Nella cornice di Campania By Night è andata in scena Stabiae Liberata, spettacolo dedicato alla figura di Libero D’Orsi, con Fabio Cocifoglia, qui regista, e Giampiero Schiano.
Ma chi è Libero d’Orsi e perché Stabiae Liberata?  Cerchiamo di contestualizzare.  Tra il 1757  e il 1762 Karl Weber, un ingegnere svizzero, porta alla luce i resti di un’antica villa romana. Siamo a Castellammare di Stabia e il neoclassicismo impazza.
Da qualche anno i Borbone hanno permesso a Pompei antica di venire alla luce. La Campania è presa d’assalto da viaggiatori, che dimostrano per la zona archeologica una vera e propria passione. La parte di costa interessata dall’eruzione del del Vesuvio diventa l’enorme cantiere che renderà una delle più grandi zone museali a cielo aperto del mondo.
E non a caso.
Dal II secolo A.C. tutto il litorale campano diviene, per varie ragioni, luogo preferenziale per la costruzione di quelle che erano chiamate ville d’otium, le residenze di riposo della classe dirigente romana. E qui c’è una cosa da chiarire.
Otium, era per i latini non quello che noi definiamo oggi come una non operatività impigrita, ma il contrario di negotium, degli affari. Era la dimensione mentale e fisica dei ricchi romani, lontano dal centro di potere, dedicata alla cura della casa, alla cura di se stessi e allo studio.
Un tempo libero che era non evasione sterile, ma costituzione.
La costa campana si prestava bene. Con l’accesso privilegiato al mare, più prossimo alle abitazioni di quanto non sia oggi, una densità di ville fastose si stendeva in un unico agglomerato urbano fino a Posillipo. 
A Stabia vengono alla luce una serie di ville, poi sotterrate nuovamente per ragioni che vanno dalla scelta di Pompei come cantiere preferenziale alla necessità di evitare che i tombaroli accedessero facilmente ai reperti.
A inizio ‘900, il piccolo Libero D’Orsi visita gli scavi di Pompei. Qui sente la necessità di capire che fine avesse fatto Stabiae e perché non avesse seguito il destino di Ercolano.
Dopo una carriera in giro per l’italia, torna da preside nella scuola media della sua Castellamare, e diventa animatore di attività che porteranno in pochi anni al ritrovamento di circa 10 ville, tra cui le due maggiori Villa San Marco e Villa Arianna, e alla raccolta di  8000 reperti, ad oggi nel museo stabiese dedicato.
Il D’Orsi riletto da Cocifoglia dà l’idea di un uomo appassionato, non intimorito dagli impedimenti che rischiarono di bloccare sul nascere la sua visione.
Lo spettacolo si tiene a Villa Arianna, nella stanza che reca l’affresco del relativo mito.  Il mosaico pavimentale è oculatamente protetto. Qui si è da subito al centro dell’azione , e ci si sofferma talvolta su un dettaglio delle pareti affrescate, su un particolare di un volto dipinto, sul respiro puro di un pezzo di storia che è, per una sera, anche scenografia.
Lo spettatore è rapito dalla ordinarietà sin dalle prime parole che Don Ciccio (Giampiero Schiano) gli rivolge, invitandolo a prendere posto liberamente sulla pila di giornali che gli farà da poltrona per 40 minuti di forte immersione.
La scena è semplice. Don Ciccio e Libero (Fabio Cocifoglia), a piedi nudi, occupano due parti contrapposte della sala. Ai loro piedi cataste di libri, tra cui si intuisce qualche classico.
Quello loro è un dialogo in equilibrio sulla razionalità legata al presente dell’uno e all’evasione letteraria dell’altro. Una lettera, quella di Cicerone all’amico Marco Mario, il pretesto per un viaggio a cui lo spettatore non può sottrarsi, trattenuto da una recitazione mai stanca, a tratti incendiaria. 
La lettera è letta ad alta voce da un annoiato e stanco Don Ciccio, e dà il via a una azione che si esprime in un complesso ragionamento, filo conduttore di tutta la vicenda, e che non stanca, non annoia.
Difatti non si può non cedere alla gestualità pacata, eppure piena, dei due attori. La loro bravura sta in una recitazione corposa narra di una vicenda costruita su realtà, fantasia, evasione, letteratura, lavoro concreto, psicologia.
I due attori in realtà non sono, ma sono stati. L’atto unico è giocato interamente su questa temporalità stressata che non permette di capire mai davvero se si è in presenza di due persone o delle loro anime.
Serenità pacificata, quella di Libero, più pessoano che pirandelliano, reticenza addomesticata quella Don Ciccio, devoto al suo preside ma poco disposto a cedere a quelle che ritiene le stramberie di una mente eccelsa.
in verità non vi è nulla di strambo, nel pensiero di Libero d’Orsi.
Non v’è nulla oltre la visione lucida espressa attraverso le evasioni letterarie, il bisogno di esprimere l’universalità che si è portati ad essere, allo stesso tempo se stessi e tutti gli altri in relazioni complesse con quello che ci circonda.
Liberare Stabiae, non interessa solo Libero. Farla emergere dalla coltre di cenere e lapilli prima e dimenticanza poi, è interesse di tutti. Ognuno è, infatti, sia Cicerone che Marco Mario, che in una di quelle ville visse.
È Arianna e Teseo, è Dionisio. È allo stesso tempo Don Ciccio e Libero.
Come dire: tutto siamo, tutto è nostro e tutto ci appartiene.
Lo spettacolo rende in poco tempo la complessa vicenda di D’Orsi, dell’uomo e del suo sogno. Un grande comunicatore, prima di tutto, che con il pretesto degli scavi portò molte persone ad esprimere una cittadinanza attiva capaci di renderli comunità. Che rese differente un’intera comunità.
Un uomo che non si limitò a usare la forza lavoro di studenti e disoccupati, ma li consegnò alla perpetua memoria. A un respiro di immortalità che ci rende del tutto normale osservare pareti affrescate più di 2000 anni fa.
In una intervista disponibile on line, Libero d’Orsi racconta di aver detto ai suoi aiutanti queste parole: oggi sulla superficie della terra siamo quel che siamo, sotto la terra siamo grandi uomini. Volete essere grandi uomini? Venite a scavare. 
Lo scavo, rappresenta l’emergere di un fasto trascurato, che era anche un modo per l’Italia post bellica di rinascere dalla sua propria cultura. Usandola come trampolino di lancio. Una rinascita culturale di cui, la pandemia insegna, si ha un perenne e ciclico bisogno.
Cocifoglia rende perfettamente la molteplicità dell’essere con il giusto tributo ad una figura poco esplorata, colpevolmente sia a livello nazionale che locale.
La figura di uomo libero, di nome e di fatto, che mantenne sempre la visione del bambino che pure fu, trasformando per sempre il volto culturale della città che sentiva sua.
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In copertina, foto di Ilaria Barbara Varriano

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