Locandina della mostra "Matrice" di Valentina Guerra
Locandina della mostra “Matrice” di Valentina Guerra, con dettaglio dell’opera “Andromeda”

Dopo l’emergenza da Covid, anche l’arte riprende a respirare. Dal 24 settembre al 9 ottobre, l’artista Valentina Guerra esporrà in anteprima la mostra “Matrice”, una raccolta di dipinti prodotta durante la pandemia. L’evento verrà proposto al pubblico dalla storica bottega di Gino Ramaglia, negozio di belle arti sito nel centro storico di Napoli che, dopo lunghi mesi di inattività dovuta alle restrizioni per limitare la diffusione del contagio, riprenderà così l’esposizione di artisti in vetrina. Le opere di Valentina hanno come tema un lungo studio sulla centralità della figura femminile in rottura con stereotipi e schemi della società patriarcale. Ne parliamo con lei.
Partiamo dal titolo. Perché il titolo “Matrice” ?
Matrice vuol dire generatrice. Ogni donna al mondo è legata a questo filo rosso, perché tutte abbiamo in comune questo elemento, ma non tanto dal punto di vista della procreazione, bensì dal punto di vista intimo. In maniera ancestrale siamo portatrici di un equilibrio che se lasciato esercitare porta armonia. In altri termini, il titolo della mostra è una metafora che allude al tentativo ancora incompiuto di dare più spazio alle donne dal punto di vista sociale, politico, amoroso.

Valentina Guerra ritratta con lo sfondo
della sua opera “Yin e Yang”


Spesso rappresenti le tue opere ispirandole al “femminile sacro”. Di cosa si tratta?
Da un lato, il femminile sacro raccoglie in sé quegli aspetti che si legano agli archetipi[1]. Dall’altro, parla del messaggio potente che raffigura in sé la donna. Ho sviluppato molte idee su questa traccia riferendomi anche a delle figure della mitologia classica, che riprendono molto i vari aspetti della donna sviluppati sotto varie forme. Ognuna dà risalto a un tratto che viene visto come sacro, potente, luminoso, bello. Un bello inteso non solo in senso estetico, ma anche come sentimento del bello. In un’opera mi sono ispirata anche alla piccola Venere di Willendorf[2], tutta formosa e piena di curve, che rompe i canoni della bellezza contemporanea e ci restituisce l’immagine di un rapporto differente che probabilmentte di aveva un tempo con la donna e il femminile sacro. Prevaleva un’idea di abbondanza, che ho voluto reinterpretare disegnando questo totem nel mio acquerello femminile sacro, i cui segni sono due Lune. Dal centro della pancia, che viene sempre preso come elemento generatore insieme alla vagina, vola fuori una farfalla, che rappresenta un po’ la rinascita e la generazione dell’anima.
Qual è il tuo percorso da artista?
Sono autodidatta. Ho seguito diversi corsi, ma non ho fatto studi prettamente tecnici. Più che altro, ho attinto dall’esperienza di mio nonno e mia madre, entrambi pittori amatoriali. Inizialmente, ho approcciato ad altre tecniche, utilizzando matite colorate, acrilici. Col tempo poi, sperimentando, ho trovato la tecnica che più mi rispecchia: l’acquerello. Sto continuando a sperimentare, incrociando diverse tecniche, come il collage. Magari in futuro utilizzerò un’altra tecnica. Per ora, sento che l’acquerello è il metodo in cui mi esprimo meglio.
Utilizzi strumenti particolari per comporre le tue opere?
A volte, utilizzo anche la penna e la penna gel. Negli ultimi anni sto utilizzando la tecnica del collage, alternandolo all’acquerello. Mi piace molto dipingere in contrasto ai ritagli di carta, provando a sviluppare delle storie.
Nelle tue opere, spesso la figura femminile si confonde con ricchi riferimenti alla mitologia classica, in particolare a quella ellenica…
Non è un caso, perché alcune figure mitologiche possono rappresentare bene alcuni aspetti del femminile, ma anche alcune situazioni contemporanee. Nel mio tratto, molte cose sono legate alla mitologia, che può spiegare alcune dinamiche e legami col genere maschile e la natura. Sono temi cui tengo particolarmente, perché sono cose su cui voglio far riflettere. In particolare, mettendo a fuoco il rapporto con la figura del maschio, il rapporto col patriarcato, la violenza che noi donne subiamo ogni giorno. Cerco di far riflettere in modo non troppo diretto, perché voglio che chi guarda ciò che dipingo si distacchi un momento dalla realtà, che è già molto pesante.
È un invito alla riflessione critica?
Vorrei che la mia creazione artistica portasse in un’altra dimensione, facendo riflettere in un modo più etereo, ma su temi che viviamo quotidianamente. Tra le tante ispirazioni, proporrò due riferimenti abbastanza espliciti: Andromeda, il cui dettaglio è inserito anche nella locandina dell’evento, e Diana. Sono due figure di donna che potremmo interpretare in contrapposizione. Nella mitologia, Diana è molto forte e aveva un rapporto molto intenso con l’elemento della Luna. Andomeda, invece, rispecchia la parte più debole della donna, che però viene riequilibrata dalla parte maschile. Sono due facce della stessa medaglia, così come lo erano le figure delle varie dee che, se vogliamo, possono andare a comporre un’unica donna.
Qualche giorno fa, la giornalista Barbara Palombelli ha detto che sono le donne e i loro comportamenti a istigare determinati la violenza degli uomini. Che opinione ti sei fatta di queste dichiarazioni?
La Palombelli è la punta dell’iceberg del problema. Non voglio soffermarmi su di lei, ma sul problema comunicativo. Penso che quando una donna ragiona in questo modo, sia tutta la società ad avere grossi problemi di fondo. Penso, invece, che dobbiamo sempre cercare di mantenere una narrazione dalla parte delle vittime. La violenza sulle donne è un elemento legato alla nostra cultura, intrisa di patriarcato. Il giornalismo non sa più comunicare. Il femminicidio viene sempre descritto come qualcosa di morboso, la vittima ha sempre scatenato qualcosa che ingenera la violenza o l’omicidio maschile, mentre il carnefice viene sempre presentato come persona malata. È tutto squilibrato. Molte donne sono intrise di tutto questo, nel senso che anche nell’esprimersi si posizionano su questa linea in cui la donna è sempre colpevole, anche quando è vittima. La mia opinione è che bisognerebbe fare un’educazione per step e rendersi consapevoli di ciò che accade intorno a noi. Bisognerebbe fare prevenzione, ma è complicato. Gli strumenti di giustizia ci sono, ma non funzionano. C’è la necessità di rigenerare l’attivismo sociale su questi temi, ma non rendendolo di nicchia. È molto complicato, ci vorrà del tempo.

