Ecco la seconda e ultima parte del nuovo racconto di Francesco Divenuto, “Il vaso cinese”. I nipoti si raggruppano nella vecchia casa dei nonni per l’eredità. Zia Nenè fa l’inventario degli oggetti…

– Hai ragione, che sbadata, me ne ero dimenticata, ora lo prendo.
Poco dopo zia Nenè rientra portando una scatola, una lunga scatola di legno di quelle nelle quali si conservano vini o liquori di grande pregio.
– Scusatemi ancora, mi era proprio sfuggito di mente.
– Ma zia che dici, non devi scusarti, le dico ma non tutti sembrano d’accordo.
– Quando ci fu il terremoto, ricordate? Si ruppero molte bottiglie e bicchieri. Il vaso si salvò perché, qualche giorno prima, la nonna lo aveva sistemato in uno scaffale più basso del mobile. Diceva che le piaceva, quando passava,  averlo davanti agli occhi in modo che potesse ammirarne la delicatezza del disegno, sapete quanto lo amasse. Era stato un dono di nozze di suo padre che lo aveva acquistato a un’asta organizzata da un suo amico che lavorava presso l’ambasciata d’Italia a Pechino. Dopo quel terribile sisma la nonna decise che il vaso doveva essere meglio protetto e allora lo sistemò in questa  scatola avvolgendolo fra stracci di cotone. Mi era proprio sfuggito, scusatemi ancora.
Nessuno interrompe il lungo racconto della zia la quale tenta di convincere della sua buona fede e della credibilità dei fatti ricordati.
-Ecco; anche io lo rivedo dopo tanto tempo. Dopo la morte di mamma, la scatola è rimasta sempre nel suo armadio.
La zia non aggiunge altro; è chiaro a tutti il suo disagio ma nessuno dice qualcosa. Sento il bisogno di confortarla; mi avvicino e posandole la mano sulla spalla:
-Vuoi che ti aiuti? Le dico. Mi guarda con un triste sorriso.
– No, grazie, non è necessario.
– Il caffè, voglio il caffè!
L’urlo di zio Gustavo ha interrotto una scena penosa. La zia, questa volta, non gli ha risposto mentre la cameriera gli si avvicina per impedirgli di continuare.
– Sì, Gustavo, lo stiamo facendo, ora te lo porto.
– Chi sei? Voglio il caffè.
– Sì, ora arrivo, vengo subito.
Con gesti cauti la zia tira fuori il vaso avendo prima eliminato gli stracci che lo circondano. Se avesse sollevato una reliquia sacra dalla sua teca, sono sicuro che non avrebbe impiegato più tempo e, soprattutto, avrebbe agito con mano più decisa.
Ora il vaso è esposto ai nostri occhi. Io lo ricordavo ma non tutti sembra che ne avessero un preciso ricordo.
– La nonna aveva ragione, è molto bello, chissà quanto vale.
Quest’ultima considerazione ci riporta alla realtà. È chiaro a tutti che è impossibile darlo a uno di noi. Sarà complicato decidere. 
Tutti esprimono ammirazione ma è chiaro che tutta l’attenzione è presa dalla stima del vaso, dal suo valore e da quanto se ne potrebbe ricavare.
– Certo, riprende un’altra cugina, per essere bello è bello, ma come si può stabilire quanto vale. Bisognerebbe farlo vedere da qualcuno che ne capisca, come si dice, un esperto.
-Potremmo chiedere a qualche funzionario del Museo, aggiunge un altro.
Io, intanto, guardo il vaso: alto non più di 30 centimetri, ha la forma di una bottiglia con un collo molto allungato ed un’ansa panciuta sulla quale, su uno sfondo azzurro, è rappresentato un bosco con alcuni animali. I colori: verde, blu, giallo, rosso e nero, non hanno perso la loro brillantezza. Lungo il collo, fino all’imbocco che si allarga leggermente, serpeggiano alcuni disegni geometrici nei quali prevale l’oro. Una leggera svasatura forma la base decorata anch’essa con astratti motivi colorati.
Non ho alcuna competenza ma non c’è dubbio che si tratti di un oggetto di grande valore artistico. Mi ritornano in mente le raccomandazioni della nonna quando noi ragazzi correvamo intorno al tavolo.
– Attenti, ragazzi, fate piano, fate cadere il vaso.
– Ho trovato, state attenti, ascoltate.
Mio cugino notaio appare estremamente emozionato.
