Gli Spagnoli a Napoli. Il Rinascimento meridionale a cura di Riccardo Naldi, docente di Storia dell’arte moderna all’Università L’Orientale di Napoli e Andrea Zezza, docente di Storia dell’arte moderna all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” sarà ospitata nella sala Causa dal Museo e real bosco di Capodimonte fino al 25 giugno. Il progetto espositivo è stato realizzato in partenariato con il Museo Nacional del Prado. Sul nostro portale Carmine Negro racconta a lettrici e lettori cosa potranno aspettarsi da questo percorso espositivo.

PRIMA PARTE

Il progetto di questa esposizione, che rileva il legame profondo che lega Napoli e la Spagna, è nato da una collaborazione tra il Museo e Real Bosco di Capodimonte e il Museo Nacional del Prado. Con il titolo Otro Renacimiento. Artistas españoles en Nápoles al comienzos del Cinquecento[1], a Madrid, c’è stata una prima versione della mostra che ha ottenuto un notevole successo di critica e di pubblico. In quell’occasione Miguel Falomir, director del Prado, ha dichiarato[2]: … possiamo affermare senza paura di esagerare, che senza quell’esperienza napoletana, il Rinascimento spagnolo sarebbe molto diverso.

Qui sopra e in alto, immagini della mostra, foto di Carmine Negro


La mostra focalizza la sua attenzione sul trentennio che va dal 1503 al 1532 circa. Un periodo in cui la città, sotto il profilo politico, vede estinguersi la dinastia aragonese con conseguenze per tutto il Regno di Napoli: la perdita dell’autonomia di cui ha goduto durante l’era angioina e aragonese e il passaggio sotto il dominio della Corona di Spagna.
Dal punto di vista culturale ci sono attività, come quelle dell’Accademia Pontaniana, che elaborano una approfondita riflessione sul ruolo sociale della liberalità e della magnificenza, virtù che trovano espressione nell’esercizio delle arti, dell’architettura e delle arti figurative. Queste attività al cui sviluppo i sovrani aragonesi hanno dato un impulso notevole, consentono alla capitale di raggiungere l’apice di una grande stagione umanistica, un livello straordinario che persiste nel tempo.
La città con la sua eredità greca, romana, normanna, francese e aragonese è luogo di contaminazione culturale e sperimentazione estetica. Agli inizi del Cinquecento, gli artisti spagnoli vengono a Napoli per la loro formazione ma anche per trovare ispirazione in un luogo fiorente e in grande trasformazione. A quel tempo quella che fu la capitale di un Regno per gli Angioini e gli Aragonesi è una delle più grandi città europee[3] dove è possibile sperimentare in modo libero le nuove correnti rinascimentali proprio per il suo immenso potere di trasformazione che fa della successione di vicissitudini storiche un elemento di progressivo arricchimento culturale ed innovazione creativa[4].
L’opera d’arte, concepita come mezzo per destare emozioni e/o riflessioni spesso potenti e complesse, realizzata da un artista che dà corpo a un messaggio, va sempre calata entro un preciso contesto che in qualsiasi epoca, è un intreccio di storia, arte, letteratura e filosofia. È stato questo, probabilmente, il motivo che ha consigliato i curatori Riccardo Naldi e Andrea Zezza[5] a presentare sulle pareti del corridoio di ingresso il contesto topografico e politico della città.
Sulla parete di destra è stata riprodotta un mappa ingrandita della città del 1566 incisa da Étienne Dupérac e stampata da Antoine Lafréry: può essere considerata la più importante raffigurazione della città di Napoli nel XVI secolo. Sulla parete di sinistra una serie di date ricorda gli eventi che si sono succeduti in una terra che spesso è stato teatro di potenze in lotta per possederla.
Nel 1458 muore Alfonso I d’Aragona, re di Napoli, detto il Magnanimo e la sua eredità viene divisa: a succedergli sul trono di Napoli Ferdinando I, detto Ferrante I.
Nel 1494 muore Ferdinando I d’Aragona e gli succede al trono il figlio Alfonso II. Nello stesso anno Carlo VIII, re di Francia, parte alla conquista di Napoli dove entra nel  1495 accolto favorevolmente dalla popolazione. Intanto Ferdinando II, figlio di Alfonso II, affiancato da un contingente spagnolo mandato dai re Cattolici, comincia una guerra  per la riconquista del Regno che nel 1496 viene completata con la resa dell’esercito francese.
Ferdinando II muore improvvisamente e suo zio Federico è acclamato re ma con il Trattato di Granata del 1500 la Francia e la Spagna si spartiscono il Regno di Napoli. Le lotte e i trattati che vengono stipulati si situano nel contesto delle Guerre d’Italia che sono durate dal 1494 al 1559, definite dal Machiavelli Guerre horrende de Italia. Napoli è funestata da continue lotte tra francesi e spagnoli per il predominio sulla città.
Carlo VIII rivendica il possesso del Regno di Napoli in quanto Valois, erede degli Angioini, che sono stati cacciati nel 1442 da Alfonso I d’Aragona il Magnanimo, mentre Ferdinando il Cattolico fa valere i suoi diritti di discendenza proprio da Alfonso il Magnanino, diritti che egli reputa legittimati dall’essere l’ultimo ramo dinastico regnante sulla città.
Il contrasto tra Francia e Spagna continua fino alla Battaglia di Pavia del 1525 quando le truppe imperiali capitanate da Charles de Lannoy e Ferdinando Francesco d’Avalos sconfiggono e fanno prigioniero Francesco I re di Francia.
Intanto a Napoli nel 1503 viene nominato il primo viceré e la città una volta capitale di un Regno diviene capoluogo di un vicereame: una condizione che si protrae fino al 1707.


