Pubblichiamo di seguito la seconda e ultima puntata del racconto di Francesco Divenuto “La mia linea retta”. Un poetico e struggente ricordo di via Toledo e dintorni. Nella Napoli di un tempo.

SECONDA E ULTIMA PUNTATA

Girando fra quelle strade cerco il bar il quale, avendo rinnovato le vetrine e le insegne, era diventato il locale elegante del quartiere, quello dove, la domenica, semmai dopo aver bevuto l’aperitivo con gli amici, compravi i dolci per la famiglia, ma non riesco più a trovarlo. Sento ancora l’odore di fior d’arancio misto a quello del caffè appena tostato; potrei chiedere a qualcuno ma dovrei avere dei riferimenti precisi. Rinuncio a ogni ricerca; mi convinco che, forse, confondo nomi e luoghi diversi; non poche volte, il ricordo è solo una sensazione o, forse, chissà, una menzogna, un’invenzione  della memoria.
Ma non è certo un’invenzione questo enorme portone verde di fronte al quale mi fermo sorpreso. I miei passi mi hanno, senza che lo avessi deciso, portato dove tutto comincia: la mia scuola elementare, l’istituto delle monache, quelle con il cappellone dalle bianche ali, quelle dell’ordine delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli, fondato dalla religiosa francese Suor Luisa di Marillac.
In verità noi ragazzi per indicarle usavamo un termine forse dispregiativo, ma in realtà più familiare: le chiamavamo “e cap’e pezze” pur avendo rispetto e timore della loro severità.
Una severità, alla nostra età, non priva di motivazione e che, quasi per tutti, dava i suoi frutti.
Ma dietro quel portone, per noi ragazzini, si apriva un mondo nuovo. Tutto cambiava; innanzitutto l’intensità della luce che invadeva lo spazio ossia la sensazione di un “vuoto” nel quale potevi camminare o correre liberamente.
L’angustia e il buio della quasi totalità delle nostre case per qualche ora venivano dimenticate. E nelle aule scompariva anche ogni distinzione sociale. 
Sotto grembiuli neri, quasi sempre ereditati da un fratello, e con vaporosi fiocchi eravamo tutti uguali. Forse una maggiore cura della persona faceva la differenza. Ma dopo qualche giorno, la severa rassegna giornaliera, con la quale le suore ci accoglievano ogni mattina, anche il più restio imparava che a scuola bisognava venire puliti e in ordine; cosa che riguardava anche cartella e quaderni.
In certi giorni le attività impegnavano alcune ore del pomeriggio con gran sollievo delle famiglie ma anche di noi ragazzi. Il tempo trascorso a scuola, nonostante le naturali difficoltà d’apprendimento, era una continua allegria, era una possibilità di giochi, era una gioia che in molte famiglie mancava. Erano gli anni subito dopo la guerra e pochi avevano una sistemazione ed un lavoro stabili. Molti vivevano di espedienti e, fra noi ragazzi, la cattiveria con la quale ci prendevamo in giro apparteneva alla nostra età, certo, ma, quasi sempre, coinvolgeva le famiglie e le loro attività che tutti, nel quartiere, conoscevano.
Alla nostra età la giornata era scandita da orari e abitudini sempre uguali: scuola, associazione cattolica, qualche cinema con fratello maggiore, semmai il sabato, e la domenica con la famiglia la messa nella parrocchia; la palestra era un luogo fuori quartiere ed ancora poco frequentato. Solo i più grandi potevano andarci così come a loro ci affidavamo per capire come si poteva crescere in un quartiere popolare. In loro credevamo, fiduciosi; da loro le nostre prime “tirate” da una sigaretta fumata nel giardino dell’associazione cattolica, da loro i particolari dei primi incontri amorosi.
Il tempo del disincanto, del ridimensionamento dei loro racconti, sanciva la nostra crescita e, per qualcuno, anche il passaggio da spettatore a protagonista. Ed era allora che quello più spigliato o che voleva dimostrare agli altri di esserlo, organizzava una passeggiata particolare. Giravamo per le strade del quartiere fermandoci davanti a qualche portoncino il cui numero civico era illuminato.
