Recentemente, è balzata agli onori della cronaca nazionale la notizia di un rave party organizzato nei pressi di Modena. All’indomani del proprio insediamento, il governo Meloni ha emanato un apposito decreto per vietare questo tipo di eventi, motivandolo col pericolo di agibilità strutturale dei luoghi che ne ospitano lo svolgimento. Tuttavia, la narrazione che viene fatta dei rave stigmatizza l’uso delle droghe.
I rave nascono come un tipo di aggregazione giovanile che affonda le radici nella cultura underground. Il decreto governativo, tuttavia, contiene un pericoloso combinato disposto che dalle feste spontanee potrebbe estendersi ad altri ambiti, come quelli della mobilitazione politica e sociale. Per capirne di più, ne abbiamo parlato con Michela Antonucci, professionista esperta di riduzione del danno, che alterna il lavoro all’attivismo sociale.

In copertina: un’unità di strada in cui si pratica la strategia della riduzione del danno. Sopra: 2016, blocco di uno sfratto abitativo operato dalla campagna “Magnammece ‘o pesone”

Chi sei?
Sono un’operatrice della riduzione del danno, che è un servizio che si occupa di fare informazione sull’uso di sostanze e gestirne gli effetti sul potenziale consumo a rischio. Come attivista, faccio parte del movimento per il diritto all’abitare “Magnammece ‘o pesone” e mi occupo anche dei beni comuni.
Cos’è il movimento Magnammece ‘o pesone?
È una campagna nata nel 2012, che ha l’obiettivo di sostenere- attraverso la pratica dell’occupazione- la gestione del patrimonio pubblico e privato, il tema degli sfratti ed affrontare le politiche abitative sia sul piano cittadino, sia sul piano governativo. Questa campagna negli anni si è data l’obiettivo di generare l’esempio di pratiche di sostegno materiale alle persone, come gli sportelli per il diritto all’abitare, che sono diffusi in vari quartieri della città. Inoltre, il movimento si è interfacciato con la macchina amministrativa ponendo al centro i bisogni degli abitanti, affinchè ci fossero risvolti sul piano giuridico, pratico, materiale.
Quali risultati ha raggiunto questa campagna?
L’elenco è lungo. Per comprendere il senso di ciò che facciamo, bisogna sapere che molte persone sono riuscite a trovare casa attraverso la pratica della lotta che noi mettiamo in campo, mediante vertenze abitative e facendo da tramite tra l’amministrazione cittadina e gli abitanti. Uno dei risultati più importanti che abbiamo ottenuto è la delibera 10/2018, che riguarda l’albergaggio sociale ed è legata alla questione del patrimonio abitativo. Questa delibera, dà la possibilità di individuare spazi di proprietà pubblica per destinarli alle persone in emergenza abitativa, provando a soddisfare in un tot di tempo i nuclei che sono in emergenza abitativa ed economica. Sul piano della lotta, i risultati si riscontrano nel vivo delle relazioni.
Perché le persone si rivolgono a voi?
Tramite gli sportelli per il diritto all’abitare, siamo riusciti ad intercettare tantissime persone che abbiamo sostenuto attraverso il blocco degli sfratti. Abbiamo creato una rete di relazioni, che si prova a mettere a valore organizzando iniziative legate al tema abitativo. Il problema che si lamenta è che c’è assenza di politiche abitative realmente inclusive, che tengano dentro una città a misura d’uomo con servizi accessibili. Inoltre, riscontriamo che non ci sono politiche attive in sostegno delle persone. Motivo per cui, chi non è in grado di pagare l’affitto, viene gettato per strada. Oltre questo, ci occupiamo anche dell’annosa questione delle case popolari, il patrimonio Edilizia Residenziale Pubblica, affrontando dal basso la gestione, lo sblocco delle liste e il modo in cui si vuole sopperire al bisogno abitativo senza cementificare in modo selvaggio.
Lottate per il diritto alla casa?