Marco Cardisco
Tritolo (CZ)1486 ca./ Napoli 1542-1546
Adorazione dei Re Magi
Dipinto 1518
tavola/ pittura a olio
Museo Civico di Castel Nuovo
Napoli


A segnare il nuovo corso politico e a dare inizio al percorso della mostra è una grande tela che raffigura I’Adorazione dei Magi, attribuita al pittore calabrese Marco Cardisco. Il dipinto che appartiene alle collezioni comunali proviene dalla Cappella di S. Barbara di Castel Nuovo, residenza dei re e successivamente dei viceré di Napoli, prima della costruzione del Palazzo Vicereale[6].
La collocazione della tela ci indica che il messaggio che contiene è destinato ai frequentatori del palazzo: diplomatici e corte che non hanno difficoltà a riconoscere i ritratti dei personaggi riportati e comprendere il significato politico del quadro. Nella pala d’altare è riportata una Sacra Famiglia con al centro una figura della Vergine, dai tratti leonardeschi, che si contrappone ai Re Magi incarnati da ritratti di palese realismo.
L’opera, realizzata a Napoli nel 1519[7], nel periodo della successione tra Ferdinando il Cattolico e Carlo d’Asburgo, intende rappresentare la continuità di una catena dinastica[8]. Una tale raffigurazione dell’Epifania vuole: ripercorrere gli eventi drammatici che tra il 1494 ed il 1516 che portano alla successione su quel trono di tre diverse dinastie, raccontare la situazione politica degli anni che vanno tra il 1516 e il 1520, con l’avvento sul trono di Spagna di Carlo d’Asburgo, legittimare la continuità tra le diverse dinastie che si sono succedute nel Regno, ovvero l’aragonese, la spagnola e l’asburgica.
Nel quadro i Re Magi sono impersonati dai sovrani aragonesi Ferrante I e Ferdinando il Cattolico, raffigurati, in modo anacronistico insieme al giovane Re di Spagna Carlo d’Asburgo, anche lui re di Napoli dal 1516 al 1556. Il libro aperto, davanti a S. Giuseppe, associato al Vangelo, sembra rievocare l’arrivo a Napoli di Alfonso V il primo re della dinastia aragonese.
Ferrante I d’Aragona, figlio di Alfonso V, che ostenta il collare e il mantello dell’Ordine dell’Ermellino[9] da lui fondato, è il primo ad essere raffigurato: in ginocchio nelle vesti di Melchiorre rende omaggio al bambino e gli offre l’oro simbolo dell’amore.
Accanto e dopo di lui Ferdinando il Cattolico, che ha ricondotto il Regno sotto la corona di Spagna, è riprodotto mentre accenna ad inginocchiarsi; come Gasparre porge l’incenso che rimanda alla fede. Dalla parte opposta ed un po’ distante dagli altri due sovrani c’è il giovane Carlo d’Asburgo, salito al trono nel 1516 al posto del nonno. Presentato in piedi ed in primo piano, offre, come Baldassarre, la mirra che rappresenta la speranza nella Resurrezione e attesta di essere l’ultima espressione di un’unica linea dinastica.
Il dipinto è una rappresentazione pittorica che si sovrappone a quella devozionale dell’episodio evangelico: i Magi, che venuti da lontano rappresentano tutte quelle persone che proprio perché vengono da lontano sono guardate con sospetto, sono anche quelle che guidate da una stella, riconoscono e omaggiano il Cristo come re. La figura di San Giuseppe, inserita prendendo spunto da un quadro di Raffaello, consente di raccontare la storia di una città che entra in una nuova fase sia politica che artistica.
Lo scultore Pietro Belverte si trasferisce a Napoli da Bergamo con bottega e famiglie negli anni novanta del Quattrocento[10], in un documento del 4 agosto 1507 è nominato come “de Venetiis civis neapolitanus[11]. Il 4 agosto 1507 stipula un compromesso con Ettore Carafa conte di Rufo per scolpire 28 statue[12] per i frati della Chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli. Servono per realizzare un presepe nella Cappella del Crocifisso di quella Chiesa da completare entro il giugno dell’anno successivo; deve essere ambientato in una grotta con pietre vere, forse provenienti dalla Palestina ed arricchito con una taverna. Nello stesso periodo è impegnato a realizzare per la corporazione dell’arte dei calzolai in San Lorenzo Maggiore 31 figure di cui rimangono oggi soltanto la Madonna e le immagini di San Crispino e San Crispiniano.
La complessa cona dei santi Crispino e Crispiniano e contemporaneamente il Presepe Carafa non possono essere eseguite senza il supporto di una ben organizzata bottega, specializzata nell’intaglio ligneo, al cui interno devono trovarsi figure di rilievo come Giovanni da Nola, collaboratori e lavoratori occasionali, ma anche figure portanti, come quel Francesco Bernardo di Venezia che nel 1508 sposa la figlia dello scultore.
Francesco Bernardo è ricordato nei documenti napoletani quale autore della porta lignea intagliata con rilievi e dieci figure della Chiesa di San Pietro ad Aram: i due pannelli raffiguranti i santi Pietro e Paolo, che ancora si conservano in sagrestia, sono appartenuti quasi certamente alla porta eseguita nel 1509. Il prestigioso incarico sembra il risultato di una dinamica di rapporti di parentela con l’egregio viro magistro Petro de belverte de venetijs», affermato scultore nella Napoli del tempo[13].