Allora, fra risate e impazienti attese cronologiche, si fantasticava sulla “vita” che si svolgeva in quelle “case”. Era un passatempo innocente che ci vedeva protagonisti divertiti ed ansiosi; il tempo necessario per un nostro accesso a quelle “case” ci sembrava passasse troppo lentamente ma intanto scandiva nuove esigenze ed il desiderio di altre esperienze che avevano la loro meta fuori del quartiere.
Quanti anni sono passati da tutto questo? Che inutile esercizio; nulla potrà cambiare ormai. E allora? 
Mentre guardo il grande portone i ricordi continuano: quasi tutti i ragazzi del quartiere, senza distinzione di censo, hanno frequentato quella scuola elementare per poi passare, almeno quelli che potevano continuare gli studi, alla scuola media “Pasquale Scura” nella omonima via meglio nota come Spaccanapoli.
Non ricordo per quale motivo, però, la scuola media alla quale fui iscritto, si trovava alla salita Pontecorvo. Per raggiungere questo Istituto occorrevano non poche deviazioni rispetto alla “mia” linea retta. Il mio orizzonte si allargava ma, a quella età, deviazioni me ne concedevo parecchie. Cominciava quell’ansia di oltrepassare i confini del quartiere per conoscere una realtà più vasta, per capire che cosa ci fosse oltre l’orizzonte che le regole familiari ci avevano imposto. Esperienza da vivere, semmai, con qualche amico, quello con il quale scambiare le prime confidenze. Cominciava quella naturale selezione fra i ragazzi; e non tutti diventavano amici.
Chi restava indietro negli studi o chi non li completava perché preferiva lavorare nel negozio di un parente, quelli si perdevano, uscivano dal giro e non frequentavano più l’associazione cattolica nemmeno per la partita la domenica mattina. Si creava un distacco, non soltanto sociale, ma quasi fisico.
Chi aveva proseguito negli studi cominciava a sentirsi a disagio nel quartiere che diventava solo il luogo dove abitare, dove dormire ma non più quello dove vivere. Ed anche questa era una migrazione; prova generale per una vita costruita altrove e spesso anche in un’altra città.
Ormai tutto questo appartiene a un’altra stagione della mia vita ed i ricordi diventano, presto, malinconia. Ma è inutile sfuggire ai ricordi poiché questi possono aiutare a continuare e allora riprendiamo da dove “tutto è cominciato”.
Hanno aperto il grande portone verde; sbircio dentro. Nella portineria, sulla destra, non c’è nessuna suora che mi chiede che cosa desidero. Stupido flash di un tempo quando in quel locale, un po’ rialzato, sedeva sempre una suora che, dopo che i ragazzi erano entrati, chiudeva il portone e aspettava la loro uscita alla fine delle lezioni.
Continuo ad avanzare lentamente nel cortile. Mi giro su me stesso, aspiro ma non sento più l’odore che nei ricordi è così vivo. Dove sono gli alberi che, in doppia fila, segnavano il passaggio fra il cortile ed il chiostro successivo? Vedo solo uno spazio dove sostano alcune macchine.
– Ha bisogno di qualcosa? Posso aiutarla?
Non credo, grazie; cercavo gli alberi.
– Non capisco; che cosa vuol dire?
Guardo la simpatica ragazza che mi è venuta incontro.
– Sì, mi scusi; lei certo non può ricordarlo ma qui, nel cortile, c’erano alberi di pepe selvatico. Almeno le suore così ci dicevano; erano alberi che nessuno aveva mai visto.
– Ah! sì, ho letto che in questo Istituto prima c’erano le suore. Ora c’è una Fondazione, svolgiamo una intensa attività culturale.  
– Sì, seguo le vostre iniziative; ma abito lontano e poi, l’età, la sera non è facile…
– Capisco, ma come mai lei sa che qui c’erano gli alberi?
