Il salotto d’autore di Sara Iannone presenta il libro “La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò” (Vallardi editore) del docente napoletano Carlo Di Lieto (Suor Orsola Benincasa), mercoledì 8 febbraio, alle 18, a Palazzo Ferrajoli, piazza Colonna 355, Roma. All’incontro, coordinato da Antonio Filippetti, intervengono: Roberto Nicolai, Gerardo Bianco, Giuseppe Manitta. Proponiamo di seguito una dettagliata e approfondita recensione di Lucia Stefanelli Cervelli.

L’indagine critica puntuale e profonda che Carlo Di Lieto conduce nell’affrontare il testo letterario è sempre  di grande esemplarità, perché la strada che percorre si presenta duplice nella sua natura. Per questo impervia. Anche per questo ricchissima di rivelazioni. Coesistono, infatti, nell’attento esame dello Studioso che indaga, due distinti oggetti di studio contemporaneamente e dalla  reciproca simmetria, umbratile e sfalsata, fra loro.
Da un lato vi è il corpus letterario che si impone nella compiuta cattura della pagina ferma e che trascina con sé tutto l’inquadramento in un vasto campo retrostante di solidi riferimenti culturali e specifici, fatti di richiami e creative fratture, di coerenza tematica e stilistica, ma anche di rinnovate ed uniche prospettive di relazione.
Dall’altro vi è la ricerca del percorso originario da cui quella determinata poesia, quella specifica narrativa presa in esame abbia sortito la sua necessità e la sua forma. Vi è dunque la considerazione che la parola rappresenta quanto di più complesso si possa immaginare, in quanto evocazione primaria che, partendo dall’indistinto di un disagio primordiale, deve nomare, in composizione fonematica, l’identità di un concetto riconosciuto  dalla mente, prima come intuizione, e  poi nel necessario rapporto esterno di condivisa verifica di senso.
E ciò non basta, poiché inoltre la parola si presenta anche carica di quanto intriso dall’affondo emozionale di un vissuto interiore non sempre immediatamente identificabile, né assolutamente vergine di contaminazioni d’urto, né univoco di compresenze. La parola letteraria dichiarativa, insomma, contemporaneamente tenta la esplicita individuazione del quid esterno catturabile e anche della sfuggevole constatazione di una rapidissima modifica interiore. Per tutto ciò, tale parola è chiaramente strumento ed oggetto al tempo stesso del processo creativo.
Vi è da considerare  poi che l’indagine prosegue oltre, perché al centro del discorso c’è l’uomo/poeta ossia quell’essere ibridato e dimidiato che, si direbbe, conosce immediatamente in intuito e per naturale fenomeno di sapiente ignoranza. Con ciò intendendo, dunque, che egli anticipa il pensiero logico, catturandolo in quell’immagine che in maniera umbratile l’assume ed individua e che, in tal modo, anticipa e suggerisce il filosofema tanto da generare, poeticamente appunto, la nascita del pensiero raziocinante, quello che ci perviene da Eraclito e Parmenide, da tutti i presocratici in genere.

Palazzo Ferrajoli
Qui sopra, il libro di Calabro. In alto, palazzo Ferrajoli

Con tale consapevolezza Carlo Di Lieto affronta l’opera esperta della sua lettura critica in un percorso che attraversa sempre la piena l’autenticità dell’autore di volta in volta preso in esame, stanandone i nascondigli, interpretandone i nascondimenti, sottolineandone le verità, in una cattura a tutto tondo che non lascia spazio a fraintendimenti né alle volontà del sottacere qualcosa.
La strada che intraprende è quella di immergersi dapprima nelle immagini suscitate dalla parola poetica e creativa per individuare in esse non solo la loro evidenza plastica e formale, né soltanto per erigerle a simbolo di rimando ad un preciso corrispettivo di senso, ma piuttosto perché proprio le immagini divengano gli indicatori di un fil rouge che man mano nel suo snodarsi conduce lo Studioso nei meandri oscuri dei labirinti ideativi ed emozionali dell’autore. Un implacabile viaggio, dunque, nel farsi dinamico della psiche, catturata ancor prima che possa divincolarsi fra le braccia possessive di Eros.