L’opera “Respira” [Photo credit: Valentina Guerra e Sissi Dell’Aversana, che si ringrazia per l’amichevole collaborazione]

Ti senti stimolata da Napoli e dal suo ambiente artistico-culturale? Lo ritieni cosmopolita o provinciale?
Per certi versi, Napoli è molto cosmopolita e accogliente. È un melting pot[3]. Per ciò che concerne la sfera artistica, invece, c’è molto provincialismo. La street art mi sembra che abbia molta più carne a cuocere. L’ambiente pittorico, invece, resta ancora chiuso. Non credo sia una prerogativa esclusiva della sola Napoli, perché temo che il problema sia diffuso anche in altre città. Avremmo tutte le carte in regola per poterci aprire, ma non so dire perché ciò non avvenga. Forse, la spiegazione più semplice è perché l’artista si sente legato moltissimo al proprio ego. Non c’è quel buon grado di apertura e umiltà che porta a creare progetti assieme. Forse, ci sarebbe bisogno di fare più progettazione collettiva, più condivisione, più rete. Finchè questo non accadrà, saremo ancora destinati a essere una realtà di provincia.
Ti piacerebbe portare la tua mostra in Italia e in Europa?
Certo.. L’idea di “Matrice” è nata in pandemia. Moltissimi pezzi li ho dipinti durante il lockdown. In particolare, rammento un pezzo, che si chiama “Yin e Yang” con le foglie del gingko biloba[4]. Ho avuto moltissimo tempo per preparare questa mostra. Mi piacerebbe molto portarla in Spagna e Portogallo, perché sono paesi che in un qualche modo sento molto vicini come concezione, come accoglienza. Ma, se ne avessi l’opportunità, vorrei portare la mostra ovunque. Sto sognando in grande, vedremo gli sviluppi della pandemia. Vorrei portare in giro non solo la mia visione del femminile, ma anche contribuire a dare una spinta alla tecnica dell’acquerello, che moltissimi artisti non praticano o considerano arte minore. Siamo in pochi a praticarla e vorrei sfatare questo mito di una tecnica relegata alle cartoline. Anche qui, dovremmo a guardare all’esempio di moltissimi artisti che, nel Mondo, hanno ripreso quest’arte e le hanno dato nuovo lustro. Sarei molto felice di inserirmi in questo filone.
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In copertina, l’artista con la bozza di un suo lavoro


NOTE

[1] L’archetipo è una parola che deriva dal greco. Significa: primo modello o esemplare originale di un testo, un’opera d’arte, un pensiero filosofico, ecc.

[2] La Venere di Willendorf è una statuetta rinvenuta agli inizi del XX Secolo dall’archeologo Josef Szombathy, presso Willendorf in der Wachau (Austria). Questa scultura, scolpita in pietra calcarea e dipinta in ocra rossa, ritrae una donna molto formosa. Risale a un periodo tra il 24 000 e il 22 000 a.C. Questa raffigurazione della donna era ben lontana dagli schemi culturali odierni.

[3] Termine inglese che indica l’incontro e il miscuglio di gruppi e individui di differenti culture, colori di pelle e credo religioso.

[4] È una pianta antichissima, proveniente dalla Cina, le cui origini risalgono a circa 250 milioni di anni fa. Motivo per cui viene ritenuta un fossile vivente. I principi attivi di questa pianta vengono ampiamente utilizzati in campo medico e terapeutico. Presenta delle caratteristiche foglie decidue, lungamente picciolate a lamina verde chiaro.

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