tempo della Belle Epoque, o lungo l’ingresso della Villa Comunale, davanti alla quale un gruppo di borghesi appare in posa a testimoniare i nuovi riti della città moderna. Insieme a La pioggia di Francesco Netti, che propone una visione malinconica della città, ci sono autori come Carlo Brancaccio, Francesco Mancini, De Nittis e Salvator Postiglione, un attento interprete della sensualità femminile di stampo tipicamente partenopeo. La Taverna a Posillipo, di Vincenzo Migliaro, che sembra riportare con i colori i versi di Salvatore Di Giacomo, descrive l’incanto di una terrazza sul golfo tra cielo e mare.
Nella sezione Artisti e Modelle Scugnizzi e Donne del Popolo sono presenti una serie di dipinti di piccolo formato che fanno parte della pittura di figura. Sono spesso opere non finite che rivelano una qualità ed una sensibilità superiore a quelle che si può ammirare nelle composizioni finite. Tra le opere presenti ricordiamo Ritratto di pittore di Vincenzo Migliaro, realizzato dal coetaneo Gaetano Esposito come pegno di amicizia e la bellissima Dama con ventaglio di Domenico Morelli, caratterizzata da una particolare intensità espressiva. Si tratta del ritratto di Anna Cutolo, detta Nannina o Cosarella, la popolare modella napoletana che diventerà moglie di Vincenzo Gemito. Del grande scultore sono presenti in questa unità espositiva una serie di teste di terracotta, capolavori giovanili che colpiscono per lo spiazzante realismo.
Sono ancora le terrecotte, i bronzi e i disegni che vanno dagli anni Sessanta dell’Ottocento fino agli anni Venti del Novecento a raccontare questo artista nella sala Sculture e disegni di Vincenzo Gemito. Narrano la parabola artistica di questo genio, segnata dal dramma personale di un’esistenza minata da profondi squilibri psichici che determinarono lunghe interruzioni della sua attività creativa. Tra le magnifiche opere che mostrano una strabiliante tecnica ed una ricerca sulla figura, in particolare femminile, è esposta La Zingara uno dei disegni piu belli di Gemito. Le sue opere pervase da un realismo prorompente ed una ricerca di stile ispirata ai modelli seicenteschi, fanno dello scultore l’ultimo erede della grande tradizione del naturalismo napoletano.
L’ultima sezione, Suggestioni Liberty, racconta una Napoli di fine secolo in continua espansione, anche urbanistica, in cui prevalgono soggetti sensuali e mondani; una città che guarda ai modelli stranieri soprattutto di Parigi. Il periodo Liberty è stato oggetto di una grande mostra a Palazzo Zevallos[7],[8]
A supporto dei servizi che il nuovo museo intende offrire alla comunità c’è una biblioteca realizzata con una raccolta di volumi provenienti dal patrimonio librario di Intesa Sanpaolo; collegata al Servizio Bibliotecario Nazionale offre l’opportunità di approfondire temi legati alle opere delle collezioni e alle mostre temporanee organizzate nelle Gallerie d’Italia. Tre sale dedicate alla didattica: l’aula rossa, l’aula verde e l’aula blu, sono destinate in modo gratuito alla fruizione di laboratori formativi per le scuole e per le persone con disabilità o in condizione di fragilità sociale.
Al piano terra, fulcro degli spazi interni, è situato il grande salone a tripla altezza, concluso da un lucernario che illumina l’intero ambiente. È uno spazio che il Museo dedica alle mostre temporanee ed agli avvenimenti collaterali come conferenze, concerti, giornate di studio, performance artistiche, con progetti dedicati alla danza, al teatro e alla musica. Attualmente ospita una straordinaria mostra “Restituzioni”, un programma di restauro del patrimonio artistico italiano che il gruppo promuove fin dal 1989 in collaborazione con il ministero della Cultura. Le opere, recuperate dopo il restauro, sono restituite alle comunità di appartenenza, i beni interessati di questa edizione provengono, e questa è una novità, da tutte le ragioni italiane. La presenza di straordinari capolavori, merita una riflessione a parte.
È prossima l’apertura nella zona di ingresso di una moderna caffetteria bistrot; sarà accanto all’area dedicata alla promozione del Museo dove è possibile trovare cataloghi mostre, volumi specialistici e gadget. Questi spazi di contatto con la città consentono un utilizzo diversificato dello spazio museale, aperto sia ai visitatori che a tutti i cittadini, sulla base dell’idea di luogo urbano da vivere in maniera parallela e complementare ai percorsi espositivi. La gamma di servizi si completerà in futuro con un esclusivo ristorante panoramico, collocato sulla sommità dell’edificio: consentirà di connettere l’edificio e la città, attraverso il contatto visivo con la collina di San Martino, i quartieri spagnoli, Castel Nuovo, il Vesuvio e il golfo e sarà condotto dallo chef campano Giuseppe Iannotti.