Pietro Belverte
Vergine in adorazione (1507-1508)
San Giuseppe in adorazione(1507-1508)
statue in legno dipinto e dorato
altezza di circa 140 cm


Belverte è un artista celebre e Pietro Summonte lo menziona nel 1524 a Marcantonio Michiel in una lettera sull’arte a Napoli con la precisazione che è stato maestro di Giovanni da Nola. Delle 28 statue del Presepe Carafa le uniche figure superstiti oltre al bue e l’asino sono le due statue presenti in mostra: la Vergine in adorazione e San Giuseppe in adorazione.
La Madonna ha le mani congiunte ed il volto severo mentre S. Giuseppe con la mano destra sembra voglia ripararsi dal bagliore emanato da Gesù Bambino. Le due sculture che condividono la stessa modulazione plastica dei volti, una sodezza delle forme che ricorda la scuola lombarda di provenienza, non presentano nessun trattamento idealizzante: l’artista con la lavorazione fa emergere l’aspetto naturalistico del viso ottenuto attraverso le rughe intorno alla bocca e agli occhi, le gote pronunciate o la fossetta sotto le guance.
La barba, che si presenta con morbidi riccioli, è ottenuta dalle linee tracciate dalla sgobbia, un particolare tipo di scalpello per gli intagli del legno, ed è scolpita evitando soluzioni artificiose. Un raffinato copricapo nasconde la capigliatura del santo; questo espediente è stato proposto dal Belverte anche in un’altra opera che gli è stata attribuita: il ritratto del vescovo Giordano Caetani oggi nel Museo di Capua.
La minuziosa descrizione dei volti si ritrova in ogni dettaglio del vestiario e degli accessori, dalla bordatura dello scollo della vergine che simula l’inserzione di pietre preziose fino alla cintura di San Giuseppe, forse un ritratto del committente, a cui sono appesi una custodia per gli occhiali e l’astuccio in cuoio per i suoi strumenti di cultura[14].
La magnifica finitura policroma, data dalle preziose decorazioni delle vesti con i motivi estofados[15] di derivazione iberica, trovano ampia applicazione nella pittura di fine Quattrocento a Napoli. Il territorio di origine di Belverte è rappresentato dal bergamasco: in quella cultura artistica si è formato e da quella cultura artistica ha tratto una lezione di realismo, descrittivo e prezioso.
Le superstiti figure del Presepe Carafa in San Domenico Maggiore, sembrano marcare la distanza dai quei primi modi del lombardo. Nel 1507 era evidente la trasformazione con l’ormai avvenuta adesione alla tradizione lignea napoletana: una rappresentazione schematica e rigida si è sciolta in una materia modulata dalla luce mediterranea[16][17].
Quella cappella e quell’anno indica un momento importante per l’arte napoletana: un rinnovamento che segna il passaggio tra Quattro e Cinquecento. Tra la folta colonia di artisti lombardi attivi in città e gli artisti spagnoli si crea un sodalizio attraverso l’immenso potere di trasformazione della città che fa della successione di vicissitudini storiche un elemento di progressivo arricchimento culturale ed innovazione creativa.
 ©Riproduzione riservata 