– Che cosa c’è? Che cosa hai trovato? Dicci.
– Oh! mio Dio, non è possibile, riprende guardando lo schermo del computer che ha davanti. Dunque ascoltate. Leggo qui che, recentemente,  presso la casa d’aste Sotheby’s, è stato battuto un vaso cinese per il valore di circa 16 milioni di euro.
– E allora? Dove sarebbe l’eccezionalità. Non tutti i vasi cinesi hanno questo valore, che vai a pensare. Magari.
-Ma non capite? Qui c’è anche la foto del vaso; è il nostro vi dico.
-Fai vedere, fai vedere; non è possibile.
– Il caffè, voglio il caffè.
– Per favore, fatelo tacere.
Sullo schermo c’è l’immagine di un vaso accompagnato da un lungo articolo. L’immagine, nitida nei suoi colori, lascia pochi dubbi; la forma, le dimensioni, riportate nell’articolo, il soggetto, i colori; nel piccolo schermo è riflessa l’immagine del nostro vaso.
Siamo tutti basiti. Ammetto che anch’io ora sono emozionato. Qualcuno, ad alta voce, fa il conto di quanto spetterebbe ad ognuno di noi. È una cifra da capogiro. 
-Aspettate, occorre stare calmi. Guardiamo bene. Siamo sicuri che si tratti dello stesso?
Anche a un occhio inesperto la somiglianza dei due vasi appare evidente; si riflettono uno nell’altro. Ma come è possibile?
– La mamma ripeteva sempre che era un oggetto di valore, me lo ricordo bene, interviene zia Nenè, e parlava sempre di questo amico del nonno che viveva in Cina; ora non mi ricordo bene, ma era una persona importante.
– Aspettate, intanto leggiamo bene l’articolo.
Tutti tacciamo mentre il cugino notaio legge bofonchiando come chi cerca di riassumere quello che sta leggendo.
– Ma che cosa dici? Vai piano. E leggi a tutti.
– No, non è necessario. Dunque. Qui dice che il vaso era stato conservato in una soffitta; insomma un ritrovamento imprevisto ma questo non ci interessa, piuttosto ecco quello che è importante. A prescindere dal prezzo finale battuto, gli esperti della casa d’aste hanno dato un valore iniziale al vaso in quanto questo è stato ritenuto l’unico esemplare, con queste caratteristiche, di una produzione databile alla fine del XVIII secolo. Inoltre, la presenza del marchio dell’Imperatore Qianlong, non so come si pronuncia, ha determinato l’autenticità del pezzo ed il suo valore.
Tutti siamo senza parole.
– Qui, ora, bisogna decidere.
– Aspetta, aspetta, ho capito bene? L’articolo dice che quello di Londra è un pezzo unico e allora? Come si spiegherebbe l’esistenza di quest’altro vaso?
– Veramente lo hanno venduto nella sede parigina della Casa d’aste, ma certo hai ragione.
– Scusate ma questo non ha importanza; adesso il vero problema è l’autenticità del vaso. Se quello venduto era unico allora chi ci dice che questo non sia un falso? Nessuno di noi ha competenze in materia.
– Certo, hai ragione. E allora? Che cosa si può fare?
Tutti vogliono dire la loro. Faccio fatica a seguire la discussione ma è evidente che brancoliamo nel buio.
– Forse si potrebbe chiedere una consulenza proprio agli esperti della Sotheby’s.
– Certo, è un’idea ma questo significa una richiesta ufficiale, con tanto di andata a Londra o a Parigi, oppure invitando qualche loro esperto.
– No, no, questo non è necessario. La Sotheby’s ha sedi in tutto il mondo, anche in Italia. Guardiamo su Internet. Ecco, vedi, c’è una sede a Milano.
– Ho un’idea, interviene Caterina, si potrebbe contattare quel Museo di Los Angeles…
– Il Getty Museum?
– Esatto. Quello certo lo comprerebbe.
– Ma Caterina, che cosa dici. Ti rendi conto; dopo tutti gli scandali e gli oggetti che ha dovuto restituire il Museo vorrebbe sapere la provenienza, vedere una documentazione; e poi si tratterebbe di un reato grave: esportazione di un’opera d’arte.
– Ma nessuno lo sa che noi abbiamo il vaso.
– Ma non dite sciocchezze, per favore. Noi dobbiamo prima stabilire l’autenticità del vaso.
– Già hai ragione. Il silenzio di Caterina dura poco.
