Illustrazioni e psicoterapia si abbracciano in un ironico connubio nella nuova proposta del marchio editoriale ilmondodisuk. “Dottó. Facezie e vongole sul lettino” di Salvio Esposito trasferisce chi legge nello studio dello psicologo dove arrivano spesso il disagio e la sofferenza.
L’autore ne parlerà domani, venerdì 3 maggio 2024 alle 11 a Palazzo Du Mesnil, in via Chiatamone ,61, con Augusto Guarino (prorettore dell’Università L’Orientale), Giuseppe D’Alessandro (ordinario di storia della filosofia Università L’Orientale), Donatella Gallone (giornalista e fondatrice del portale, e-magazine e casa editrice ilmondodisuk), Valentino De Luca che ha realizzato i disegni. Incursione artistica di Rosalia Porcaro. Il libro verrà presentato anche al Salone del libro di Torino (al Lingotto) lunedì 13 maggio alle 16.30, nello stand della Regione Campania. Con l’autore e l’editrice ci sarà il musicologo e scrittore Alessandro Zignani.
Di seguito vi proponiamo uno stralcio della prefazione di Augusto Guarino.

Illustrazioni di Valentino De Luca dal volume di Salvio Esposito

DI AUGUSTO GUARINO
(… )lo strafalcione linguistico (la deformazione di una parola) nasconde un ragionamento (sia pure erroneo, un paralogismo) per provare a passare da qualcosa di oscuro a qualcosa di familiare. È il segnale del disagio che deriva dalladifferenza di percezione e di cultura tra un soggetto
e la realtà che sta vivendo e che è chiamato a interpretare. Spesso si tratta di una distanza di tipo sociale, incarnata anche da una diglossia (generalmente la differenza tra il dialetto conosciuto dal parlante e
la lingua ufficiale, o magari tecnica, a cui è esposto), ma può essere anche generazionale (pensiamo allo sconcerto dei genitori rispetto al linguaggio degli adolescenti), di genere o semplicemente di conoscenze individuali.
Nella parlata napoletana questi improvvisi strafalcioni linguistici vengono definiti vongole (o anche stroppole).
E già con questo ci addentriamo in altri misteri linguistici. Ad esempio, nel fatto che vongola è una parola che il dialetto napoletano ha donato
all’Italiano. A quanto pare, è la deformazione nei secoli del latino conchula ossia, piccola conchiglia.
A lasciare perplessi, nell’evoluzione fonetica dal latino al vernacolo napoletano, è il passaggio dall’iniziale suono della c sorda a una vibrante v, che non è un fenomeno frequente. Mi piace pensare che le generazioni di napoletani abbiano aggiunto all’iniziale dell’umile ma gustoso mollusco qualcosa di sensuale, di voluttuoso, la v di vulìo (voglia improvvisa) ma anche della Vita.
A riprova di questo mio sospetto, si pensi che l’omologo nome spagnolo, la Almeja, in castigliano è una metafora abbastanza lessicalizzata della vulva.
E se vi sembra che la mia sia una fantasia poco fondata, andate a vedere alcuni dei nomi scientifici delle varietà di vongole: Meretrix meretrix, Meretryx lirata, Venerupsis aurea, Venerupsis decussata (la cosiddetta vongola verace), ecc.
In altri termini, per i napoletani, e poi per tutti gli italiani, la vongola è un mollusco che rimanda alle voglie e al mistero. Ma resta l’interrogativo: perché una vongola è anche uno sproposito linguistico? Forse l’improvviso e inopportuno strafalcione rimanda non solo agli insondabili ma prepotenti
desideri del sesso e del cibo, ma anche agli imprevedibili spruzzi d’acqua salata che le vongole vive emettono periodicamente, evocando un’incontrollabile vitalità infantile.
L’impulso linguistico, così come la lingua, che scaturisce dalle labbra incautamente dischiuse del parlante, concepito come un’irriflessiva deiezione. Ma qui devo ammettere di star ragionando, in un selvaggio freudismo, con la stessa logica associativa della peggiore delle vongole.
Non stupisce quindi che il dottor Salvio Esposito, nell’ormai lunga pratica psicoterapeutica, si sia imbattuto in una miriade di formazioni linguistiche definibili come lapsus arguti, motti di spirito o appunto vongole, (talvolta, ciascuna di esse, tutto questo insieme, a seconda di come le si consideri).
È abbastanza prevedibile che in un contesto come quello psicoterapeutico emerga il disagio di dare un nome al proprio malessere, tanto più se gli strumenti linguistici e culturali sono distanti dal linguaggio ufficiale delle tante concettualizzazioni mediche e psicologiche.
Alcune delle frasi raccolte nel libro hanno qualcosa di fulminante e lapidario. Ad esempio la frase “Dottó, sono titurbante”, con il suo rimando al turbamento, sembra l’esitante atto di esordio di un’analisi. Di splendida sintesi, alcune scaturite nel contesto del COVID: “Dottó, con la prima dose sono stata malissimo. Mi hanno fatto il Modem”, che ancora una volta rivela il tentativo di riportare il caos intorno ai vaccini a qualcosa di almeno noto. E poi la bellissima sintesi: “Dottó, ma ’sto dropplett fosse
’a sputazza?”
. Che fa ridere proprio perché il parlante ha ragione; quello che gli specialisti definiscono pomposamente droplet non è altro che, volgarmente, ’a sputazza.
Qui come in altri esempi, viene a galla, insomma, l’insofferenza dell’uomo comune di fronte al linguaggio artefatto della comunicazione pubblica, degli specialisti, del potere. (….)
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