Non solo. La nostra campagna lega assieme più temi, che riassumiamo nella questione socio-abitativa, in cui si esprimono il bisogno del tetto e la necessità dei servizi di base, spingendo affinché siano sostenuti dall’azione amministrativa. Ogni volta che abbiamo appoggiato le pratiche abitative, lo abbiamo fatto in contesti in cui le persone occupavano edifici pubblici abbandonati sottolinenandone l’incuria. Non si ha la conoscenza esatta del patrimonio immobiliare e non si hanno né gli strumenti, nè l’intelligenza politica per mettere in campo risorse e progetti per il recupero di edifici in stato di abbandono. Noi poniamo al centro del nostro agire il diritto all’abitare facendo comunità, mettendo in risalto i bisogni del quartiere tramite momenti di lotta. Purtroppo, constatiamo che questo punto di vista non è accettato da chi governa le nostre città.

In foto: Michela Antonucci

Tuttavia, l’occupazione di un edificio, seppur a scopo abitativo, viene concepita come una pratica illegale. Guardando alla nostra città, quanto è legato questo tema al fenomeno della gentrificazione?
È un punto cruciale, che tiene dentro tanti aspetti. Molti anni fa, quando è iniziata la campagna, parlavamo di fenomeni di espulsione dei ceti popolari dai centri storici della città. La famosa questione del “decoro”, il cui più grande latore è stato l’allora ministro dell’interno Minniti, è un argomento su cui abbiamo sempre battuto. Nel suo centro antico, che alcuni considerano una vetrina, Napoli si caratterizza per un tessuto densamente popolare. Questo c’ha sempre spinto a cercare una soluzione abitativa integrata nella vita sociale dei napoletani, che da generazioni abitano il centro e oggi sono oggetto di fenomeni di espulsione dalle loro dimore.
Questa è l’altra faccia del turismo di massa?
Purtroppo, sì. Molte volte, quando si parla di emergenza abitativa si fa riferimento a persone che si ritiene relegate alle periferie. Quando c’è stata l’esplosione del fenomeno turistico, è esplosa anche questa tendenza all’esplusione sociale degli abitanti del centro storico che non erano in grado di sorreggere la famelicità del mercato degli affitti. Quindi, è cambiato il paradigma, perché rispetto all’idea di decoro, legata all’immagine della città, si è fatto largo un processo violento di cacciata delle persone dal centro antico per un fattore economico, ossia per fare spazio alla capitalizzazione dell’economia attraverso il circuito dei bed and breakfast, che oggi vediamo come fenomeno più prepotente. Il turismo è gentrificazione quando si pone al centro solo il valore economico. Questo fenomeno ha mutato la geografia abitativa. Napoli è una città in cui c’era una media di 2000 sfratti all’anno. Dopo il Covid, questa cifra è triplicata. Assistiamo all’espulsione dal centro degli abitanti e alla trasformazione di appartamenti a uso abitativo in b&b. Tutto questo all’interno di una cornice inesistente della regolamentazione e della gestione di queste strutture.
Che differenze ravvedi tra l’amministrazione de Magistris e quella Manfredi riguardo questo tema?
Si può dire che l’amministrazione de Magistris ha avviato il processo non tanto per intuizione, ma perché c’è stato un cambiamento generale dell’idea di Napoli. La nostra città è sempre stata esclusa sia dal punto di vista della discussione politica, sia governativa. Motivo per cui non è mai stato avviato un dibattito reale sulle risorse sociali o sulla condizione dei territori. A un certo punto, questa visione è mutata, perché è cambiato il modello di consumo nella nostra società, tutto gettato sulla commercializzazione della vita. Cosa su cui il turismo ci stagna e ci guadagna. L’arrivo di de Magistris a Palazzo San Giacomo è stato direttamente proporzionale a tutta una visione di Napoli legata a logiche di turistificazione. Per onestà intellettuale, bisogna dire che lui è stato scaltro nell’interpretare il momento, ma ha anche ascoltato le parti sociali che nel tempo hanno provato a costruire una visione diversa dal punto di vista abitativo, parlando dell’espulsione delle persone dal centro e della gestione e regolamentazione dei b&b. Proprio quando questa discussione sembrava aver preso piede, è cambiata amministrazione. I nuovi governanti cittadini si sono subito dichiarati sostenitori di questo processo.
Cosa significa?