– Ha ragione; ma la mia età dovrebbe dirle qualcosa. Sì, abitavo nel quartiere e ho frequentato questa scuola. Dicevo degli alberi; avevano rami sottili, lunghi, frondosi con foglie piccole e allungate; ma è difficile da spiegare. I rami scendevano formando un ombrello; era così fitto che, per gioco, potevamo nasconderci appiattendoci contro il tronco. Insieme alle foglie sottili, c’erano grappoli di acini rossi; se ne schiacciavi uno fra le dita, si sprigionava un odore forte, molto intenso. Non capisco perché li abbiano tagliati.
Io non li ho mai visti; quando siamo arrivati già non c’erano; peccato.
– Erano uno spettacolo non soltanto per gli occhi; se c’era un po’ di vento i lunghi rami ondeggiavano con un leggero fruscio e nell’aria si spandeva un odore molto particolare. Un odore che non ho più ritrovato. Ma forse è solo un mio ricordo; sa, la malinconia degli anni che passano.
– Ha detto che abitava nel quartiere?
La ragazza, con grande sensibilità, ha compreso il mio stato d’animo; l’iniziativa di cambiare discorso, pur restando in argomento, mi fa sorridere.
Per il mio lavoro ho sempre avuto contatto con i giovani; credo nella loro capacità di guardare avanti, di affrontare con sicurezza i problemi che si presentano spesso in maniera inaspettata.
La guardo sorridendo
– Sì, le rispondo; abitavo a pochi passi, il primo palazzo dopo la scalinata. Non so perché ma questa mattina ho deciso di fare un giro nel quartiere senza alcuna meta; non ho ritrovato nessun negozio di quelli che ricordavo; sa, questo era un quartiere popolare, c’erano molte botteghe, soprattutto di alimentari.
– Ora ci abitano molti extracomunitari però ci sono anche nuove attività e associazioni culturali. Noi non siamo i soli ed il quartiere ha risposto bene a tutte queste iniziative; in particolare i giovani. Abbiamo una scuola di musica, una di teatro. Tutto il giorno qui ci sono tanti ragazzi che seguono i corsi e molti sono del quartiere. La sera facciamo cinema o teatro…
– Lo so; la vostra è una bella iniziativa; in un quartiere popolare; siete stati coraggiosi. Mi piacerebbe partecipare di più ma l’età non mi è favorevole.
La ragazza sorride ma non aggiunge nulla; e io preferisco questo dolce sorriso alle formule di rito: ma no, non è possibile, non si direbbe, lei se li porta benissimo.
– Vuole entrare? Venga, i ragazzi stanno provando.
Percorriamo il corridoio che unisce il cortile al chiostro. Giunto nel portico mi fermo; anche la ragazza, avendo compreso il mio pensiero, si è fermata. Tutto in questo spazio mi è familiare: le cinque campate in piperno che reggono il primo livello a sua volta coperto da uno terrazzo; ogni particolare è come lo ricordavo, solo il giardino con, al centro, la cappellina con la statua della Madonna, non c’è più; ora è un cortile pavimentato. Su un lato, davanti ad una pedana rialzata, alcuni ragazzi stanno sistemando alcune file di sedie.
Giro a destra per raggiungere la cappella.
– Vedo che ricorda la strada.
– Sì, ha ragione; piano piano tutto ritorna chiaro nei miei ricordi.
Sono io che cammino?
Fra poco, nella chiesa dell’istituto, sarà celebrata la cerimonia delle prime comunioni. Ho un abito bianco e sono in compagnia dei miei genitori: mio padre alto, elegante e mia madre che porta il cappello come sempre quando partecipava ad una cerimonia importante.
La ragazza mi saluta e si allontana discreta. Eccomi, di nuovo, dopo tanti anni, nella piccola chiesa dove un gruppo di ragazzi, allegri, chiassosi è in pausa prove.
Mi guardano sorridendo ma non mi va di dare fastidio; saluto e mi seggo senza avanzare.
