Dopo la prima e seconda parte ecco il terzo articolo di Carmine Negro dedicato ad Artemisia Gentileschi, prendendo spunto dalla mostraArtemisia Gentileschi a Napoli a cura di Antonio Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio, con la consulenza speciale di Gabriele Finaldi.

ARTEMISIA GENTILESCHI Annunciazione (1630) olio su tela, Napoli,
Museo e Real Bosco di Capodimonte

Per Giovanni Bazoli, Presidente Emerito di Intesa Sanpaolo, la mostra “Artemisia Gentileschi a Napoli riprende … il filo del racconto nel punto in cui si era concluso a Londra, offrendo un originale sguardo sul lungo soggiorno dell’artista nella capitale del viceregno spagnolo …tra gli anni 1630 e 1654, ossia in una stagione della sua parabola artistica fino ad ora poco indagata dagli studiosi e dai critici d’arte… per … riconsegnare alla città una pagina della sua storia ancora poco conosciuta”.
Il 19 gennaio 1629 la Gentileschi è di sicuro a Venezia[1]. Ed è a Venezia[2] anche per una parte del 1630: lo riporta in una descrizione Girolamo Gualdo nel 1649[3]. In alcuni “viglietti[4]”, riscoperti ultimamente nell’archivio Stato di Napoli, inviati dall’ambasciatore spagnolo a Venezia al duca d’Alcalà, che il 26 luglio 1629 diviene viceré del Regno di Napoli, si fa riferimento alla partenza di una “pintora” alla volta di Napoli la sera del 22 febbraio 1630[5].
Artemisia, che molto probabilmente è la “pintorapartita con il maltempo per un viaggio lungo e periglioso, giunge a Napoli dopo essere sbarcata in uno dei porti lungo l’Adriatico, aver attraversato la Capitanata[6], la parte settentrionale della Puglia, e il Principato Ultra, corrispondente approssimativamente all’Irpinia.
Artemisia arriva a Napoli preceduta da grande fama ben accolta dal suo estimatore, il viceré Fernando Afàn Enrìquez de Ribera III, duca di Alcalà che, quando è stato ambasciatore presso la Santa Sede, ha acquistato opere dell’artista come il già citato Gesù benedicente.
All’inizio del Seicento, Napoli è la città più popolosa d’Italia, seconda in Europa solo a capitali come Parigi e Londra, e per questo caotica, ma anche culturalmente aggiornata.
La committenza è vasta ed esigente. Ci sono tantissime Chiese da arricchire con immagini sacre e maestose dimore, che le grandi famiglie del Regno hanno costruito nella capitale, da valorizzare con opere d’arte. Meta di un rilevante gruppo di artisti, già famoso in ambito continentale e segnata dal successo di un cospicuo numero di pittori locali, la città, attraverso la nascita e l’avvicendarsi di svariate correnti pittoriche[7], raggiunge un livello qualitativo mai avuto negli anni precedenti e perviene ad un’autonomia e ad una consapevolezza artistica che la rende significativa e rilevante sul panorama europeo.
Caravaggio con capolavori come la Madonna del Rosario, la Flagellazione o le Sette Opere di Misericordia, caratterizzati da spregiudicato realismo, attento studio della luce e forte drammaticità ha lasciato con la sua pittura dal vero una forte eredità che viene declinata in modi differenti dai singoli artisti.
Lo spagnolo Jusepe de Ribera e il napoletano Battistello Caracciolo sono i primi a seguire un Caravaggismo più acceso mentre Massimo Stanzione, autore di dipinti religiosi e mitologici, si fa portavoce di un naturalismo colto, con uno stile raffinato, dolce e aggraziato[8].