Mentre vado via, mi soffermo sul monumentale atrio d’ingresso: ospita ciclicamente un’opera di particolare rilievo proveniente da importanti musei italiani ed esteri. In questo periodo ad accogliere i visitatori è l’Atlante Farnese del Museo Archeologico di Napoli. Rispetto alle mie perplessità iniziali penso che la scelta del Palazzo come sede museale sia stata felice, un vero successo per la posizione, le modalità di esposizione, le collezioni che ospita, le attività che intende proporre. Ho letto anche degli impegni della Banca porta avanti per Napoli ed il Sud Italia lodevoli e apprezzabili.
Eppure permangono alcune titubanze: manca un centro decisionale dell’Istituto bancario nella capitale del sud o come dice Franceschini, nella capitale del Mediterraneo. Manca un prototipo costituito con quanti vivono sul posto basato sull’utilizzo di elementi concreti, metrici e dati per orientare il processo decisionale in linea con obiettivi, scopi e iniziative. Napoli è una città creativa qualcuno dice animata da caos creativo. Avere chi costruisce il proprio percorso, in un settore particolare come quello creditizio, su un utilizzo significativo di dati consente di avere un modello di come migliorare il  quotidiano ed in prospettiva il futuro. Senza c’è il rischio del deserto produttivo, demografico e di conseguenza culturale.
Questa operazione non è a senso unico perché uno sviluppo non si limita alla scelta di una tecnica di analisi adeguata: per individuare una nuova opportunità strategica spesso può essere un grande ausilio la creatività. Nel culto delle anime del Purgatorio, tra le anime ignote e abbandonate e le persone di fede che le accudiscono, si stabilisce uno scambio: i devoti ne adottano un teschio (capuzzella) e se ne prendono cura lucidandolo e pregando per “lui”, mentre l’anima del defunto diviene una guida che soccorre, difende e sostiene il proprio protettore. E lo scambio, si sa, sviluppa non solo l’economia ma anche la vita intellettiva di una comunità. Lo sa bene chi fa dello scambio la sua missione di vita.
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La Biblioteca

NOTE
[1]https://thetoulousecaravaggio.com/en/caravaggio-specialists/nicola-spinosa
[2]Secondo Maurizio Calvesi,  critico d’arte, storico dell’arte e accademico italiano,il quadro Madonna del Rosario fu eseguito per decorare una delle cappelle di patronato del casato Carafa nella chiesa napoletana di San Domenico Maggiore, su commissione di don Luigi Carafa della Stadera [1567-1630, IV principe di Stigliano, IV duca di Rocca Mondragone, duca di Traetto, conte di Fondi, ecc.], parente di Martino Colonna, feudatario di Palestrina, Zagarolo e Paliano presso cui il pittore s’era rifugiato nel 1606 dopo essere fuggito da Roma, in seguito all’omicidio di Ranuccio Tomassoni.Il rimando alla famiglia Colonna starebbe, per l’appunto, nella grande colonna a sinistra alla quale è legato il grande drappo rosso che sovrasta la scena quasi come un sipario. Ulteriore collegamento con la casata dei Colonna può essere individuato nel fatto che la festività del Rosario era stata istituita nel 1573, dopo la vittoria di Lepanto (che si disse propiziata proprio dalle preghiere del rosario), evento cui Marcantonio Colonna, III duca di Paliano – avo materno di don Luigi Carafa perché genitore di Donna Giovanna Colonna, sposata in seconde nozze da suo padre don Antonio Carafa, III principe di Stigliano – aveva partecipato in prima persona.
[3]http://histoforum.net/speelkwartier/paulus.html
[4]https://www.artnews.com/art-news/market/caravaggio-marc-labarbe-sale-canceled-12853/
[5]https://www.nytimes.com/2019/06/27/arts/design/caravaggio-buyer-j-tomilson-hill.html
[6]N. Spinosa, Pittura del Seicento a Napoli – da Caravaggio a Massimo Stanzione, Arte’m, Napoli 2008
[7] http://www.scuolaspazioper.it/cdm/wp-content/uploads/2020/12/napoli-liberty-1.pdf
[8]http://www.scuolaspazioper.it/cdm/wpcontent/uploads/2021/02/Napoli_Liberty_II.pdf
Nella foto di copertina, La Zingara di Vincenzo Gemito. Tutte le immagini sono di Carmine Negro

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