È il libro del momento, ma è destinato a durare nel tempo. I santi d’argento, romanzo d’esordio di Giancarlo Piacci (pubblicato da Salani), ha sorpreso il pubblico e la critica, scalando in poche settimane le classifiche dei libri più amati dai lettori partenopei e non solo. L’opera ha conosciuto un immediato successo ed è stata presentata in numerose città d’Italia. Il giovane autore napoletano, che lavora come libraio in una prestigiosa libreria del centro antico, ha scritto un noir che sbalordisce per la ricchezza del linguaggio, la scorrevolezza della trama e, soprattutto, per la capacità di narrare lo sfondo di una città che vive una tormentata trasformazione sociale che stride con le narrazioni folkloristiche mainstream. Lo abbiamo intervistato.

In alto: uno scatto raccolto durante una presentazione del libro. Sopra: la copertina dell’opera

Chi sei?
La mia storia professionale è sempre stata legata ai libri. Ho cercato in tutti modi, anche dal punto di vista formativo, di accedere a questo mondo. Ho fatto un po’ di gavetta, poi sono riuscito ad entrare in modo abbastanza stabile in una libreria del centro antico di Napoli. Ormai, sono oltre dieci anni che lavoro lì e adesso ne sono il direttore. Per quanto riguarda il contributo che ho provato a dare alla mia città, al territorio in cui vivo, verso cui mi sento profondamente debitore, ho provato a essere un attivista delle molte istanze e delle molteplici contraddizioni che attraversano Napoli. Per me, in passato, sono state dirimenti le questioni ambientali e la lotta contro il restrigimento degli spazi sociali e gli spazi per il diritto allo studio. Da allora, ho stabilito da che parte stare, da che parte guardare la città, e non ho mai smesso di farlo.
Hai scritto un romanzo originale, che parla di una Napoli diversa da quella che siamo abituati a sentir raccontare. Come mai hai scelto proprio la formula del noir per farlo?
Sono sempre stato un lettore del genere. Mi sono sempre piaciuti i polizieschi. Ho avuto la fortuna di poter attingere da una biblioteca familiare molto vasta e anche variegata. Ho sempre letto Simenon, Don Winslow, la Vargas, Lansdale. Ciò che mi ha trasformato come lettore, anche dal punto di vista professionale e umano, è la lettura di Jean-Claude Izzo con romanzi come Total caos, Marinai perduti, Chourmo. Questi libri – che parlavano della realtà di Marsiglia, che sentivo simile alla mia- mi hanno fatto riflettere sul fatto che forse per raccontare una città come la mia, quella fosse la pietra angolare giusta. Anche i primi due libri di Yasmina Khadra, Morituri e Doppio Bianco, oppure i libri di Hervé Le Corre sono libri spaziali e illuminanti da questo punto di vista. Questa è la caratteristica del noir mediterraneo, che differenzia questo genere dal giallo. È anche il motivo per cui ho aderito più istintivamente a un tale movimento letterario, perché dà la possibilità di raccontare un’umanità e un territorio in sofferenza. Gli esempi in proposito si sprecherebbero. Fra i tanti, la questioni delle discariche e dell’emergenza rifiuti ce li avevo sotto gli occhi.
La tua narrazione stride con le letture folkloristiche. Di che tipo di città hai voluto parlare nel tuo libro?
Partivo dal presupposto che Napoli è molto raccontata. Naturalmente, non ho la presunzione di dire che sia stato fatto bene o male. Semplicemente, fra queste narrazioni non ne trovavo una in cui mi riconoscessi realmente. Allora, ho provato a fare un esperimento. Non mi sono tirato fuori da questo mondo, ma ho provato a raccontarlo così come lo vivo dall’interno, parlando dei posti che conosco e delle molteplici trasformazioni che stanno vivendo. Per me, che ho il privilegio di osservare la città da Spaccanapoli, i cambiamenti sono piuttosto evidenti e stanno insistendo su quel territorio da circa una decina d’anni.
Ti riferisci alla gentrificazione del centro storico?
Non è esattamente un processo di gentrificazione. Quello è un fenomeno che prevede la sostituzione di una parte di popolazione con un’altra. Ciò che avviene spesso, in quei casi, è che gli abitanti storici della parte popolare del quartiere vanno via e vengono sostituiti da chi ha un potere d’acquisto diverso. Riguardo a Napoli, piuttosto assistiamo a un processo di turistificazione delle strade del centro. I proprietari hanno deciso di non rinnovare gli affitti a chi abitava lì da decenni, perché hanno capito che potevano decuplicare i profitti aprendo strutture ricettive. Ovviamente, ciò ha aperto un circuito vizioso che ha fatto sì che anche tutti gli esercizi commerciali finissero per adeguarsi a questi cambiamenti, rivolgendosi più che agli abitanti ai turisti, sia come offerta sia come prezzi. Questo ha svuotato il quartiere. È difficile fare un bilancio di questo fenomeno, ma è sotto gli occhi di tutti il fatto che ci sia un’enormità di famiglie che hanno abbandonato il centro. Ho provato dunque a scegliere questa come cornice della riflessione del mio personaggio, che torna in città dopo tanti anni e, benché sia a poche centinaia di metri da casa, non ne riconosce la strada perché non sente più il suo quel posto.
Parliamo di Vincenzo, il protagonista della tua storia. Dopo un passato militante, fa i conti con le proprie inquietudini esistenziali. Qual è l’origine di questo personaggio e perché è così centrale nel libro?
Il romanzo è scritto in prima persona. Questa è una regola di questo tipo di noir. Ci tenevo molto che in un personaggio carico di problemi, demoni, tormenti, Napoli apparisse un po’ per quello che era. E che tutto ciò tutto fosse descritto su un piano emozionale, filtrato dai tormenti del protagonista, arrivando al lettore. C’ho riflettuto tantissimo. Mi sentivo un po’ la responsabilità di dar voce alla città, cosa che a volte ho sentito pesare oltre le mie possibilità. Volevo costruire un personaggio che assomigliasse quanto più possibile a Napoli, ossia fosse il risultato di trasformazioni e culture antiche che si confrontano con una serie di cambiamenti. Il sentimento più terrificante di Vincenzo, che vive con maggiore slancio e senza deroghe, è certamente l’amore. Ma è anche un personaggio incline alla dipendenza, ai tormenti, al lasciarsi andare. In un certo senso, ho provato a rendere delle caratteristiche umane guardando la mia città.

