Una mostra molto attraente questa che fa tappa a Napoli fino al 22 aprile dopo aver girato il mondo da New York a Singapore e l’Italia da Milano a Catania. Ovunque il numero dei visitatori è da Guiness (questa al Pan di via dei Mille 60 si avvia verso i 50mila). La mostra si intitola “Escher”. Punto e basta. Un nome famoso. Oggi quello che è famoso è garanzia di successo. La pubblicità è stata capillare.
A Napoli manifesti anche in funicolare. Una ragazzina ne sta fissando uno. “Hai visto la mostra?” le domando “Sì” “Che te ne pare?” “E’ divertente” “Solo? Non è anche un po’ angosciante?” “Si, è vero”. Forse l’ha capita. Maurits Cornelius Escher (1898/1972), questo grafico e incisore olandese con il bernoccolo della matematica,  esprime, nelle duecento opere in mostra, la propria visione del mondo. Da vero artista. Una visione “geometrizzata”. Con ironia.
Si dice, a proposito delle sue costruzioni geometriche, che sono assurde e paradossali. Ma, con le sue opere, Escher vuol dirci che è, invece, assurdo il mondo, ovvero il modo come noi lo pensiamo, la nostra visione delle cose, la nostra prospettiva. Escher, infatti, in questo senso, si apparenta ai tanti artisti, impressionisti, espressionisti, futuristi ecc…, che, dopo il revival neoclassico della prospettiva per antonomasia, quella toscana, la hanno in vari modi ripudiata.
A  Napoli non è mai piaciuta troppo. E tante volte i dotti hanno definito carenti i pittori napoletani perché facevano “errori di prospettiva”. Ne avevano una diversa. E forse pure perciò Escher ha amato Napoli e i suoi dintorni, la costiera Amalfitana e soprattutto Atrani, la piccola cittadina amalfitana con la torre saracena e quell’intrigo di stradine l’una sull’altra, che appaiono anche nella sue  opere.
Invece Escher non sopportava la Svizzera, dove, con la famiglia, durante la guerra, si era rifugiato. La Svizzera è il luogo dell’ordine, il luogo  delle banche e degli orologi. Anche del cioccolato, che però non entra nel nostro discorso. Mentre gli è funzionale il rapporto tra le banche, gli orologi e la prospettiva. Quella della Firenze quattrocentesca dei Medici usurai, conservatori del Tesoro di San Pietro, e quella della Parigi ottocentesca dei banchieri. Perché c’è un rapporto stretto tra la prospettiva del classicismo e del neoclassicismo e il denaro….  Ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano.
Qui ci basta osservare che questa prospettiva privilegia la dimensione della profondità, una profondità che va verso un irraggiungibile infinito. E di considerare che questo modo prospettico di vedere il mondo, e di agirvi di conseguenza, è diventato, soprattutto oggi, un modo di pensare comune: una mentalità ristretta, materialistica, in cui è privilegiata l’idea del progresso verso un fine irraggiungibile e dell’accumulo senza fine del denaro.  Il fatto è che, mentre gli altri artisti a lui coevi, contestando la prospettiva classica, generalmente l’hanno superata negandola o servendosi del colore, Escher, invece, la contesta servendosi proprio di essa ed evidenziandone  le assurdità che si realizzano nelle sue applicazioni estreme.
Chi volesse sintetizzare approssimativamente il lavoro di questo artista potrebbe distinguerlo in due filoni. L’uno è rappresentato dal notissimo disegno delle anatre in volo: ci sono quelle che vanno verso destra e sono bianche e quelle che vanno verso sinistra e sono nere. Il fatto è che sono disegnate le une con le altre. Cosicché noi dubitiamo della nostra vista, ovvero del nostro modo di vedere: che non sia quello giusto?
Aderente a questo filone è quello delle metamorfosi, cioè della trasformazione continua di un disegno nell’altro, simbolo della trasformazione continua della vita.  L’altro filone può essere definito come un insieme di diversi disegni prospettici, accostati tra loro. Tutti obbediscono rigorosamente alla razionale prospettiva classica ma ognuno sta per conto suo. Sono visioni diverse e contrastanti, nient’affatto ariose e divertenti.
È un  oppressivo labirinto che ci ricorda, piuttosto, la serie delle Carceri del Piranesi (1720/1778). Un esempio ne è il famoso disegno di Escher, in cui delle scale sono percorse da persone che sembrano manichini. Ciascun manichino cammina per conto suo andando sempre in avanti, verso il muro contro il quale andrà a sbattere. Oppure verso il limite del quadro. Cioè verso il nulla. Perché l’oltre non c’è.
La mostra napoletana delle opere di Escher è al Pan, il Palazzo delle Arti. Un tempo dei Carafa di Roccella, ora il palazzo è di proprietà comunale. Quindi è il Comune che ha affidato il primo piano dell’edificio alla società romana Arthemisia, la quale, in collaborazione con la Escher Foundation, ha incaricato della curatela Mark Veldhusen e Federico Giudiceandrea. L’investimento ha dato ampiamente i suoi frutti. Napoli- hanno osservato- è una buona piazza. Tanto che Arthemisia si impegnerà anche nella mostra di Marc Chagal (1887/1985), che partirà ancora a Napoli, a febbraio, alla Pietrasanta.
L’allestimento al Pan, molto curato, ha accentuato l’aspetto provocatorio e ludico del lavoro di Escher cercando di stimolare la partecipazione dei visitatori. Gli vengono mostrati tasselli da posizionare su un piano con disegni geometrici e specchi concavi e convessi, come quelli usati da Escher per le sue deformazioni.
Li si invita a entrare in una sala in cui il soffitto si confonde con il pavimento e in un’altra dove, se ci si mette in un angolo, si appare altissimi, se in un altro, piccolissimi. Nell’ultima sala della mostra c’è la risposta al perché a volte le opere di Escher ci sembrano far parte del déjà vu. In questa sala vi sono vestiti e altri oggetti ornati con la stampa dei suoi disegni, il cui sfruttamento industriale ha riguardato anche film, cartoni animati, copertine di album musicali…
Tutte le sale della mostra sono in una suggestiva penombra, che dà il senso di un’atmosfera onirica. Nel buio una coppietta si scambia un bacio. Non è forse un sogno anche l’amore?
In alto, uno scorcio della mostra napoletana
Per saperne di più
www.mostraescher.com
T+39 081 1865991

 

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