ARTEMISIA GENTILESCHI
Clio musa della Storia (1632)
olio su tela
Pisa, Fondazione Pisa, Palazzo Blu

Attorno a queste personalità si crea una folta rete di maestranze italiane e straniere, che ne seguono gli insegnamenti, e partecipano a quella fase di rinnovamento che porta negli anni ’30 e ’40  ad una ripresa degli ideali classici del Cinquecento, ad un recupero di toni delicati, ad un uso di una luce chiara e dorata, ad un naturalismo moderato. Questo è a grandi linee il contesto artistico della città di quegli anni. A Napoli dunque, Artemisia può portare avanti questo discorso di revisione del naturalismo caravaggesco.
La pittrice fin dai primissimi tempi del soggiorno partenopeo, sembra ben inserita nel nuovo ambiente e lo dimostra il carteggio con il protettore Cassiano dal Pozzo[9] che non testimoniano certo l’imbarazzo di chi deve riorganizzarsi la vita in un contesto a lei ignoto e del tutto nuovo[10].
In una città dove aleggia il malcontento e l’instabilità, per l’oppressione del potere spagnolo e della nobiltà locale costituita dalle grandi famiglie degli Orsini, dei Carafa, dei Colonna, dei Caracciolo, Artemisia sembra essere a suo agio e permettersi un soggiorno disteso: sa di contare fin da subito su appoggi e commissioni.
La sua committenza è costituita dai viceré spagnoli[11], dalla nobiltà, da mecenati come Cassiano Dal Pozzo e i Barberini di Roma, dal cardinale napoletano Ascanio Filomarino, dal messinese don Antonio Ruffo. Artemisia prende casa e bottega dalle parti di via Toledo, che diventa luogo di passaggio e sosta per artisti, intellettuali e politici.
C’è chi è incuriosito dai suoi lavori esposti sul cavalletto e chi, come Joachim von Sandrart in visita nel 1631, assiste con interesse alla realizzazione della tela Davide con la testa di Golia.
L’inglese Bullen Rheymes, funzionario del duca di Buckingham, riporta che il 15 e il 18 marzo 1634 vi ha trovato la figlia Prudenzia Palmira dipingere e suonare la spinetta. Dallo studio di Artemisia uscivano a ritmo serrato ritratti, scene bibliche, temi sacri, tutti soggetti in voga, spesso in collaborazione con specialisti di paesaggio e architettura[12]. Anche l’uomo che ama, Maringhi, viene più volte a trovarla a Napoli prima di trasferirsi in città definitivamente nel 1648,  fino alla morte nel 1653.
La sua prima opera, conservata a Capodimonte e destinata ad una Chiesa della città  del 1630 è l’Annunciazione: data e firma dell’artista sono riportate su un cartoncino dipinto in basso e a destra della tela. Rivela lo sforzo di aggiornarsi sulla pittura napoletana con un richiamo all’opera con lo stesso tema di Scipione Bulzone del 1587 allora nella chiesa di S. Domenico a Gaeta ed attualmente a Capodimonte. Vista l’accoglienza riservata alla pittrice, può essere stato lo stesso duca d’Alcalà ad aver favorito la richiesta del quadro, mentre per la collocazione Ward Bissell[13] ipotizza che sia nata come una pala d’altare destinata alla chiesa di San Giovanni de’ Genovesi[14] di via Medina.


ARTEMISIA GENTILESCHI
Bethsabea al bagno (1640-1641)
olio su tela
Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina



Il dipinto ritrae un episodio narrato dal vangelo di Luca e citato da Matteo[15]: il momento in cui l’Arcangelo Gabriele, inviato da Dio a Maria, rivela che scenderà su di lei lo Spirito Santo e per grazia divina darà alla luce un figlio.
L’opera della Gentileschi raffigura l’istante in cui il messaggero preannuncia in ginocchio il lieve evento. Lo sguardo è fisso sulla Madonna mentre con il braccio sinistro indica la colomba, emblema dello Spirito Santo, con le dita della mano destra, regge un giglio bianco simbolo della castità della futura madre. Maria, alla notizia china la testa, protende la mano sinistra mentre poggia l’altra sul petto: sembra alludere al seno materno ma i gesti esprimono anche  devozione, rispetto, umiltà e gratitudine verso il dono ricevuto. Il tutto si svolge in un interno oscuro, in cui il contrasto tra la luce e l’ombra è degno di Caravaggio.
La luce viene dall’alto: tra le tenebre fitte dello sfondo le nubi si diradano, lasciano lo spazio ad un “fiume luminoso” che scorre tra nubi grigie affiancate da tre cherubini; al centro spicca la colomba che, diretta verso Maria, fa discendere su di lei il seme dal quale nascerà Gesù.
La luce scivola sulla sottile aureola della Madonna, ne illumina il volto e la parte superiore del vestiario costituito da indumenti umili, in perfetta sintonia con il suo atteggiamento modesto.
L’abito, di un rosso pallido, è in parte coperto da una stola color ocra e da un manto azzurro; la luce illumina la parte superiore della lunga stoffa, ne evidenzia le pieghe e ne rivela la pesantezza. Sotto il mantello si intravede un dettaglio marrone che fa pensare alla scarpa della Vergine.
L’abbigliamento di Gabriele è invece esaltato dalla luce: un voluminoso e sontuoso abito ocra brillante è reso ancor più vivo dal contrasto con le tinte sbiadite degli abiti di Maria. Il lungo e ricco drappeggio lascia intravedere il piede nudo dell’arcangelo. La luce divina colpisce l’appariscente arcangelo Gabriele, sfiora l’umile Maria e rivela ogni dettaglio dei due soggetti: il panneggio delle stoffe, le piume dell’angelo, le pieghe delle vesti e il giglio bianco.
La figura di Gabriele, maggiormente esposta alla fonte luminosa, appare più dettagliata della Madonna, confinata in uno spazio oscuro. Si intuisce che la scena si svolge all’interno di un’abitazione dove lo sfondo liscio ricorda una parete e la superficie in primo piano un pavimento: l’accenno di una colonna lignea sembra indicare come ambiente una camera da letto. Maria accoglie l’annuncio su una pedana; l’oscurità e l’assenza di lumi e candele accese suggeriscono che sia avvenuta di notte, mentre la Vergine stava dormendo.   
Anche l’Annunciazione di Orazio Gentileschi del 1623 si consuma in una stanza da letto. L’ambiente dipinto dal padre è assai dettagliato: sulla destra una finestra che, aperta nella parte alta, permette l’ingresso della colomba e di una debole luce indicando che Gabriele può aver comunicato il messaggio quando il cielo non è più notturno ma non ancora diurno.
L’imponente letto a baldacchino, con una colonna assottigliata e decorata ad intaglio e la cortina realizzata con una pesante stoffa rossa, è descritto nei minimi particolari: si presenta disfatto con le lenzuola che lasciano scoperti i due materassi con le pieghe della stoffa che li avvolge; ciò fa pensare che l’angelo abbia interrotto il riposo di Maria.
L’ambientazione in una camera da letto non è l’unico elemento che accomuna le tele di padre e figlia. La disposizione dei personaggi risulta invertita ma in entrambi i casi la Madonna è in piedi ed ha lo sguardo rivolto verso il basso e l’Arcangelo è scalzo ed in ginocchio. Anche i colori del vestiario sono gli stessi ma nell’opera di Orazio gli abiti di Maria, priva di aureola, presentano tinte più accese. Le preziose stoffe aggiunte al sontuoso letto, inducono a credere che lo status della Madonna paterna sia di gran lunga superiore.
Per realizzare il capolavoro del 1630, Artemisia non guarda solo la tela del padre ma anche all’Annunciazione di Scipione Pulzone. La Gentileschi deve aver visto la sua tela dal momento che i colori degli abiti e la posa dei personaggi è molto simile. Il messaggero di Dio, inginocchiato verso la Vergine, reca in una mano il giglio bianco e con l’indice dell’altra allude a un anziano Dio circondato da Cherubini a mezzo busto. La sottoveste azzurra e la casacca color ocra con maniche voluminose, deve aver ispirato l’abito indossato dall’angelo di Artemisia. Anche questa scena si svolge in un interno ma a differenza di Pulzone, Artemisia contrae lo spazio e annulla quasi del tutto il fondale, riducendolo a una massa oscura.
Così la pittrice entra in sintonia col Caravaggismo napoletano e ne assimila i precetti; luci e ombre si fanno più violente, la tavolozza diventa più scura; i gesti appaiono concitati, sebbene siano addolciti da un’atmosfera delicata e sommessa[16].