Giancarlo Piacci

Il libro è strutturato come una sorta di diario. Spesso nella trama torna questo tema della Napoli violata, che si oppone alla turistificazione sciatta e ai gruppi camorristici. Quanto c’è di autobiografico nel protagonista del romanzo?
Vincenzo è un po’ un misto fra la mia esperienza di militante e quella di residente nella mia città. Sono stato in un percorso di occupazione. Una volta, la camorra ci venne a chiedere il pizzo, pensando chissà quali soldi facessimo con l’autofinanziamento. Ci siamo dovuti confrontare con questo tipo di realtà, che è oppressiva. La mafia non è visibile, la camorra invece basa tutto sulla presenza fisica. Tuttavia, tutte le narrazioni che vengono fatte sulla camorra sono un po’ ad uso e consumo di favole raccontate a chi non è di Napoli. In queste rappresentazioni, spesso le famiglie di camorra assumono la forma di gang un po’ naif alle volte anche abbastanza preparate culturalmente. In realtà, non durerebbero un minuto se non avessero profondi e radicati interessi che condividono con politica e attività economiche legali.
La camorra ha un altro volto per gli abitanti della città
Sì e non lo dico io. In una recentissima intervista, Giuseppe Misso, decano della criminalità organizzata, ha detto che i media guardano alle paranze dei bambini, ma la verità è che la camorra non li va ad ammazzare solo perché sono utili a distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica dal fatto che la malavita si sta infiltrando in tutte le questioni rilevanti della regione, fra cui la sanità. Altrimenti li avrebbero già ammazzati e la storia sarebbe già finita. Questo per noi è un corollario talmente ovvio che, alle volte, è difficile da spiegare a chi è cresciuto con un’idea della camorra raccontata dalla televisione. Per cui, nel libro volevo restituire il fatto che la camorra è una montagna di merda, ma d’altronde è una prosecuzione del capitalismo con altri mezzi.
Possiamo dire che, come per Anna Maria Ortese, anche per te il mare non bagna Napoli?
Questa è una metafora potente. Napoli è una città che ha perennemente i conti da chiudere, fra un passato importante e un presente in cui non esprime tutto il suo potenziale. O meglio, è un popolo intero che non riesce a esprimere tutto il suo potenziale. Qualche anno fa, fece notizia quella foto dei ragazzini di un quartiere popolare che avevano la piscina fuori dal vicolo. La cosa sbalorditiva è che molti di questi bambini, che abitano a poche centinaia di metri dal mare, non l’avevano mai visto. Quando facemmo un doposcuola, li portammo al mare per farglielo vedere. Fu un momento bellissimo. Non ci facciamo caso, ma abbiamo un percorso di marginalizzazione di alcune realtà che questa metafora del mare rende molto reale. Vivere così vicino al mare, essere talmente vicini alla bellezza e non sentirla mai propria, significa non averne mai diritto. A Napoli, ci sono ragazzini che nascono già con la colpa. Nel libro, quando non era ancora accaduta la vicenda di Ugo Russo, ho coinvolto il protagonista in una storia simile. Sembra quasi normale che a Napoli un ragazzino dei quartieri popolari venga ucciso dalla Polizia, senza che se ne conosca la ragione e che si faccia luce su questi aspetti. I risultati dell’autopsia di Ugo Russo sono emersi dopo due anni. Al di là di come andrà il processo, è un’ingiustizia nei confronti di questi ragazzi che nascono appunto già con la colpa.