NOTE

[1] La mostra Otro Renacimiento. Artistas españoles en Nápoles al comienzos del Cinquecento si è tenuta al Museo Prado di Madrid dal 18 ottobre 2022 al 29 gennaio 2023

[2] Miguel Falomir, director del Prado: “… podemos afirmar sin temor a exagerar que, sin esa experiencia napolitana, el Renacimiento español sería muy distinto”

[3] All’inizio del Cinquecento la città di Napoli aveva tra i cento e centocinquantamila abitanti ed era dopo Parigi la più popolosa città europea di sicuro la più popolosa tra quelle governate dalla corona di Spagna. Catalogo Op. cit. pag. 149

[4]Miguel Fernández-Palacios Ambasciatore di Spagna in Italia “Gli spagnoli a Napoli. Il Rinascimento meridionale” Catalogo Mostra Editore Artem pag.11

[5] I curatori sono: il prof. Riccardo Naldi, docente di Storia dell’arte moderna all’Università L’Orientale di Napoli ed il prof.  Andrea Zezza, docente di Storia dell’arte moderna all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”.

[6] La costruzione del Palazzo Reale fu affidata nel 1600 dal viceré Fernando Ruiz de Castro, conte di Lemos, all’architetto Domenico Fontana. Il palazzo fu residenza dei viceré (rappresentanti dei re di Spagna prima e degli imperatori asburgici poi) fino al 1734, anno in cui Carlo di Borbone divenne re di Napoli e ne fece la sua sede ufficiale.

[7] È stato rilevata l’esistenza di un pagamento del 1519 per un quadro da collocare in cappella entro il 3 febbraio 1520. Catalogo mostra Opera citata pag. 152

[8] Carlo V d’Asburgo, quando Ferdinando il Cattolico muore nel 1516, gli succede sul trono di Spagna (Castiglia e Aragona) con il nome Carlo I di Spagna. Divenuto re di Spagna, entra in possesso anche del regno aragonese di Napoli.

[9] L’Ordine dell’Ermellino fu un ordine cavalleresco istituito il 29 settembre 1463 dal re del Regno di Napoli Ferrante d’Aragona. Agli insigniti veniva conferito un collare d’oro con un ermellino per ciondolo, recante il motto latino malo mori quam foedari (“preferirei morire piuttosto che essere disonorato”).

[10] Lo attesta una scultura trovata ubicata nel Museo diocesano di Capua, probabile ritratto del committente Giordano Caetani. La datazione del portale dell’Annunziata potrebbe attestarne la presenza intorno al 1491.

[11] Se dovesse trovare conferma l’origine trevigiese di Pietro Belverte, che nei documenti napoletani viene talvolta ricordato come proveniente da Bergamo che dal 1430 è annessa alla repubblica veneta, si può immaginare che la formazione di Belverte  è avvenuta in un contesto comune allo scultore lombardo Pietro Bussolo; contesto all’interno del quale si immette la vicenda artistica del grande polittico conservato nell’interno della basilica di San Martino a Treviglio, in provincia di Bergamo di Butinone e Zenale

[12] Il presepe composto dai figure al naturale comprendeva la Madonna, S. Giuseppe, Gesù Bambino, il bue e l’asino, undici angeli, due pastori, due cani e otto pecore e naturalmente gli alberi.

[13]  G . Filangieri, Documenti per la Storia, le Arti e le Industrie delle Provincie Napoletane, Napoli 1883-91, V, pp . 49-50 e conservato nell’archivi o del Museo civico Gaetano Filangieri Principe di Satriano.

[14] Catalogo  mostra Opera citata pag. 153

[15] Il termine spagnolo estofado si pensa che sia derivato dal termine italiano “stoffa” e fa riferimento alla tecnica di policromia che si applica alla superficie lignea delle statue per imitare le stoffe pregiate.

[16] Questo passaggio si deve alla lezione Francesco Laurana nato ad Aurana  in Croazia nel  1430 e morto ad Avignone, nel 1502 uno scultore, che ebbe un ruolo di primo piano nella diffusione dell’estetica rinascimentale a Napoli, e al modenese Guido Mazzoni.

[17] Letizia Gaeta Intorno a Pietro Belverte e Giovanni da Nola tra recuperi, restauri e dispersioni Centro studi sulla civiltà artistica dell’Italia meridionale «Giovanni Previtali» Interventi Sulla «Questione Meridionale» a cura di Francesco Abbate Donzelli Editore Roma 2005.

RISPONDI

This site is protected by reCAPTCHA and the Google Privacy Policy and Terms of Service apply.