Come ha osservato la storica dell’arte Mina Gregori, il fastoso costume dell’angelo può esser stato suggerito da una tela di Simon Vouet: Il Tempo sopraffatto dalla Speranza, l’Amore e la Bellezza, realizzata a Roma nel 1627, anno in cui Artemisia si trova nella città natale[17].
La Gentileschi deve aver notato gli indumenti che avvolgono la Speranza e la Bellezza mentre combattono contro il Tempo: le stoffe, mosse dal vento, hanno pieghe molto accentuate e le tinte forti saranno quelle indossate dall’arcangelo Gabriele. Ad ispirare il sontuoso messaggero può esser stata anche la guisa dei dodici Angeli con simboli della Passione dipinta da Vouet attorno al 1620 per il cardinal Filomarino e oggi in parte custoditi a Capodimonte e in parte in una collezione privata[18].
È evidente che con questa prima tela napoletana la pittrice si sia saputa adeguare alle tendenze del naturalismo locale, fatto che ne comprova la capacità di adattamento e la versatilità. Tuttavia il realismo intenso, l’acceso contrasto luminoso e la drammaticità sono accompagnati da tinte forti, panneggi abbondanti e ricchezza decorativa. Artemisia fonde in un’unica opera i tratti più interessanti delle fonti che ha a disposizione; ne cattura l’essenza e li amalgama in modo sapiente, fino a creare un insieme armonico e originale[19].
È del 1632 Clio la musa della Storia, oggi di proprietà della Fondazione della Cassa di Risparmio di Pisa e custodita presso il Palazzo Blu situato nella stessa città. Firma e data sono riportati sul libro accanto alla musa. La pagina bianca contiene un’iscrizione che gli studiosi hanno ricostruito:1632 ARTEMISIA faciebat all’illustre M., smemorato Rosièrs[20].
L’opera è dedicata a François de Rosièrs, nobile francese protetto dal cardinale di Guisa, che in uno scritto sulla genealogia del ducato di Guisa, intende dimostrare, grazie a fonti apocrife, la discendenza della famiglia da Carlo Magno.
Il re francese Enrico III non gradisce l’opera e lo fa rinchiudere nella Bastiglia. Viene liberato nel 1583 da Carlo di Lorena, quarto duca di Guisa: è lo stesso che commissiona la tela per celebrare il venticinquesimo anno della morte di Rosièrs avvenuta nel 1607. Perseguitato dal cardinale Richelieu per aver sostenuto Maria de’ Medici, il quarto duca di Guisa viene esiliato in Italia e nel 1631 si stabilisce a Firenze.
Probabilmente è stato Galileo Galilei a suggerire il nome di Artemisia Gentileschi, come testimonia una lettera del 9 ottobre 1635 della pittrice per lo scienziato, in cui si accenna alla consegna del quadro attraverso il fratello al committente per il quale gli diede 200 piastre, le quali non ho havute per essersi incamminato in altra parte.[21]
Tema sofisticato e per questo destinato ad un pubblico colto e raffinato Artemisia modifica il vecchio titolo La Fama, ed una recente pulitura ne dimostra le trasformazioni, per dedicarlo a Clio, figlia di Zeus e di Mnemosine, personificazione della memoria, da cui riceve il potere di trasmettere il ricordo di fatti e personaggi.
Il dipinto ritrae quasi per intero una donna statuaria che riempie tutto lo spazio della tela. Il corpo è girato verso il tavolo su cui è appoggiato il libro mentre la testa coronata d’alloro è leggermente inclinata dalla parte opposta, con lo sguardo fiero rivolto in alto. Immancabili gli orecchini di perle indossati da Clio e dalle protagoniste di altri dipinti.
La corona d’alloro, il libro e la tromba, gli oggetti che Cesare Ripa[22] attribuisce alla musa nella sua Iconologia del 1625, appartengono anche alla Clio di Artemisia: in questo caso il libro non è tenuto in mano ma aperto sul tavolo, fatto che impedisce la lettura del nome dello storico greco Herodotus che secondo il Ripa doveva essere riportato sulla copertina.
La storica dell’arte Mary D. Garrard sostiene che la pittrice stabilisce un triplice rapporto tra la musa, Rosièrs e se stessa: come l’autore della genealogia anche lei entra a far parte della storia grazie alla fama conseguita come pittrice[23]. Una simile interpretazione presuppone che la Gentileschi è pienamente consapevole del successo raggiunto e ciò testimonia l’interesse per la propria notorietà.
Nel 1634, quando il viaggiatore inglese Bullen Rheymes visita lo studio napoletano della pittrice, Artemisia è impegnata nella realizzazione di Corsisca e il satiro, per un committente ancora sconosciuto. Data la ricercatezza del tema si tratta senza dubbio di un destinatario colto e ciò mostra la piena integrazione della Gentileschi nella Napoli di quell’epoca. Il dipinto ritrae la ninfa Corsisca e il satiro Satto in un episodio tratto da un dramma pastorale: Il pastor fido, di Giovan Battista Guarino; l’opera è singolare per l’accostamento di elementi tragici e comici. Composto tra il 1583 e il 1587 e pubblicato nel 1589 viene tradotto in napoletano da Domenico Basile.