Non ricordo molto di questa piccola chiesa nella quale eravamo costretti a venire. Sarà forse per questo che di tutto l’Istituto la cappella sia l’unico ambiente del quale non mi sia rimasta nessuna immagine. Ed i lavori resi necessari per adattare l’aula rettangolare a teatro avranno, certo, cancellato ogni traccia dell’aspetto precedente. In una piccola edicola è rimasta la statua di un giovane; è vestito come un soldato romano; particolare che dovrebbe aiutarmi. Deve essere un martire perché ha una palma in mano, particolare con il quale vengono rappresentati i santi che hanno subito un martirio. Ma sì, Tarcisio, ecco chi è il santo; un giovane romano martire per aver professato la sua fede; la sua vita ci veniva raccontata come esempio di virtù da seguire; ricordo anche l’immaginetta che le suore distribuivano.
Con un leggero calpestio, intanto, i musicisti si sono sistemati sfiorando appena gli strumenti.
Dietro, in piedi, ordinate file di ragazzi formano il coro.
Il direttore, poco più di un ragazzo, batte le mani ed invita a ricominciare. Mostra una severità, che non gli appartiene, forse dovuta alla mia presenza.
Guarda tutti girando leggermente la testa. Poi alza la mano ed il concerto ha inizio. Non ho difficoltà a riconoscere un brano dei “Carmina Burana” una delle composizioni più spesso eseguite dalle orchestre giovanili. Il livello dell’esecuzione, in particolare degli strumenti, mi sembra buono; è evidente che le prove sono cominciate da molto tempo.
Un’ultima eco si ferma nell’aria di una sala la cui acustica non è certo perfetta; ma l’entusiasmo dei giovani è contagioso ed il fascino della musica resta intatto. La prova è finita; i ragazzi mormorano allegri; il maestro li guarda sorridendo; evidentemente è contento della loro esecuzione. Poi si gira a guardarmi; certo aspetta una mia conferma. Applaudo convinto ed allora i ragazzi si uniscono anche loro rumorosamente.
Sorrido ricordando le recite della mia infanzia il cui soggetto era una storia forse scritta dalle suore. Era quasi sempre una vicenda triste con un finale felice in cui trionfavano i buoni sentimenti; insomma una storia edificante; del resto non si poteva certo pretendere testi troppo impegnativi che affrontassero, semmai, tematiche proprie della nostra giovane vita ed in fondo la presenza delle famiglie assicurava il successo.
Allegri, i ragazzi ora escono passandomi accanto e mi sorridono; il giovane maestro  mi saluta con la mano mentre raccoglie gli spartiti lasciati sulle sedie.
Lentamente ritorno verso l’uscita. Per un attimo penso di salire all’ultimo piano dove, ricordo, c’era l’aula della quinta classe ed affacciarmi dal balcone sulla piazza sottostante. Quando arrivavi in quell’aula sapevi che quello sarebbe stato l’ultimo anno; finiva una prima importante stagione della nostra giovane vita per poi accedere alla scuola media. Era un passaggio importante per il quale occorrevano due esami: di licenza e di ammissione. Ma non tutti seguivano lo stesso percorso; la scuola dell’obbligo allora non esisteva e spesso, per molti, quella elementare restava l’unica occasione di istruzione.
Nel cortile rincontro la ragazza che mi affianca ritornando verso l’uscita.
– Le è piaciuto il concerto?
– Oh! sì, sono bravi. Suonano da molto tempo? Mi sembrano molto affiatati.
– Sì, questa è l’orchestra dei più grandi, gli allievi dell’ultimo corso. Aspetti, ora le do il programma dei prossimi appuntamenti; ci venga a trovare, semmai di pomeriggio; comunque ci sono anche incontri di mattina.
– Grazie, mi ha fatto piacere stare qui; credo che ritornerò. Arrivederci.
Fuori, richiudo il mio armadio dei ricordi e, lentamente, ridiscendo verso la rumorosa strada vicereale.
