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Qui sopra, la copertina del libro. In alto, un’immagine del 68 a Napoli

Il sessantotto non è stato una rivoluzione, non si è sostituito cioè un ordine politico e istituzionale con un altro, è stato una “rivoluzione culturale”, una reazione critica ai “totalitarismi” e l’affermazione dei principi basilari di libertà e democrazia. Di questo parla Maria Teresa Iervolino nel saggio Il sessantotto capovolto, primavere del dissenso– Edizioni Melagrana, pagg. 292, Euro  14,00. L’autrice disegna questo dissenso in due aree particolari dell’Europa Centro Orientale: Cecoslovacchia e Jugoslavia.
La “Primavera di Praga”, ovvero quella aspirazione democratica che metteva assieme padri e figli, intellettuali e studenti, diede un colpo mortale all’Unione Sovietica. Essa conteneva in sé quei segnali di resistenza al totalitarismo che due decenni dopo spazzarono via il padre-padrone di un’ideologia imposta dall’alto.
I carri armati sovietici che si adoperarono per reprimere quel dissenso, nel sangue, è la cosa che più ricorda l’Occidente, meno i suicidi degli studenti e “la protesta delle torce umane”.
Maria Teresa Iervolino scende più a fondo e spiega la repressione dell’altro sessantotto, come un moto incompiuto, imperfetto, doloroso. Fa emergere quella “primavera incompresa”, quella occasione mancata di chi sosteneva un socialismo riformatore come base per i diritti e le libertà dei popoli al centro dell’interesse internazionale. Ne tratteggia le premesse, il fermento giovanile e culturale, i risvolti storici e sociali, il piano politico.
Sulla “Primavera croata” l’autrice fa notare che il Sessantotto nella ex Jugoslavia è molto meno indagato. Il periodo che va dal 1945 al 1991 non è stato oggetto di molti studi specifici, manca una storiografia completa su quel movimento studentesco. Ma la scrittrice percorre questo sentiero impervio con maestria e forza persuasiva.
Anche se già nel 1966 vi furono proteste studentesche  a Belgrado, è nel giugno del 1968 che la mobilitazione suscitò scalpore in tutti gli strati sociali. Maria Teresa Iervolino fa notare che  la Jugoslavia era il terzo paese al mondo per percentuale di studenti (dopo USA e URSS).Dopo la piazza di Belgrado la “popolazione studentesca” occupò la facoltà di Lettere e Filosofia, diffondendo una Dichiarazione che preludeva a cambiamenti politici e sociali. Poi, per una intera settimana, occuparono tutte le facoltà universitarie.
Una sinistra sociale che chiedeva la soluzione di problemi quali la disoccupazione, combattere la burocrazia, affermare i principi dell’autogestione e di una maggiore partecipazione popolare.
Dal punto di vista filosofico e culturale l’elaborazione programmatica della resistenza traeva linfa dagli sforzi di emancipazione della sinistra dallo stalinismo. La rottura tra Tito e Stalin si consumò sulla creazione di un modello di socialismo capace di reggere l’autogestione dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori. Su questo concetto si affermava la “via jugoslava al comunismo”, fondata sul socialismo di mercato e l’autogestione.
Per socialismo di mercato si intendeva il farsi “penetrare” da un sistema economico con parziale afflusso di capitali e di beni dall’estero, specialmente di beni non prodotti sul suolo nazionale.
Il libro continua con l’indagine della comunicazione sociale e culturale che ha caratterizzato, tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, l’Unione Sovietica e i paesi satelliti. A partire dal samizdat, ovvero delle pubblicazioni in proprio, autogestite, per squarciare le restrizioni ufficiali della stampa di regime. Una diffusione clandestina di scritti di autori “censurati” che diventò, negli anni, anche lo strumento per pubblicare opere letterarie.
Un’altra forma di samizdat era il cosiddetto “Music on the ribs”. Poiché era impossibile ascoltare musica straniera, le registrazioni avvenivano in proprio: su radiografie reperite nei rifiuti ospedalieri. Infine, questo saggio chiude con le “Conversazioni del dissenso”, un dialogo a più voci tra l’autrice e lo scrittore Ivan Klìma, con lo jugoslavo Pedrag Matvejevic, accademico, e con Lidia Menapace, partigiana, politica e saggista italiana.
Le interviste rappresentano la memoria della difesa dei diritti civili e del rispetto delle diversità. Dalle stesse emergono, a mio avviso, risposte impersonali, profondità culturali ed interpretazioni di lungo respiro del periodo analizzato dall’autrice.
Un finale magistrale che alza il tiro dell’indagine, si passa dai fatti e dalle circostanze ad una vera e propria cultura della memoria. Forse era proprio questo il maggior intento di Maria Teresa Iervolino: ricordare, ricostruire, far emergere un’altra riflessione su quegli accadimenti, proprio un altro Sessantotto per non “adagiarsi” sul pensiero unico della storiografia prevalente. Il coraggio di questo volume è l’aver esplorato le deformazioni del “sogno comunista”, attraverso la voce di chi ha resistito, lottato e sovvertito, specialmente con le armi della cultura e della filosofia. Ovvero attraverso quei “pensieri lunghi” di cui oggi si sente un profondo bisogno.
Il libro sarà presentato domani, martedì 30 ottobre 2018 alle ore 16.30, nella sala Cirillo della Città Metropolitana – Piazza Matteotti, 1 – Napoli.

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