Artemisia raffigura la scena sesta del secondo atto, nella quale Satto insegue Corisca per unirsi a lei, ma quando l’afferra per i capelli si trova tra le mani una parrucca che permette alla scaltra creatura di fuggire. La pittrice  immortala l’istante in cui la ninfa si sta allontanando dal satiro lussurioso che resta immobile a terra con la treccia posticcia in mano.
Corisca è ritratta con la gamba sinistra protesa in avanti, la testa rivolta verso il satiro sconfitto, una mano sul punto in cui le è stata strappata la finta acconciatura e l’altra che impugna l’ingombrante e lungo abito per scappare più agevolmente. La ninfa indossa un abito color ocra con ampie maniche bianche e con una voluminosa veste. Le pieghe della gonna e il drappeggio del mantello rosso sono resi con estrema perizia: ricordano l’abbigliamento dell’arcangelo Gabriele incontrato nell’Annunciazione, anche se la tinta di Corisca è più dorata e il rosso del manto presenta una tonalità più scura. Il pesante vestito ricorda anche gli abiti di altri soggetti femminili ritratti in passato da Artemisia: l’ampia e più preziosa veste indossata da Ester in Ester e Assuero,opera iniziata a Venezia e completata a Napoli.
L’abilità della pittrice è rilevante quando raffigura Corisca nell’atto di sollevarsi la veste: rende alla perfezione la stoffa sgualcita avvolta attorno alle gambe della ninfa e il paio di sandali alla schiava blu e verdi; si tratta dei coturni[24] rubati per lei dal satiro prima che iniziasse il comico inseguimento. Corsisca è ritratta in tutta la sua bellezza e astuzia; trionfante, inafferrabile e luminosa, domina l’intera scena e concorre ad offuscare il satiro, confinato nell’oscurità.
Satto è rimasto seduto a terra, intenzionato a giacere con la ninfa è sconvolto e sconfitto: non gli resta che guardarla allontanarsi. L’opera si orienta perfettamente nel contesto napoletano, ispirandosi per alcuni aspetti agli artisti più in voga del momento. Il dipinto è molto legato alle opere di Massimo Stanzione, artista col quale ha collaborato in importanti commissioni.
Mi trovo in Napoli al servitio di questo viceré, per dare fine ad alchune opere comingiate per S. M. Cattolicacon queste parole Artemisia informava il 20 luglio 1635 il granduca di Toscana del lavoro che stava svolgendo per il re di Spagna Filippo IV d’Asburgo.
Si trattava di un ciclo delle Storie di S. Giovanni Battista[25] destinato ad uno degli eremi del parco del Cason del Buen Retiro a Madrid: l’eremo di San Juan; a lei era stato affidato La nascita di S. Giovanni Battista. La rappresentazione presenta da una parte un gruppo di levatrici che lavano il bambino mentre dall’altra Zaccaria che scrive su una tavoletta Giovanni è il suo nome; dietro Elisabetta, appoggiata su un letto, è assistita da una domestica. Il vangelo di Luca riporta che gli anziani genitori Zaccaria ed Elisabetta non possono avere figli e quando l’arcangelo Gabriele comunica loro la buona notizia; il futuro padre, restio a crederci, è per questo privato della parola.
Artemisia riprende l’interno di una casa napoletana del Seicento, dove l’attenzione è tutta accentrata sul bagno di Giovanni. Il piccolo non sembra né un santo né un miracolo venuto dal cielo ma soltanto un neonato. Le donne con grandi scialli di seta, camicie, per lo più bianche, e lunghe gonne, impegnate tra catini d’acqua, bacinelle e rotoli di fasce, creano una scena realistica e vivace, dove i colori accesi sembrano ricercare una uniformità di linguaggio con i pittori napoletani in particolare Massimo Stanzione[26]
Artemisia invia in dono alcuni dipinti al duca di Modena Francesco I d’Este attraverso il fratello Francesco, come scrive in una lettera del 25 gennaio, in cui si augura di poter andare a servire la corte estense. Il 7
marzo il duca le risponde ringraziandola.
Tra il 1636 e il 1637 sono commissionati i grandi dipinti per la cattedrale di Pozzuoli come riportato nelle lettere del 1636, 11 febbraio e 1 aprile,  al segretario fiorentino Andrea Cioli in cui la pittrice ribadisce il desiderio di lasciare Napoli per un trasferimento alla corte di Firenze.
Nel 1638 viene pubblicata a Napoli la seconda edizione delle Ode raccolta poetica di Girolamo Fontanella, accademico degli Oziosi, con un componimento dedicato ad Artemisia. Nello stesso anno si trasferisce a Londra alla corte di Carlo I dove il padre si trova dal 1626. Il 16 dicembre 1639, stanca e malinconica, scrive al duca di Modena gli accenna della nuova sistemazione ma si dice “non soddisfatta d’essere pervenuta al servitio di questa Corona d’Inghilterra, dalla quale ricevo honori et gratie segnalatissime”. Gli annuncia che attraverso il fratello gli farà recapitare un suo dono e rinnova il desiderio di avere la sua protezione. Nel 1640 il padre Orazio muore a Londra e probabilmente subito dopo lei rientra a Napoli.
E’ del 1640-1641 l’opera “Betsabea al bagno[27]. Secondo il racconto biblico, il re Davide si trova nella terrazza del suo palazzo. Nota Betsabea, moglie del generale Uria, che si fa il bagno nel giardino e se ne invaghisce. Davide convince Betsabea a seguirlo nel suo palazzo e la mette incinta.