(2.fine)

PRIMA PUNTATA
Quei rumori di un quartiere popolare

Sono nato in un quartiere popolare dove tutto era esagerato: il numero di figli in ogni famiglia, le urla delle mamme che li richiamavano la sera, i litigi fra vicini, le voci dei cantanti sparate dai grammofoni ostentati come conquista di uno stato sociale; da ogni basso la canzone del momento invadeva la strada nel tentativo di sopraffare quella che urlava dal terraneo vicino.
Questa sceneggiata, spesso, nascondeva un antico rancore che poteva anche arrivare a un vero e proprio litigio; tutto si sarebbe consumato in poco tempo quasi sempre senza lasciare strascichi dolorosi e quando ritornava la calma le “voci” riprendevano incontrastate.
Eva Nova cantava fino allo sfinimento “madunnella” mentre Amedeo Pariante e Franco Ricci sostenevano i loro gorgheggi; allora non c’erano ancora i neomelodici.
Il Festival della canzone napoletana, iniziato nel 1952, cambierà i gusti: Maria Paris e Gloria Christian divennero i nuovi idoli, le canzoni cambiarono ma continuarono a invadere il vicolo per molte ore.
Anche i sentimenti erano esagerati: gli amori urlati e pretesi quasi sempre con la donna in una posizione di accettata sottomissione. E quando questi amori, come un fuoco improvviso, altrettanto velocemente si spegnevano, allora i litigi e, spesso, il delitto passionale diventava la cronaca quotidiana della quale ognuno aveva la sua versione.
Anche la miseria era esagerata; quella delle famiglie e quindi anche quella dei ragazzini. Per le famiglie, la miseria, non era facile da sopportare; era un peso che gli adulti si trascinavano addosso, a volte, per tutta la vita. Famiglie nelle quali un’epidemia poteva regolare i conti fra cibo e bocche da sfamare; famiglie nelle quali un cappotto, il cappotto, conosceva molti proprietari e molte, troppe stagioni. E quando l’indumento dopo tanti rattoppi era giunto all’ultima stazione del suo lungo viaggio, un tubetto di Super Iride e, semmai, nuovi bottoni lo rimettevano in circolazione per un’altra stagione.
Per i ragazzi la fame si vinceva con una fetta di pane condita con l’olio o anche con un “cuzzetiello” di pane nel quale un po’ di salsa nascondeva l’assenza di ogni pietanza. E l’età aiutava a vivere sperando in un futuro migliore.
Tutta la mia infanzia e buona parte della mia giovinezza, le ho trascorse lungo una linea retta; in realtà quasi retta considerando una piccola deviazione, un gomito, all’altezza di via Toledo o meglio via Roma come, allora, era chiamata la famosa strada. La via in cui abitavo e quella del negozio di mio padre, infatti, all’altezza della strada vicereale erano sfalsate con lo scarto di un modulo; tirando, invece, una linea retta, continua, la strada della mia abitazione si congiungeva con via Ponte di Tappia, il mercato alimentare del quartiere e dove si concentravano anche i negozi. Per molti anni, questo percorso ha costituto il confine della mia vita.
Lungo la linea retta, la “mia” linea retta, prima di giungere su via Toledo s’incontra il largo Barracche così detto per la presenza, un tempo, di casotti in legno dei venditori ambulanti; in realtà è solo un vuoto, una casella mancante nel regolare disegno urbanistico.
Nello slargo, in tempo di guerra, vi era l’ingresso di un ricovero che scendeva nel banco di tufo, il materiale lapideo più comune nell’edilizia napoletana.
Frequentatori abituali del luogo erano gli ospiti dei vicini “casini”, come venivano chiamate le “case chiuse”. Da una di queste esce Teresa, la protagonista di uno degli episodi del film di De Sica “L’oro di Napoli”, interpretato da Silvana Mangano.
Nelle strade più vicine alla via Toledo si intensificava l’attività commerciale fatta, per lo più, di piccole botteghe di alimentari o fruttivendoli; non mancava la farmacia, il tabaccaio, il barbiere e qualche timido tentativo di commercio: l’emporio, ad esempio, era qualcosa più della semplice merceria.