– Ascoltate. Ho un’idea.
– Sentiamo. Anche i cugini più loquaci, quelli che hanno espresso la loro opinione, ora guardano rassegnati Caterina che interviene, ancora una volta, risoluta.
– Se contattiamo quello che ha comprato il vaso all’asta, lui certo sa che ha pagato quel prezzo in quanto pezzo unico. Avrà, quindi, interesse a comprare il nostro e, semmai, distruggerlo in modo che il suo non perda valore.
Tutti la guardiamo sbalorditi; nessuno ha la forza di replicare. Solo una cretina come mia cugina Caterina poteva ancora parlare in questi termini. Che avvilimento. Qualcuno ride nervoso; in realtà tutti la vorremmo strozzare.
– Attenti, attenti.
– Zia Nenè che succede?
– La gatta è scappata dalla cucina; si è spaventata; non è abituata a vedere tanta gente.
Eccola, vieni qui gattina bella, su, micina vieni.
Anche la gatta disprezza mia cugina Caterina e, con un balzo, salta sul tavolo tentando di scappare fuori, sul terrazzo. Nel salto finale, le sue unghie s’impigliano nel panno che rovina, al suolo, insieme al vaso.
Un rumore secco, senza eco, accompagna la scena. Tutti restiamo immobili, nessuno ha il coraggio di sollevare il panno.
Mi inginocchio e, lentamente, alzo un angolo della stoffa.
Non c’è da aggiungere nulla al silenzioso singhiozzo di zia Nenè, alle imprecazioni di qualcuno e alle lacrime che rigano il volto di Caterina.
Ora tutti i cocci, tanti, sono lì davanti a me.
– Attento, raccogliamoli tutti; si può far restaurare.
Questa volta nessuno ha la forza di urlare a Caterina di tacere, nemmeno il cugino notaio che non ha perso occasione per zittirla.
Prima di rialzarmi, guardo ancora i frammenti del nostro breve sogno di ricchezza.
Un cartiglio arrotolato, attaccato a un frammento, attira la mia attenzione.
È un rotolino ingiallito che srotolo con grande attenzione nel tentativo di non romperlo. Leggo.
“Questo vaso è la copia, benché perfetta, dell’originale rotto da Gustavo giocando. Se mai doveste leggere questo biglietto, perdonatemi, non volevo ingannarvi, l’ho fatto per non addolorare la nonna che non ha mai saputo dell’accaduto; come saprete, amava molto questo vaso non per il valore, diceva, ma perché le ricordava suo padre e l’amore che nutriva per lei. Scusatemi, vostro nonno”.     
– Il caffè, voglio il caffè.
– Fate tacere questo vecchio rincoglionito, per favore, urla qualcuno.
Caterina ora piange senza ritegno confortata da zia Nenè la quale continua a ripete:
– Non lo sapevo nemmeno io, dovete credermi, non lo sapevo.
Non resisto e comincio a ridere forte; tutti mi guardano sbalorditi ma il mio è un riso liberatorio. Siamo rientrati nella realtà.
– Non è possibile, dico fra le lacrime; non è possibile, continuo ridendo.
L’odio che leggo negli occhi di tutti non serve a fermare la mia convulsa risata ma mi suggerisce di sottrarmi ai loro sguardi; esco sul terrazzo continuando a ridere fino a torcermi fra le lacrime. 
(2.fine)





Sul piede di guerra per un’eredità

PRIMA PUNTATA
Sono stanco, depresso; da ore siamo nella vecchia casa dei nonni dove ancora vivono i due anziani zii: zia Nenè e zio Gustavo. Una riunione di famiglia resa necessaria per decidere alcune modalità dovendo provvedere al trasferimento dei due fratelli.
Zia Nenè ha lei stessa deciso di andare a Parma presso una casa di riposo dove una sua nipote è medico. Il suo rammarico è lasciare la città e, soprattutto, il fratello che ha bisogno di continue cure ma si è resa conto che ormai anche le sue forze sono limitate.
Per lo zio abbiamo trovato una soluzione che gli permette di rimanere nella sua città anche se, in realtà, non sembra consapevole di quanto gli stia accadendo. Dei due è il più giovane ma un’avanzata forma di demenza lo ha ormai escluso da ogni contatto con la realtà che lo circonda.