Per evitare che si scopra la gravidanza, frutto di un adulterio, richiama Uria così da farlo dormire con sua moglie ma il generale si sottrae perché non vuole godere di privilegi negati ai suoi soldati in difficoltà. Davide allora ordina ad Uria di sferrare un attacco in prima fila: il generale cade in battaglia e lui può sposare la donna. Il bambino muore pochi giorni dopo la nascita, come castigo divino per aver commesso un adulterio.
La rappresentazione di Artemisia utilizza un ampio terrazzo dove Betsabea è seminuda coperta solo da un velo mentre si toglie le ultime forcine dai capelli. Ad osservarla c’è il re Davide affacciato al balcone sotto una grande arcata. Sono presenti tre ancelle: una porta l’acqua, una seconda di carnagione più scura ammira la collana di perle e la terza sostiene uno specchio. Le cadenze di alcune figure come l’ancella a sinistra con la sua postura rigida ed arcuata, ricordano i personaggi dipinti dal padre a Londra. Architettura e paesaggio sono opera di collaboratori come Vincenzo Codazzi e Domenico Gargiulo con cui Artemisia continua a lavorare anche dopo Londra.
Nel 1643 vengono pubblicatele Poesie liriche di Francesco Antonio Cappone, accademico degli Oziosi dedicate alla “Sig. Artemisia Gentileschi Pittrice famosa”.
Negli anni successivi Artemisia continua a lavorare: nuove opere entrano in collezioni private come Venere con Amore del 1644 che va a far parte della collezione di Antonio Barberini o la Giuditta del 1646 in quella del Pio Monte della Misericordia a Napoli.
È recente il ritrovamento di un processetto matrimoniale che riguarda il concubinato e il matrimonio riparatore dell’unica figlia rimasta Prudenzia Palmira Stiattesi con il napoletano Antonio De Napoli. Nel libro parrocchiale di Santa Maria di Ogni Bene, tutti i documenti sono annotati con la stessa data: 9 febbraio 1649. Dovette essere l’imminente pericolo di vita in cui venne a trovarsi Prudenzia a suggerire lo svolgimento a domicilio del processetto preliminare oltre all’accorpamento in un unico giorno del matrimonio e del battesimo del figlio Biagio De Napoli senza rispettare l’obbligo di pubblicazione obbligatoria nelle tre domeniche precedenti.
Artemisia ormai è famosa: circondata da giovani colleghi e allievi come Bernardo Cavallino e Onofrio Palumbo continua a lavorare anche se con gli anni lamenta i “molti acciacchi e travagli” che l’hanno costretta a letto durante le feste di Natale[28]. Nei suoi ultimi anni la pittrice si trova in una difficile situazione economica, situazione che può anche spiegare la flessione qualitativa che si registra in molte delle sue opere più tarde. Sembra sia morta nel 1656 di colera. Viene seppellita nella Chiesa napoletana di S. Giovanni de’ Fiorentini con la sola indicazione: “heic artimisia” ma la sua tomba è stata dispersa durante i lavori di restauro della Chiesa del 1785.
Si rivolge a duchi e principi dicendo di non voler più stare a Napoli perché in Napoli non ho volontà più de starce, si per li tumulti di guerre, come anco il malo vivere, et delle cose care”.
La Napoli di metà Seicento è caratterizzata da ingenti restrizioni e dai tumulti popolari della rivolta di Masaniello a cui si aggiunge anche l’eruzione del Vesuvio del 1631 che risparmia la metropoli ma devasta i paesi limitrofi e provoca nella popolazione una forte tensione che si trasforma poi in devozione e superstizione.
Ciò che fa da sfondo alla carriera di Artemisia è senza dubbio un contesto instabile e dinamico, dove eventi e catastrofi mantengono alto il livello di mutabilità ma stimolano anche ingegno e creatività. I buoni rapporti con gli artisti napoletani dallo Stanzione al Finoglia, dal Guarino a Francesco Fracanzano, fino al Cavallino ed allo stesso Spinelli e l’acquisizione di tonalità naturalistiche, in sintonia con la tradizione locale, la rendono in modo conscio o inconscio saldamente inserita nel contesto artistico e culturale partenopeo.
Dalla sua bottega, nel lungo periodo passato a Napoli, partono per le corti europee o per private abitazioni una miriade di opere che parlano della città. Alcune volte ritraggono interni di case, altre volte esterni della città, e altre ancora fisionomie, come la modella dell’Annunciazione, con sfumature spiccatamente mediterranee. La luce che illumina i colori dei quadri, che l’artista ha realizzato nel periodo partenopeo, la luce di Napoli, oggi vibra nei più importanti musei e fa di Artemisia Gentileschi la più grande ambasciatrice di Napoli nel mondo.
Questa mostra ha consentito la riscoperta Diana De Rosa, detta anche Annella Di Massimo la maggiore artista napoletana della prima metà del Seicento, anche lei vittima, secondo una tradizione ritenuta poco attendibile, della violenza di genere. Presente con Sansone e Dalila e con il Ratto d’Europa, è l’autrice di una pittura luminosa ed affascinante che, per essere conosciuta, ha bisogno di altri spazi.
(3.fine)