In queste prime strade abitava una classe medioborghese: qualche avvocato, il funzionario di banca, il commerciante; c’era anche il dottore, il pediatra, al quale ricorrevano le mamme di un infinito numero di ragazzini.
Nella parte alta del quartiere, invece, vi era solo qualche modesto alimentare mentre quasi tutti i terranei erano adibiti ad abitazioni nelle quali, molto spesso, si svolgeva un commercio di povere cose. Quella che potrebbe essere definita “micro-economia”, era basata sulla vendita di oggetti di uso quotidiano: per lo più articoli di merceria, oltre ai quaderni per la scuola, le caramelle e qualche giocattolo; tutte cose di poco prezzo e poco valore.
Non era raro il caso in cui, almeno un giorno la settimana, il banchetto, con questa povera merce, venisse sostituito da una padella fumante in cui friggevano pizze, le famose “oggi a otto” perché fra la consumazione ed il pagamento passava, appunto, una settimana.
Questa attività non era la sola, in ambito culinario, che trovava in questi terranei la sua sede naturale; le spighe, arrostite o bollite, e il sorbetto colorato nei mesi estivi, e le castagne -le allesse- nei mesi invernali, costituivano un’altra fonte di guadagno e trovavano, specialmente in noi ragazzini, i più affezionati clienti.
Erano sempre le donne a gestire queste attività che, quasi sempre, nascondevano anche un aspetto illegale per cui insieme alle povere cose di cui abbiamo detto, il commercio più redditizio era costituito dal contrabbando delle sigarette.
Per molti anni il quartiere ha conservato il carattere per così dire trasgressivo.
Ci fu un periodo, per parecchi anni dopo la seconda guerra mondiale, durante il quale, in particolare la sera, questi terranei, i “vasci”, diventavano accoglienti luoghi nei quali s’intrattenevano marinai americani sbarcati nel vicino porto e qui accompagnati da svegli ragazzini. Poveri giovani della lontana America che in queste strade trovarono l’amore: un amore spesso di seconda mano che ha riempito lontani angoli degli Stati Uniti di rispettabili signorine napoletane e lasciato, in qualche vicolo napoletano, il simpatico portatore di un Dna colorato.
In questo caso il limite fra lecito e illecito era alquanto impreciso; non erano rare le volte durante le quali i marinai, benché ubriachi, cercavano di recuperare almeno i soldi dei quali erano stati derubati.
La sera, quindi, tutto cambiava e a noi ragazzini restava il proibito piacere di guardare, dalle finestre, i traffici che si svolgevano nella strada. Risse ed intervento della polizia costituivano una delle recite possibili di quel teatro nel quale un’umanità misera svolgeva il suo ruolo con convinzione.
In fondo erano vicende che, in qualche modo, diventavano lezioni di vita anche perché gli adulti se ne servivano per impartire lezioni, per sottolineare la differenza nei comportamenti. Noi, “signorini per bene”, figli di una media borghesia, non dovevamo ignorare nulla ma semmai imparare dove stava il confine fra un comportamento corretto ed un’attività che, non poche volte, portava a conseguenza malavitose con arresti quando, non poche volte, con spargimento di sangue.
Un patto non dichiarato, infatti, sanciva una convivenza fra i diversi soggetti sociali. In questo modo la pace era assicurata. In base ad una secolare convivenza fra ceti sociali diversi, nel quartiere si viveva una discreta serenità e, direi, sicurezza. Ognuno sapeva quale fosse il suo ruolo e quello degli altri e quella che i sociologi chiamano la “scalata sociale” fra i ragazzi del quartiere era una possibilità concreta molto più di quanto si possa immaginare.
La scuola, allora, svolgeva una funzione fondamentale; l’istruzione poteva essere una via di fuga dalla propria condizione; era anche una lezione di vita, una possibilità per aprirsi a nuove esperienze, a misurarsi con diverse realtà. Nella stessa classe, infatti, era possibile incontrare il figlio del bottegaio, del commerciante e quello del professionista. Una commistione che permetteva, ad  ogni ragazzino, di misurare la propria volontà e capacità di crescere.