Il problema reale è che questa città vive esclusivamente dell’economia circolare del turismo senza considerare che questo è un fenomeno che prima o poi finirà. Quando accadrà, cosa avremo costruito di solido per i bisogni degli abitanti? Questo è l’interrogativo da porsi quando si parla di gestione amministrativa, sociale, politica, economica. Quello che per ora è un vantaggio, potrebbe rivelarsi un buco nero. Temo che quando la leva del turismo finirà, avremo il deserto sociale, perché non c’è una visione sul piano abitativo, non c’è lavoro, non c’è un’idea di turismo a misura d’uomo.

2013, volantino della campagna a scopo abitativo

Siete contrari al turismo?
No. Non siamo mai stati del parere che Napoli non abbia tratto vantaggio dal turismo, perché la città ha bisogno di soldi. Il problema è come si costruiscono le condizioni che rischiano di sfociare in deserto sociale, disgregazione, aumento degli affitti, impennata del costo della vita, che sono tutti sottoprodotti del turismo. Come non vedere che scompare l’economia di quartiere, chiudono i piccoli bottegai, aumenta tutto, mentre viene tolto tutto il resto? Gli asili vengono chiusi, gli spazi di socialità non esistono più, la movida viene colpevolizzata, gli studenti non possono vivere in prossimità delle università, perché ci sono i b&b. I giovani non possono socializzare, perché non hanno aule o spazi che non siano quelli fatiscenti delle università e, dunque, non trovano con facilità neppure un luogo dove immaginare un modello diverso dello stare insieme. Non vengono sostenuti i piccoli commercianti, le piccole attività, gli ambulanti, così essenziali nell’economia di quartiere. Per noi, tutto questo è diritto all’abitare. Se si lavora male su uno, si lavora male su tutti.
Parliamo del cosiddetto decreto anti-rave. Cos’è, a tuo giudizio, che la società non comprende del mondo giovanile, delle droghe, della cultura underground?
Non è una cosa che non si comprende oggi. Questo tema mi colpisce molto, perché lavoro proprio in questi contesti. La mia opinione è che alla base sfugge cosa concepiscono i giovani per divertimento e cultura underground. Da un lato, si tollera soltanto un modello consumistico di divertimento, come i bar, i ristoranti, le discoteche. Tutte cose figlie di un modello globalizzato. Il modello underground, invece, non è mai stato accettato, né compreso. Manca un’educazione all’ascolto dei bisogni, perché si parte dal presupposto che si sa già cos’è giusto e cos’è sbagliato per un ragazzo, proponendo una visione pseudo-educante. Poi, c’è una lettura strumentale che fa la politica dei circuiti undeground per rigettare un barlume di modello antagonista.
Stai dicendo che, oltre il modello consumistico, esistono forme diverse di divertimento ed aggregazione che vengono stigmatizzate?
Esatto. Noi siamo figli di una cultura proibizionista e ipocrita. Quando si parla della “cattiva movida” o del “cattivo divertimento”, come si fa per i free party, lo si fa sempre attaccando la questione dei consumi e dell’uso delle droghe. Questa è una strumentalizzazione politica in un paese profondamente conservatore, che non vuole distinguere le droghe che fanno male da quelle che non fanno male. Si fanno solo discorsi ipocriti. Sull’alcool, ad esempio, si dà ampia libertà e ne esiste un abuso di massa, che però viene tollerato perché rientra nei canoni della società consumista. Finché gli eventi underground verranno visti come luoghi in cui ci sono tossici che si fanno e ascoltano musica di merda, si creerà sempre lo stigma e si farà in modo che questa visione attecchisca sulla società, generando solo un tabù.
Quindi, più che vietare e reprimere, bisognerebbe informare la popolazione e renderla consapevole sull’uso delle sostanze come forma di prevenzione?
Nessuno si interfaccia coi giovani e coi loro modelli di divertimento, né gli dà lo spazio di parola. Per lavoro e attivismo politico, vedo luoghi che creano socialità, cultura, comunità, che integrano i servizi sulla riduzione del danno. Questo lavoro lo vedo particolarmente negli spazi liberati, che puntano sull’aggregazione giovanile e creano un modello di comunità diverso. Poi, ci sono i free party, che sono facilmente attaccabili, perché lì i consumi sono maggiori e i ravers non hanno la velleità di volersi raccontare alle persone, nè usano i loro eventi come uno strumento politico, ma semplicemente come contesti in cui le persone stanno insieme e fanno socialità. La loro prospettiva d’azione che non viene raccontata.