Ci siamo assicurati, noi nipoti e unici eredi, delle qualità e dell’assistenza della struttura in cui sarà ricoverato. Ora occorre smantellare la casa alla quale noi tutti siamo legati per i tanti avvenimenti che in essa si sono svolti. Un cugino, notaio, si preoccuperà di venderla permettendo, così, di incrementare le rendite dello zio avendo i nonni già provveduto per l’eredità della zia.
Per noi ragazzi questi due vecchi zii hanno sempre costituito un punto di riferimento; la casa dei nonni, in realtà era la loro, quella nella quale ci rifugiavamo dopo una marachella, quella nella quale rimasi nascosto una settimana facendo credere ai miei genitori di essere scappato di casa perché da loro contrastato nelle mie scelte scolastiche.
Fu una settimana d’angoscia per loro ma non per gli zii i quali facevano a gara nell’accontentarmi in tutto. In realtà i due, che io allora vedevo già vecchi, avevano avuto una vita misera, senza gioie. Una severa quanto ingiusta educazione, infatti, aveva loro impedito di trovare una autonomia di interessi nonché affettiva: la zia, unica figlia, destinata all’assistenza dei nonni mentre lo zio, senza deciderlo, aveva dovuto proseguire l’attività della famiglia. Nella mia ribellione, certo, rivivevano la loro storia facendo proprie le mie scelte che appoggiavano senza riserve.
Ora noi nipoti, qualcuno accompagnato dal rispettivo coniuge, siamo qui da questa mattina per la ripartizione degli oggetti e dell’arredo. Sono incazzato, anzi sono disgustato, ecco questo è il termine giusto.
L’avidità e la meschineria, dimostrata da molti, mi lascia senza parole creandomi un disagio che a stento trattengo. I mobili, tranne qualcuno che zia Nenè vuole portare con sé, saranno venduti. Lei porterà con sé solo quelle cose che le sembra che potranno esserle utili nella nuova destinazione della quale, per altro, non conosce molto. La nipote le ha assicurato una sistemazione più che dignitosa e, d’altra parte, è stata l’unica parente ad avanzare una soluzione. L’impossibilità di accudire ancora, lei da sola, zio Gustavo è sembrata a tutti un punto di non ritorno.
Il carattere della zia e la sua capacità a trovare il lato positivo in tutte le cose, ci ha facilitato il compito. Tutti hanno deciso che alla fedele cameriera andrà la biancheria che la zia riterrà opportuno lasciare.
Da giorni, prima che noi arrivassimo, zia Nenè ha già ordinato la camera dei nonni svuotandola delle cose inutili. Ha distrutto, così ci ha raccontato, tutte le fotografie con le quali la nonna aveva realizzato un suo altarino personale: tutte foto di parenti dei quali noi più giovani non abbiamo alcun riferimento.
Ha detto che prendeva per sé anche un vecchio cofanetto nel quale ci sono le lettere d’amore dei miei nonni. Un sottile filo che, ingenuamente, lei pensa che possa tenerla legata al passato. Quando andrà via, lontana, in un’altra città e ognuno di noi ritornerà alla sua vita quotidiana, il capitolo della sua vita sarà chiuso per sempre.
No so dire quanto tutto questo le sia presente ma fingo di non vederla mentre si muove in quelle stanze passando una mano leggera sui mobili e sugli oggetti allineati sulla credenza per essere visti da tutti.
– Bene, dice, penso di aver sistemato tutto per bene in modo che possiate rendervi conto delle cose; ora vado in cucina, vi lascio lavorare.
E il nostro appare davvero un lavoro, come quello di un ufficiale che ordina, cataloga tutto per completare l’atto di un pignoramento: un atto conseguenza di un fallimento e non c’è dubbio che oggi, in questa casa, sto assistendo al fallimento di una vita, quella dei miei amati zii, che finisce senza lasciare tracce.
Mi sono distratto non seguendo le decisioni. Qualcuno alza, uno per uno, i quadri già tolti dalle pareti ed addossati alla credenza.  Sorrido nel ricordare il valore che la nonna attribuiva a quella che chiamava, la sua pinacoteca. I quadri, più vecchi che antichi, sono stati già distribuiti con un criterio sul quale non mi sono soffermato avendo subito dichiarato il mio disinteresse al loro possesso.