Una prima radicale trasformazione sociale del quartiere avvenne con lo sventramento del rione Carità. La vasta area, a valle della strada vicereale, fu demolita per far posto a quello che negli anni cinquanta del secolo scorso, sembrava dovesse diventare la “city”, il cuore pulsante della città, con banche, uffici e studi professionali, una delle tante promesse tradite di questa città.
La complessa trasformazione urbanistica non interesserà l’antico assetto abitativo a monte della strada toledana mentre influirà sulla sua organizzazione sociale ed economica.
Nuovi locali, sorti nei pressi del porto e decisamente più moderni ed attrezzati, richiamarono i militari per cui, nelle strade del quartiere, finita l’epoca del marinaio americano, trascinato a bere in bettole improvvisate, ci fu un periodo di transizione difficile per gli abitanti.
Una popolazione più legata ad attività impiegatizie, che non al commercio, emigrerà verso quartieri di nuova realizzazione. Case più comode, con servizi più efficienti, che rispondevano alle nuove esigenze. Il terremoto del 1980, peggiorò le condizioni statiche e igieniche di molte abitazioni, accelerando questo esodo che provocò una vera rivoluzione nel tessuto sociale della zona.
Chi poteva, infatti, si allontanò dal quartiere; molti terranei, lasciati liberi, furono occupati da una nuova popolazione, molto spesso straniera. Il quartiere conserverà il suo carattere popolare pur diventando multietnico con problemi di convivenza non sempre facili.
Un modello che, in questi ultimi anni, è andato in crisi per diversi motivi ma che, nel tempo, ha dato vita ad una nuova inaspettata ripresa. Quella popolazione straniera che, al proprio arrivo in città, si era sistemata nei terranei, i “bassi”, lasciati liberi dai precedenti inquilini, lentamente si è inserita nella vita economica e sociale della città iniziando, a sua volta, un continuo trasferimento verso quartieri dove fosse possibile usufruire di migliori servizi a cominciare dalle strutture scolastiche.
Fenomeno, inoltre, favorito dai proprietari in quanto una nuova immagine della città ha rivalutato molte aree centrali nelle quali si è insediato una intensa attività legata al turismo ed all’intrattenimento.
A partire dalle strade più vicine alla via Toledo, infatti, sono aumentate pizzerie, ristoranti, vinerie, spesso a conduzione familiare, che, ogni sera, attirano giovani e turisti ai quali viene venduto un facile folclore. La loro diffusione ha creato una sorta di Plaka partenopea favorita anche dalla pedonalizzazione che, ormai, caratterizza molte zone centrali delle città.

Qui sopra, una pianta di pepe selvatico, immagine che richiama alla mente ricordi d’altri tempi. In copertina, via Toledo oggi

                                                                       * * *

Ecco, penso sorridendo, ho ripassato la mia lezione socio-economica mentre, lentamente, giro per queste strade, cercando di ritrovare angoli forse non più esistenti. In questo esercizio di memoria percorro via “Speranzella” dove, da sempre, sono concentrate le attività commerciali del quartiere. La lunga parallela a via Toledo è illuminata da festoni di bandiere e lampadine che attraversano la strada nella quale molti locali hanno invaso gli spazi pubblici con i loro tavoli. Nelle insegne dei negozi cerco vecchi ricordi; tutto mi appare estraneo. Il mercato alimentare di via “Taverna Penta”, -chi mai si ricorderà che il nome ufficiale è Emanuele De Deo, un dimenticato martire della Repubblica del 1799?- conserva la sua precedente organizzazione, ma nelle traverse vicine l’assedio delle nuove attività è continuo e le tavole, sulle strade, aumentano.
Nella piazza Montecalvario, la “muraglia” che contiene la stazione della nuova metro, non è stata una bella soluzione ma ha favorito l’insediarsi, in questo “vuoto”, di bar e discoteche che, la sera, attirano molti giovani. La fabbrica del ceraiolo, nei locali a piano terra della terrazza sulla quale poggia la chiesa di Santa Maria della Mercede, non c’è più così come non c’è più il piccolo emporio dove potevo comprare la segatura per il gatto ma anche quaderni e caramelle.