Però, il governo dice che i free party si fanno in luoghi che non sono sicuri o agibili…
Premesso che nessuno dice che quelli siano luoghi sicuri, il motivo per cui si sceglie di andare in posti deserti è dato dal fatto che sono abbandonati dalla società: spazi verdi, edifici, capannoni industriali dismessi che sono stati dimenticati e i free party rimettono al centro come elemento di aggregazione. Piuttosto che domandarsi cosa non capiamo, dovremmo chiederci cosa potremmo fare. Ci dovremmo chiedere cosa rappresenti realemente la scena underground, cosa voglia dire per i giovani la liberazione degli spazi, stanziale o nomade. Quelli che organizzano i free party cercano di costruire cultura e formazione su questi eventi e vogliono renderli fruibili ai partecipanti. Ci sono postazioni che danno informazioni, altre in cui si vedono filmati, altri ancora che spiegano cosa sia la riduzione del danno. In eventi di maggiore portata, si organizzano spazi ludici per bambini in cui ci sono professionisti. Questo dimostra che ci sono tutta una serie di aspetti molto più consapevoli di quanto non si racconti in questi contesti. In Italia, abbiamo una visione molto arretrata e abbiamo un governo che su queste cose da sempre ne fa un cavallo di battaglia, stigmatizzando alcuni fenomeni di socialità o le persone che fanno uso delle sostanze. Questa cosa si evince anche dal punto di vista sanitario. Qualche tempo fa, con l’ex ministra Fabiana Dadone, si era riusciti a generare una conferenza sulle droghe e la costruzione delle linee guida atte ad integrare tutti i servizi e le associazioni in delega che lavorano sulla riduzione del danno, che è una pratica cui non si dà il giusto valore. Il risultato delle linee guida prevedeva tutta una serie di miglioramenti sul piano del sostegno delle persone che utilizzano droghe e questa è stata la prima cosa attaccata dal governo Meloni. Due settimane dopo, è arrivato il decreto anti-rave.

2013, striscione del movimento per lo stop agli sfratti [Photo credit: Michela Antonucci e Magnammece ‘o pesone che si ringrazia per l’amichevole collaborazione]

Quali sono i ritardi della sinistra su questi temi?
Quanto dicevo prima, si riferisce anche a quel pezzo di sinistra che ha governato il Paese negli ultimi anni. Una sinistra che tollera il consumo, ma lo fa in una visione vecchia, che attiene ai principi della repressione. Nel caso di Napoli, ad esempio, con de Magistris non ci si è posta la discussione. La strategia era il non dire nulla su questi argomenti come, ad esempio, la movida. Ne si parlava solo dal punto di vista disciplinare. Quando è ascesa l’amministrazione Manfredi, espressione del circuito di sinistra che ha governato il Paese, è emersa un’altra sfumatura di questa ipocrisia. Le sue delibere portavano questo cappello: “noi crediamo nella socializzazione come pratica di educazione, ma la movida che non funziona va repressa, perchè la buona educazione è posata su delle regole”. L’educazione non si basa sulla disciplina, ma sull’inclusione, che prevede un piano di ascolto. La sinistra è arretrata o stretta su gioco d’ipocrisia fra il dover tenere un’idea di inclusione e il dover stringere su un’idea di disciplina. La destra è molto più dura e aggredisce in chiave reazionaria il problema, la sinistra invece elude l’argomento o comunque cade nella repressione per giochi di potere.
È immaginabile una via d’uscita da questa situazione?