 ©Riproduzione riservata 


ARTEMISIA GENTILESCHI
Corisca e il satiro (164)
olio su tela
Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina

NOTE

[1] Il 19 gennaio Artemisia è ancora a Venezia citata in un atto notarile come moglie di Pierantonio Stiattesi

[2] Artemisia Gentileschi in Venice Author(s): Patrizia Costa Source: Source: Notes in the History of Art, Vol. 19, No. 3 (Spring 2000), pp. 28-36 Published by: The University of Chicago Press on behalf of the Bard Graduate Center Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23206902

[3] Il documento fa parte di a lungo manoscritto intitolato Giardino di Ca’ Gualdo cioè raccolta di pittori, scultori, architetti ecc. esistenti nella galleria Gualdo di Vicenza  completato nel 1650.

[4] Si tratta di avvisi, relazioni o mandati di vario genere prodotti o ricevuti dalle segreterie vicereali.

[5] Anche Giovanna Garzoni, miniatrice, in rapporto con Alcalà era in Laguna in quel periodo. Una sua lettera del 15 giugno del 1630 indirizzata a Cassiano del Pozzo, viaggiatore e collezionista d’arte italiano, da cui emerge essere giunta da poco a Napoli sembra escludere che sia lei la “pintora” come erroneamente ipotizzato precedentemente.