Sono scomparse anche le signorine che, in un terraneo della piazza, svolgevano il lavoro di stiratrice. L’unico lato che è rimasto intatto nel tempo è quello occupato dalla scuola elementare.
Mi fermo indeciso sulla direzione da prendere; ritornare verso via Toledo o restare ancora nel quartiere e, semmai, rivedere la chiesa della Concezione, splendida chiesa barocca -ma questo l’ho capito molto dopo- sede di una associazione cattolica dove noi ragazzi andavamo nelle ore libere, in particolare il sabato pomeriggio, attirati dal giardino dove si poteva giocare o, quando pioveva, dal bigliardino e dal tavolo da ping-pong sistemati in alcuni ambienti ai quali si accedeva anche dalla chiesa.
Riprendo a camminare; la chiesa è chiusa; cerco, invano, il giardino della mia prima gioventù. I bei, monumentali alberi, non ci sono più, abbattuti per far posto ad una struttura pubblica. La salita stanca; come avrà fatto il povero Leopardi che abitava ancora più su, a proseguire. Vorrei continuare ancora e giungere almeno fino al teatro; è una sala importante; c’è, quasi sempre, una bella programmazione. Negli anni cinquanta sorse come cinema e all’inaugurazione, ricordo, mia madre mise il cappello; forse sarà stata l’ultima volta.
Un’altra sala del quartiere ha recuperato la sua storica funzione. Sorta come teatro, nel Settecento, non conservava più la sua originaria veste architettonica e, nel dopoguerra, era diventata un cinema fino a quando, una sera, la cabina di proiezione prese fuoco. Allora le pellicole presentavano un alto tasso d’infiammabilità e le norme di sicurezza erano alquanto elementari. L’operatore si salvò ma subì mesi di terapie per ricostruire le parti del corpo rimaste ustionate. Il povero uomo, il volto sfigurato, camminava quasi cercando di non farsi vedere; certo era consapevole del suo aspetto raccapricciante e noi ragazzi, ai quali i genitori avevano raccomandato di essere gentili, in realtà evitavamo di incontrarlo.
Solo dopo parecchi mesi la sala riaprì avendo rinnovato soprattutto le macchine per le proiezioni. Oggi, dopo varie interruzioni, è un accogliente spazio, interessante luogo teatrale che, ogni stagione, ritrova un pubblico che attende novità.
©Riproduzione riservata 
(1.continua)
L’AUTORE
Ordinario di storia dell’architettura all’università Federico II di Napoli, Francesco Divenuto è autore, tra l’altro, di  numerosi saggi su riviste specializzate e di  due romanzi “Il capitello dell’imperatore. Capri: storie di luoghi, di persone e di cose” e “Vento di desideri “(edizioni scientifiche italiane). Tra gli ultimi libri realizzati, quello a più voci dal titolo “Napoli: a bordo di una metro sulle tracce della città” coordinato con Guido D’Agostino e Antonio Piscitelli (edizioni scientifiche italiane 2019), La casa nel Parco. Un giorno tra il Museo e il Real Bosco di Capodimonte (AGE 2020).
Tra i racconti, pubblicati sul nostro portale, “Variazioni Goldberg”, “Il bar di zio Peppe”, “Carmen e il professore”, “Il flacone verde (o Pietà per George)”, “Lido d’Amore”, “Frinire”, “Primo novembre”, “Due di noi”, “Il trio”, “Quattro camere e servizi”, “Mai di domenica”, “Cirù e Ritù”, “Una notte in corsia”, “Gennaro cerca lavoro (il peccato originale)”, “L’odio”, “Il vaso cinese”, e “Il nuovo parroco”, “L’eredità”, “Una caduta rovinosa”, “Cronaca nera”, “La cartellina rossa”. “L’ultima scelta”, “Un disco rotto”.

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