Tutta questa macchina di fango funziona e attecchisce perché non c’è un lavoro sulla cultura. Si governa l’opinione pubblica con la paura. Anche nei circuiti militanti, molte volte esprimiamo un livello di arretratezza su questi temi, che vengono vissuti come un tabù. Alle volte, capita il paradosso che stiamo attenti ai fenomeni di socializzazione, ma non comprendiamo i consumi generalizzati nei luoghi di socialità. Dovremmo ricreare gli strumenti di lettura di questi fenomeni, costruendo luoghi di aggregazione per i giovani che non vengono ascoltati, sgravandoli da ogni pregiudizio culturale e proponendo un modello di partenza che possa mettere al centro una cultura antagonista. La risposta al decreto anti-rave è stata forte perché anche il venire fuori da due anni di lockdown, divieti e repressione della socialità ha prodotto un circuito di persone che non si sentono di attaccare un free party. Il problema è che noi viviamo in un Paese vecchio, con un’impostazione vecchia e retrograda nell’affrontare questi problemi. Il circuito cittadino dei beni comuni lavora benissimo su questi argomenti. C’è una buona integrazione coi servizi che lavorano sulla riduzione del danno e bisognerebbe suggerire alle aree che lavorano un po’ più a sinistra di adoperarsi per la deburocratizzazione della riduzione del danno. 
Pensi che il decreto anti-rave contenga dei pericoli anche per forme di socialità e contestazione politica?
Certo. I circuiti di aggregazione sono diversi e diversificati e non sono solo quelli delle feste, delle serate, della movida, del divertimento, ma anche quelli dell’aggregazione spontanea che provano a mettere al centro delle pratiche di lotta. Anche come campagna “Magnammece ‘o pesone” abbiamo creato una miriade di eventi con delle casse e la musica per fare aggregazione e sensibilizzare gli abitanti. Si parte dalla cosa più attaccabile (il rave) per arrivare all’aggressione delle pratiche di lotta. Il che significa mettere in campo una guerra a una parte sociale del nostro Paese.
Intravedi nel provvedimento governativo una torsione reazionaria verso le lotte sociali?
Non voglio semplificare. Non la vedo esplicitamente in questo decreto che, a monte delle critiche che sta ricevendo, potrebbe subire ridimensionamenti. Ma è nella modalità di attacco che esprimo preoccupazione, cioè sul come si scelgono chirurgicamente gli ambiti che già non sono visti di buon occhio da una buona fetta di società. La facilità con cui si costruisce dall’oggi al domani un decreto mi fa capire con che rapidità si possono formulare accuse verso chi fa un lavoro politico-sociale dal basso. Che poi, questo decreto non sia un attacco frontale, può anche essere vero. Ma il pericolo più grande lo corrono gli spazi che nascono per fare aggregazione culturale. Stanti le cose, un bene comune che fa un’uscita in piazza, da ora, può essere attaccato. Bisogna poi immaginare cosa può comportare in termini di trasformazione socio-culturale questo decreto, soprattutto per le nuove generazioni. A Napoli, ad esempio, siamo abituati a vivere la piazza e la strada come luoghi di aggregazione. Il provvedimento della Meloni è un attacco a un modello di vita spontaneo. Tutte le persone che dalle 19 in poi escono di casa e vanno in piazza, sono dunque attaccabili.
In conclusione, da dove pensi che si possa ricostruire un modello alternativo di società?
Dal sostenere chi fa la riduzione del danno, i beni comuni e tutte le attività che vengono svolte dal basso con una proiezione sulla comunità. Bisogna mettere in pratica un meccanismo di ascolto reale, valorizzando magari quei luoghi che già lo fanno. Tutti quelli che oggi lavorano sull’aspettativa di governare le nostre città e un domani il Paese, dovrebbero porsi in un atteggiamento di ascolto verso questa roba, sostenendo il lavoro che viene fatto dal basso nei quartieri. Sul piano della riduzione del danno, abbiamo un problema generale, governativo. Questa non è una pratica facilmente tollerata, perché alla prevenzione si preferisce un modello di sanità più assistenzialista. Non si tollera facilmente l’idea che l’uso di sostanze possa essere controllato, integrato, in alcuni casi auto-regolato. Naturalmente, le conseguenze si vedono sul piano dell’azione giuridica e politica, perché c’è un’estrema penalizzazione di chi fa uso di sostanze, senza ricostruire il contesto economico e sociale in cui questo uso si genera. Bisognerebbe sostenere l’idea di una depenalizzazione dell’uso di sostanze e incentivare pratiche di educazione all’uso. Creare l’ascolto è la base di tutto.
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