Tale metodo di lavoro psico/critico è ancor più evidente ed esercitato qui, nel saggio “ La Donna e il Mare “ ( Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò) e non poteva verificarsi diversamente in quanto ci si trova dinanzi all’opera di un Poeta che, oltre a possedere la concretezza della parola, quella che non disdegna neppure l’evocazione rude del quotidiano più comune e condiviso, in realtà appare come occupare una transitante dimensione, mobile e sospesa, che intercorre nell’ intermedio fra la sovrastante immagine di una evocazione e la sottostante compattezza di un vissuto esperito e narrato, mai però quest’ultimo davvero metabolizzato ed esorcizzato appieno.
Anzi, la reviviscenza continua, affidata al vivere successivo, ma pur sempre similare degli eventi che si incalzano, degli incontri che si verificano, dei volti che, potremmo dire, quasi “gallerizzano “ il lungo corridoio del parco della memoria più intima ed interiorizzata, proprio questa forma di reviviscenza sembra quasi il contrappasso gioioso di una perpetuazione altrettanto similare della pena. Gioioso contrappasso perché poi tutto si affida all’ebbrezza dell’eros, che costituisce perdita e possesso di sé. Anzi, in Calabrò l’abbandono d’amore conosce sempre la pienezza colma del desiderio che celebra l’acme dell’orgasmo pieno, la gioia del rispecchiamento nell’altra e della sua corresponsione, almeno nella celebrazione dell’atto d’unione,  e tuttavia sempre non si sottrae il Poeta ad una sua propria, lucida consapevolezza di sé, fatta di misurazione dello scambio, della valutazione con cui, dopo l’abbandono, ritorna al compiuto risarcimento di se stesso.
  Un atteggiamento, questo, che potrebbe definirsi di dosaggio rapportuale, di geloso possesso di insondabili radici, non contrattabili, possedute tenacemente ma avvertite anche nella loro minacciosa possibilità di franare nello scivolamento lento, quasi impercettibile, verso la resa dello sbarbicamento dal terreno, certamente solido, ma reso anch’esso fluido dal lontanante alone della memoria d’infanzia in cui risulta inserito.
Tanta capacità di controllo, tanta apparente esplicitazione non poteva però celare a lungo, all’occhio esperto che indaga, il suo scopo  strategico che, tutto sommato, potrebbe definirsi difensivo, di sopravvivenza interiore, di gelosia della decodifica.  Perciò qui proprio scatta la molla di provocazione che induce sempre più Carlo Di Lieto ad affondare la lama della sua indagine alla ricerca dell’umbratile  divenuto ormai certo al suo porsi, delle alchimie composte dalle immagini prime, degli archetipi suggeriti all’inconscio e da esso posseduti e resi continuo parametro di risonanza.
Perché a questa realtà psichica, sconosciuta ma avvertita, si rapporta la poesia di Calabrò che richiama l’assenza e l’indefinito, quella sospensione della cattura  di senso che pure sfugge ai dettami rigidi del percorso logico per rifugiarsi titanicamente in un illimite, così come assai acutamente individua il nostro Studioso quando scrive: – “ Il dettato poetico di Calabrò mette in gioco l’illimite, in quanto soggetto di conoscenza, che gli consente di oltrepassare la soglia fenomenica dell’essere”. –
 Constatazione questa che rende assai ardua l’opera d’indagine, perché costringe il critico/lettore a transitare nella perenne innovazione di una meraviglia che richiama il nitore primo della visione cui si rapporta una sorta di fanciullino pascoliano. Modo, dunque, che costringe ogni lettore non ingenuo a sostituire sempre il proprio concreto vedere con una rinnovata ed impalpabile prospettiva che è invece attinente alla proposta del Poeta e che inesorabilmente costringe  ad uno scarto di prospettiva obbligando, oltre il reale, ad attingere ad una verginità sfalsata e vicariante del possesso di visione. Un occhio sul mondo, dunque,  come aperto per la prima volta. Non può perciò che prevalere la tessitura onirica.
