Uno studio della Camera di Commercio di Napoli dal titolo: “Rapporto sull’economia della Provincia di Napoli 2009”, presentato l’8 maggio scorso in occasione della 7 giornata dell’economia, rileva un dato interessante riguardante le imprese femminili nei 92 Comuni della Provincia di Napoli.

Nel 2008 le imprese femminili attive sono 61.907 su un totale di 227.740. Ogni 100 imprese 27,2 sono femminili. Addirittura si scopre che la percentuale nazionale si ferma al 24%.

Allora è il caso di dire che l’impresa della provincia partenopea parla donna.

Per certi versi è sorprendente notare che circa un terzo delle imprese siano condotte dal gentil sesso, peraltro la met  di esse, ci 31.306 (50,6%), sono rappresentate giuridicamente come ditte individuali. Ciò significa che il complesso delle responsabilit  commerciali, giuridiche, di utenza e quant’altro attiene all’attivit  gestionale ricadono esclusivamente sulla donna.
La citt  di Napoli non è da meno nello scenario provinciale poich detiene oltre un terzo delle imprese femminili di tutta la Provincia, facendo registrare nel 2008 un tasso di sviluppo pari al 5%, superiore alla media del resto della Provincia.

In una struttura societaria patriarcale e maschilista dove l’altro sesso più difficilmente raggiunge posizioni apicali nel campo della finanza e delle professioni in generale, dove nelle istituzioni addirittura si “spingono” leggi prevedendo le cosiddette “quote riservate” e le assemblee elettive sono composte da una rappresentanza esclusivamente maschile nel 90% dei casi (il Consiglio Comunale di Napoli, ovvero la terza citt  d’Italia su 61 Consiglieri Comunali esprime solo in sindaco donna), Napoli ed il suo interland in questo campo rispondono alla grande, sovvertendo il rapporto di forza con gli uomini.

Questa non è la classica analisi tardo femminista di maniera, è un dato misurato ma concreto e tangibile da cui partire, peraltro in un panorama generale di desolazione economica nel quale affoga l’intero sud del paese.
Infatti, il sud Italia è il luogo europeo dove le donne lavorano meno in assoluto. Dal 1993 al 2006 le occupate in Italia sono cresciute di 1.469.000 unit  al centro nord e appena di 215 mila nel sud.

Ma non mancano le aggravanti “maschiliste”.

Innanzitutto un dato a dir poco scandaloso riguarda proprio l’aspetto retributivo. Una dirigente guadagna il 26,3% in meno di un collega maschio (differenziale retributivo di genere). Insomma, una donna, a parit  di posizione professionale, percepisce tre quarti di uno stipendio di un uomo nel settore pubblico. In quello privato è molto peggio.

Altra discriminazione risiede nell’occupazione dei posti di comando delle aziende. Nel 63,1% delle aziende italiane quotate in borsa, escluse banche e assicurazioni, non esiste nemmeno una donna nei consigli di amministrazione. Vale a dire, in termini assoluti, che su 2.217 consiglieri solo 110 sono donne, appena il 5%.

Ora il problema risiede o nella scarsa meritocrazia e di processi di valutazione e promozioni poco trasparenti oppure sul fatto che le donne sono tutte o quasi “ignoranti” e “incapaci” di dirigere processi gestionali. Dato che la seconda ipotesi sembrerebbe, a lume di naso, altamente improbabile, varrebbe la pena considerare diversamente i criteri di valutazione e selezione di personale da collocare al lavoro, tenendo conto non di una indistinta parit  dei sessi ma di capacit  e professionalit  reali e rispondenti agli scopi prefissati.

Infine, una rilevazione piuttosto singolare riporta che la nostra nazione registra il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa ma che le italiche che lavorano lo fanno più di tutte le colleghe del vecchio continente. Su sette giorni una donna italiana lavora, tra ufficio e faccende domestiche, 7 ore e 26 minuti, un tempo superiore a tanti paesi europei.

Partendo dal significativo primato delle imprese femminili della provincia di Napoli va iniziato un ragionamento che affonda direttamente in un problema culturale, ovvero la discriminazione che le donne subiscono, sia nel campo delle professioni che nelle istituzioni e laddove si cimentano con coraggio fuori dall’ambiente strettamente domestico e familiare.

In ultima analisi questo dato partenopeo, al di l  dei facili piagnistei a cui troppo spesso diamo sfogo, sfata un altro stereotipo che vorrebbe relegare le donne nel solo ambiente familiare o di stretta rilevanza sociale e non viste invece come opportunit , ormai divenuta realt , nella societ  fattiva, collaborativa e quindi lavorativa.

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