Quanto tempo hai impiegato per confezionare il tuo romanzo?
Un paio d’anni per scrivere il libro. Per la verità, ho impiegato un anno e mezzo per redigere le prime 80 pagine e sei mesi per scrivere le altre 250. A un certo punto mi è stato tutto chiaro. Era finita la pandemia, che ho sofferto molto, anche se col mio lavoro siamo stati gli ultimi a chiudere e i primi ad aprire e ho fatto parte anche di una brigata di solidarietà. Per me, tuttavia il problema non era l’uscire o il rimanere chiusi. Quando si è incominciato a respirare, mi sono sbloccato e ho scritto di getto la restante parte del romanzo.
Che tipo di pubblico legge il tuo libro?
Non me lo sono mai chiesto. Certo, i napoletani sono più interessati. Quando ho organizzato presentazioni lontano dalla città, come ad esempio in Lombardia o in Valle d’Aosta, mi sembrava che alcune cose fossero difficili da capire per chi non è di Napoli. Tuttavia, una volta una ragazza mi disse che non era importante in quale città nasci, ma in quale parte della città nasci e cresci. Perché se vivi in un quartiere periferico, “malfamato”, popolare, queste storie ti accompagnano tutta la vita. Allora, la lettura di questo libro non è una questione geografica o anagrafica, ma piuttosto un legame di vissuto e di sensibilità che accomuna i lettori. Chi ha nelle proprie corde i temi affrontati nel romanzo, magari si sente più legato e attratto dalla trama. Chi, invece, ha una lettura diversa dal punto di vista del giallo, orientata più sul classico, che cerca il rompicapo o che sfidi il lettore dalla prima all’ultima pagina a non capire mai chi è l’assassino, probabilmente non si riconosce nel mio libro, perchè ci sono troppi temi che sviano. D’altronde, è la ricetta del noir mediterraneo. In questo movimento letterario l’indagine è più un pretesto per parlare di una società. Chi ha questo tipo di sensibilità, è effettivamente la lettrice o il lettore del mio libro.
Stai pensando a un sequel dei Santi d’argento o a una storia ex novo? Sto lavorando a un’altra storia con questi protagonisti. Quando ha letto le bozze, la mia casa editrice mi ha detto che con questi personaggi si sarebbero potuti scrivere tanti romanzi. Non so se questa cosa sia vera. So però che ci sono tante cose che non sono state ancora raccontate dei protagonisti del libro. Stiamo immaginando un’altra vicenda. Oltre questo, ho per la testa un altro progetto, sempre un noir, ma con altri personaggi. Questa cosa me la sto studiando molto, perché per scrivere un libro del genere bisogna approfondire tanto. Nel mio caso, ad esempio, ho dovuto studiare a fondo la Milano criminale degli anni ’80, ho dovuto leggere i giornali dell’epoca e apprendere la lingua che si parlava. Insomma, c’è dietro un lavoro. Si tratterà di studiare tutto daccapo, ma le idee non mancano di certo.
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Giancarlo Piacci con Enrico Pandiani a Torino, durante una presentazione del libro. Pandiani ha recentemente vinto il premio Scerbanenco, massimo riconoscimento per uno scrittore di gialli [Photo credit: Giancarlo Piacci, che si ringrazia per l’amichevole collaborazione]

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