Più difficile appare la ripartizione delle suppellettili. Solo il buon senso, e non certo il ridicolo, ha evitato che piatti, posateria e cristalli vari, fossero suddivisi fra tutti con il risultato che ad ognuno di noi, siamo sei nipoti, di ogni servizio sarebbero spettati due piatti e qualche bicchiere. Alla fine si è pensato di distribuire tutto con un criterio più credibile. Insomma ha vinto il buon senso; ridendo ho detto che cedevo la mia quota di piatti. Chi ha compreso l’ironia, pochi in verità, si è offeso ma qualche altro ha anche ringraziato.
Per i soprammobili e altre piccole cose, una cugina stila l’elenco di ogni oggetto accompagnato dal valore, tradotto in cifra, che, alla maggioranza dei presenti, sembra appropriato. Faccio fatica a seguire le continue, e solo apparentemente garbate, discussioni sul probabile prezzo da dare ad ogni piccolo oggetto, valore, in realtà, aumentato solo dalla cupidigia.
Fra tutti noi, lontani nei nostri interessi edormai estranei, solo la povera zia Nenè cerca di dimostrare una unità famigliare che da tempo non esiste più. Instancabile, la sua minuta persona non si ferma un attimo con la chiara, quanto inutile, intenzione di rendere l’incresciosa riunione meno sgradevole possibile. Va, avanti e in dietro, dalla cucina trascinandosi dietro la vecchia domestica.
– Volete altro caffè? Faccio preparare dei panini? Chiede con apprensione.
Zio Gustavo, seduto in un angolo, con il suo sguardo perso, sorride a tutti ma, più spesso, ride sonoramente sgridato, con affetto, dalla sorella.
– Che c’è Gustavo, dimmi, che cosa vuoi?
– Il caffè io non l’ho avuto.
– Sì l’hai avuto guarda, hai ancora la tazzina; lo sai che di più non ne puoi avere. Ecco, ora ti do anche la compressa. Scusate, è come un bambino, povero Gustavo. Non so se faccio bene ad andar via. Come farà senza di me. Nessuno la conforta. Ognuno è preso dalla sua parte nella recita.
Siamo tutti rientrati nella valutazione degli oggetti, dopo una pausa di riposo; qualcuno ha telefonato o uscito sul terrazzo per fumare; zia Nenè non vuole che si fumi in casa.
– È soprattutto per Gustavo, dice, mentre lo zio continua a vagare con lo sguardo tutto intorno senza soffermarsi su nulla.
-Chi sei? chiede a qualcuno che gli passa vicino. Ma non ottiene risposta. E, in fondo, ogni possibile colloquio risulterebbe inutile. Lui continua a ridere ed a chiedere caffè.
La cugina diligente, riprende la lettura del lungo elenco degli oggetti fermandosi, per ognuno in modo da aggiungere, di fianco, il valore, accettato da tutti, ed il nome del nipote al quale andrà. Qualcuno ha già espresso una sua preferenza ma la roba, come dice la cugina, è ancora tanta. Naturalmente, a distribuzione avvenuta, qualche ripensamento è possibile ma, in questo caso, lo scambio avviene fra le parti escludendo tutti gli altri. Il gioco delle figurine dei calciatori, di quando eravamo bambini, era più divertente e senza quella sottile cattiveria che serpeggia, ora, fra noi.
– Il caffè, datemi il caffè ripete zio Gustavo mentre tutti lo guardano con fastidio, con irritazione; ormai è vissuto come un vecchio mobile di famiglia dal quale non si può ricavare nulla. Insomma, un oggetto inutile.
Ho voglia di andar via. La mia pazienza è al limite della sopportazione.
– Signorina, le pizze sono pronte; posso portarle?
La domanda della cameriera è di aiuto per interrompere quell’atmosfera che nessuno sa dominare.
-Bene dice qualcuno; mi sembra il momento giusto per una sosta. 
– Abbiamo preparato un tavolo fuori, sul terrazzo, venite, dice la donna.
Zia Nenè esce per prima seguita da tutti gli altri. Nella stanza resto per ultimo; guardo zio Gustavo il quale si è assopito. Che cosa sarà di lui? Che cosa veramente capirà quando si troverà solo, fra estranei?
Fuori, sul terrazzo assolato, alto sui tetti, guardo la mia città, il panorama che conservo nitido nella mia mente, ora che vivo lontano. Quanti ricordi su quel terrazzo, la loggia, come la chiamava la nonna. “Andate fuori, andate a giocare sulla loggia, qui dobbiamo pulire”. La sua voce, la sua presenza è ancora fra queste piante alle quali dedicava tanto tempo.