[6] L’origine del nome risale probabilmente all’epoca della dominazione bizantina, col significato di territorio amministrato da quei funzionari del governo bizantino che ebbero il nome di “catapani”.

[7] Le correnti pittoriche vanno dal caravaggismo, al classicismo, al barocco, fino alla pittura paesaggista e di battaglia, nonché alle nature morte. Il periodo viene definito come “secolo d’oro della pittura napoletana”

[8] Christiansen K., Mann J. W. (a cura di), Orazio e Artemisia Gentileschi, Skira, Milano 2001 pp. 379-391

[9] Accademico della Crusca e dei Lincei, grande collezionista ed erudito, oltre ad essere segretario del cardinal Francesco Barberini, sostiene protegge gli artisti, inclusa Artemisia Gentileschi.

[10] Contini R., Papi G. (a cura di), Artemisia, Leonardo De Luca, Roma 1991 pag. 65

[11] Durante il soggiorno della Gentileschi si alternano ben sette viceré che, legati al potere centrale, amministrano i domini dislocati in Italia; quelli con i quali ebbe rapporti l’artista furono due: Fernando Afán de Ribera, duca di Alcalà e Manuel de Acevedo y Zùñiga, conte di Monterray.

[12] https://www.donneearte.it/artemisia-gentileschi-storia-di-unartista-rivoluzionaria/

[13] Era conosciuto come un esperto di arte barocca italiana e in particolare per aver studiato approfonditamente la figura e l’opera di Orazio e Artemisia Gentileschi di cui era considerato tra i massimi esperti a livello internazionale.

[14] Christiansen K., Mann J. W., 2001, opera citata Mann J. W., Annunciazione (n. 72), pp. 392-394

[15] Vangelo di Luca riportato in 1,26-37  e citato da Matteo riportato in 1,18-19.

[16] Christiansen K., Mann J. W., 2001, opera citata Mann J. W., Annunciazione (n. 72), pp. 392-394

[17] Christiansen K., Mann J. W., 2001, opera citata Mann J. W., Annunciazione (n. 72), pp. 392-394

[18] Tazartes M., Artemisia “tintora romana”, Sillabe, Livorno 2013 p. 74

[19] Elisa Menichetti Artemisia Gentileschi libera da ogni stereotipo. Un talento versatile nella Napoli del Seicento Università di Siena Dipartimento di Scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale Corso di laurea in Studi Umanistici AA 2015/2016 p. 48

[20] Christiansen K., Mann J. W., 2001, opera citata Mann J. W., Annunciazione (n. 75), pag. 400

[21] Tazartes M., Artemisia “tintora romana”, Sillabe, Livorno 2013 p. 80

[22] Stando alle informazioni di Cesare Ripa, l’allegoria della Fama dovrebbe tenere in mano una tromba, impugnare un ramo d’olivo, avere un libro aperto, essere alata e indossare un medaglione a forma di cuore

[23] Christiansen K., Mann J. W., 2001, opera citata Mann J. W., Clio, la musa della Storia (n. 75), pp. 400-402

[24] Il coturno era un’antica calzatura, simile ad uno stivaletto formato da strisce di cuoio o altro intrecciate, usata nell’antichità classica dagli attori

[25] Il ciclo delle Storie di S. Giovanni Battista comprendeva sei dipinti: la Nascita di S. Giovanni Battista affidata ad Artemisia Gentileschi, l’Annuncio dell’angelo a Zaccaria, il Commiato del Battista dai genitori, la Predica del Battista , la Decollazione dati a Massimo Stanzione e il Battista in carcere (perduto)a Paolo Domenico Finoglio.

[26] La storica dell’arte Garrard vede nella figura della donna pensosa e dell’ancella col bambino in braccio viene il tentativo da parte di Artemisia di avvicinarsi all’opera di Stanzione (vedi nota 8). Per i due artisti che lavorano a stretto contatto nel ciclo di dipinti, è indispensabile sintonizzare i propri linguaggi ai fini di un insieme armonico e coerente.

[27] La storia di Betsabea al bagno è  tratta dal Libro dei Re, dell’Antico Testamento.

[28] Lettera del 1° gennaio 1651 ad Antonio Ruffo.

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