E magnificamente Carlo Di Lieto, prendendo spunto dal poemetto Roaming ,e sottolineandone la cifra di commistione onirica,  privilegiatamene cita  i versi:  -“ Così lo spazio presuppone il tempo/l’universo un diverso universo/ e l’oblio presuppone la memoria./ Un sobbalzo nel tempo dello spazio/ che allarghi fantasmaticamente/ oltre sé l’orizzonte degli eventi”. –  E’qui posto in evidenza un continuo gioco di rimandi dove le due dimensioni fondamentali spazio/tempo si confondono nell’occuparsi a vicenda tra dilatazioni e compressioni, tra balzi che proiettano sempre più nell’oltre dell’illimite, appunto. Disattesa così dal Poeta la logica aristotelica, Di Lieto ci indica ora una nuova e precisa chiave di lettura e parla di “ logica bivalente “ affrontando poi i due motivi predominanti  di questa poesia.
Si tratta  dei temi binari  intersecantesi della “donna” e del  “mare “. Ed è infatti  tra questi due oggetti del pensiero e dell’anima che va ad instaurarsi quel principio di simmetria che cifra e scandisce tutta la poetica di Calabrò.
Carlo Di Lieto scrive: –  “E’ nell’ordine logico di una realtà simmetrica che va letto il dettato poetico di Calabrò, perché la donna e il mare non possono avere una definizione che segua i comuni parametri di riferimento di una logica aristotelica. Queste due realtà hanno un’energia logica, il cui principio è quello di simmetria (…)L’essere della poesia di Calabrò è nella cifra inconscia del desiderio (…)E’ l’àpeiron anassimandreo, i cui segni di distinzione sono l’indistinto, l’indeterminato, il non- finito. Non a caso l’obliquità dell’essere femminile ha queste caratteristiche, come il fluttuare delle onde del mare, palpabili, misteriose e profonde nei suoi abissi.”
Il pregio della simmetria è il corrispondersi delle immagini, dapprima operanti senza sovrapposizione ma poi,  dopo la constatata possibilità del percorso comune  e talora inverso, si afferma il dato della reciproca forza di rispecchiamento.  Si crea, cioè, la dinamica di un’immersione speculare che invoca l’accoglienza e che aspira ad una specie di totale abbandono, quasi di un ninnante flusso e riflusso. Misura del tempo, quest’ultimo, della continuamente evolventesi individuazione del sé, e dell’altro, e del proprio unitario distinguersi. Infine, proprio la consapevolezza del riconoscersi come essere intrinsecamente oggetto/soggetto consente  poi  di precipitare nel totale affidamento alla tangenza accogliente del flusso originario. Insomma, il liquido amniotico recupera la sua capacità di declinare al futuro la forma carnale dell’essere e di avvertire contemporaneamente l’identità e la perdita del proprio divenire originario.
Donna e Mare si riconoscono qui lo stesso elemento generatore, la matrice insondata del mistero che presiede alla vita. Domina, dunque, l’archetipo dal valore junghiano che Di Lieto delinea nel sottotitolo del suo illuminante Saggio sulla poesia di Calabrò. E, come il mare, accogliente ed infido,non immune però a proporsi presente al “principio di piacere”;  proprio come quel mare,appunto, che deve contrattare la sua possente fluttuanza con la tenerezza accogliente dei seni e delle coste e con il contrastivo capriccio degli scogli, così quello stesso mare dichiara le devastanti “(…) tracce mnestiche di un tradimento, tramato all’ombra di un amore in crisi e ambivalente.”
  Questo è quanto definisce Di Lieto e così, sul filo del parallelismo in rapporto alla donna e all’amore, continua: – “ L’inganno supera i limiti della fiducia assoluta e la complicità può essere vista come un elemento funzionale all’esistenza stessa dell’unione. L’esperienza del tradimento ci riporta ad uno dei processi fondamentali della vita psichica, a quella esperienza vitale che è “l’integrazione della propria ambivalenza”. – (…)la dimensione amorosa, nata come esperienza dell’eterno, deve fare i conti con la caducità dell’esserci, con il freudiano istinto di morte “(pag. 130) –  Prevalgono qui le componenti fondamentali poste all’origine del vivere e del riconoscersi come viventi nei corrispettivi elementi di vita: la donna e il mare.