Il campanile della vicina chiesa incombe su un lato del terrazzo. Di pomeriggio, quando sentivamo i suoi rintocchi era tempo di rientrare per la cena che la nonna aveva già portato in tavola. Nessuno parla mentre mangiamo le buone “pizzelle” che zia Nenè ha preparato. Guardo i miei cugini e mi chiedo se anche loro stanno pensando a quei tempi lontani. Ma da adulti anche i ricordi sono personali e non possono essere condivisi. Ognuno, preso dalla sua attività, dai suoi rapporti famigliari, nella sua mente, avrà destinato uno spazio residuo ai ricordi.
Siamo rientrati. Anche i più litigiosi ora tacciono; forse, penso, i ricordi delle ore trascorse in questa casa sono riaffiorati anche in loro.
– Allora, riprendiamo; dunque ho segnato il punto in cui eravamo arrivati.
La cugina Caterina, quella che ha redatto il lungo elenco, riprende in mano la situazione.
-Passiamo ai vetri.
Già, i bei vetri, la passione della nonna.
Almeno quelli più modesti quasi sempre blu, il suo colore preferito, li prenderanno le due cugine che vivono ancora in città. Altri, invece, sono pezzi firmati da designer noti. Nessuno dimostra particolare competenza per gli artisti che sono stati via via nominati anche se, spesso, si è trattato di nomi famosi. Anche in questo caso i criteri di scelta, per assegnarli, sono collegati al loro valore che è possibile controllare su qualche sito anche se in questo modo si rallenta la ridistribuzione. Alla fine l’accordo raggiunto prevede una sorta di compensazione: chi ha preso un pezzo importante, sempre in base al suo valore economico, per così dire, salta un giro.
– Credo che abbiamo finito.
– Bene, scusate, ma io andrei via; ho fretta dico alzandomi.
– Ma, dice zia Nenè, non vuoi altro? sei sicuro? Ti piacevano tante cose? 
– No, grazie zia; ho preso il cofanetto dei dischi; quello di Chopin suonato da Martha Argerich mi ricordo che a te questo autore piaceva tanto anzi, ora che ci penso, se vuoi tenerlo non mi dispiace.
– No, mi fa piacere sapere che lo prendi tu. Sì, hai ragione, mi piaceva ascoltarlo, ma ormai, non so nemmeno se dove andrò potrò fare musica.
Anche il più cinico fra noi resta in silenzio. La tristezza è un sentimento canaglia, ti prende quando non te lo aspetti.
– No, scusate manca ancora qualcosa.
Il cugino, il notaio, interviene con un tono inquisitorio come se qualcuno di noi volesse sottrarre qualche oggetto. Ci guardiamo tutti ma non abbiamo una risposta.
– Scusa, a che cosa ti riferisci? Abbiamo deciso che il servizio di posate d’argento lo lasciamo a zia Nenè, non ti ricordi? 
– Mi riferisco al vaso, il vaso cinese che ora non vedo più nella credenza.
Tutti ci rivolgiamo a zia Nenè la quale ci guarda con un velo di tristezza nello sguardo. O almeno io così credo. La richiesta del nipote le ha dato la definitiva conferma di che cosa sia oggi la famiglia: un gruppo di parenti venuti per spartire quello che resta e poi andare via. Un branco di iene fameliche che non mollano e intendono spolpare bene tutto quello che resta.
(1.continua)
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Foto di  Ezequiel Octaviano da Pixabay

L’AUTORE
Ordinario di storia dell’architettura all’università Federico II di Napoli, Francesco Divenuto è autore, tra l’altro, di  numerosi saggi su riviste specializzate e di  due romanzi “Il capitello dell’imperatore. Capri: storie di luoghi, di persone e di cose” e “Vento di desideri “(edizioni scientifiche italiane). Tra gli ultimi libri realizzati, quello a più voci dal titolo “Napoli: a bordo di una metro sulle tracce della città” coordinato con Guido D’Agostino e Antonio Piscitelli (edizioni scientifiche italiane 2019).
Tra i racconti, pubblicati sul nostro portale, “Variazioni Goldberg”, “Il bar di zio Peppe”, “Carmen e il professore”, “Il flacone verde (o Pietà per George)”, “Lido d’Amore”, “Frinire”, “Primo novembre”, “Due di noi”, “Il trio”, “Quattro camere e servizi”, “Mai di domenica”, “Cirù e Ritù”, “Una notte in corsia”, “Gennaro cerca lavoro (il peccato originale)”, “L’odio”.

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