Una donna “marina”,  un mare declinato nella passione della relazione erotica generativa del possibile presiedere alla nascita, mentre da ciò sbalza,infine, ad anello di congiunzione, l’immagine di una Venere generata dai sommovimenti della spuma crestata delle onde. E’ l’apparizione del mito, altro elemento fondante della poesia di Corrado Calabrò. Ma qui il mito non è l’impreziosito richiamo al mondo classico. In questa fase anzi il mito acquista una funzione del tutto particolare andando a legarsi ad un discorso per nulla di equilibrio statico e contemplativo ma, al contrario, esso richiama la forza d’invasamento che trascina il Poeta in una realtà diversa e surrettizia.  Si tratta qui di fondare e riconoscere un mitico sovramondo.
Neppure un’utopia, ma piuttosto un mondo del tutto nuovo, materiato shakespearianamente della “ stessa materia di cui sono fatti i sogni “. E qui i sogni  nascono dalla prepotenza delle emozioni che ci dominano e ci sovrastano, ci identificano e ci espropriano. Quanto più l’emozione sommuove, oltre l’oggetto d’urto che l’ha inizialmente provocata, tanto più essa si fa alta e spazialmente dilatata, tanto da catturare  la vertiginosa “emozione dell’infinito” , che  è secondo Matte Blanco l’ identificazione stessa dell’inconscio, per diventare poi, come osserva Di Lieto, “emozione infinita”, che è  posta a fondamento della surrealtà estetica della poesia di Calabrò. La parola poetica allora acquista nell’Autore forza individuante, rendendo tangibile l’indicibile; anzi, catturandolo nella forma dialogica che presiede alla dialettica dell’Io, al suo rappresentarsi, al meravigliarsi del suo stesso farsi rappresentazione.
Stupore, attesa, emozione appaiono una triade dialettica dallo slancio hegeliano, ma sono invece elementi sgorganti non dalla logica ferrea ma proprio piuttosto dal suo ribaltamento che non è però neppure il mondo illogico dell’irrazionale. Individuiamo piuttosto un mondo parallelo di sovratono che contiene in se stesso le sue misure e le sue dimensioni contrastanti: la linearità circolare e la frattura del segmento più spigoloso ed impervio; l’acutezza dell’angolo e l’accoglienza dell’unitaria circonferenza che abbraccia e delimita.
Il viaggio conduce alla regressione verso l’inconscio, ma l’inconscio non è l’insipiente; anzi esso appare quintessenza d’essere nell’alchimia del vivere. Sconfitto non è dunque il pensiero, che anzi genera se stesso e definisce la sua forma nella parola poetica, ma è piuttosto la detronizzazione del suo imperio che presiede a quella realtà  a cui il Poeta trova antidoto nell’ebbrezza erotica.
 Un’ebbrezza dalla forza totalizzante e compiutamente avvolgente. Una spirale di risalita che, nel risucchio estremo, individua il nucleo vitale del sé, ma che anche, in assenza dell’oggetto d’amore,occupa e “affolla l’anima” nella confusione  di un vuoto indistinto che denuncia il necessitante bisogno di completezza. L’immagina richiama così i movimenti smossi d’amore che fremono nei veli marmorei del Bernini su forme femminili osservate ed amate. E l’anima sicula sembra qui  richiamare tutta l’opulenza della sua  più consona estetica:  quella che nella spirale del barocco sa leggere l’intrinseca disperazione, provocata dallo sforzo del disvilupparsi dal gioco accattivante delle spirali che su se stesse si avvolgono. In una di queste spirali, catturato dal silenzio d’eco che avvolge la parola della poesia, Corrado Calabrò  matura il suo tempo della “privazione”, per dirla con Heidegger, prima del nuovo avvìo nello slancio rigenerato.
Per questa Poesia, ardua e inquieta, accattivante ed escludente, concreta e refrattaria, Carlo Di Lieto ha compiuto, nel suo profondo Saggio critico, un illuminante percorso di chiarezza, accompagnando il lettore tra la doppia seduzione della Donna e del Mare,  lasciandolo poi approdare al gusto ed alla suggestione di una fruizione consapevole e capace di operare riconoscimenti e affinità, distanze e appropriazioni.
Lucia Stefanelli Cervelli

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