Pubblichiamo la terza parte dell’articolo di Carmine Negro dedicato al libro di Maria Laura Longo Piazza Mercato a Napoli. Memorie e racconti di un paesaggio urbano, 1940-2016 Franco Angeli Editore 2020.

TERZA E ULTIMA PARTE

Chi passa sotto l’arco di S. Eligio, riflette Maria Laura Longo, ha l’impressione che il tempo si sia fermato in questo fazzoletto di terra dove le tracce delle varie epoche, dal Medioevo al barocco fino all’esasperato modernismo architettonico sono sospese in una muta e solitaria testimonianza. L’orologio si era realmente bloccato con l’esplosione  della nave Caterina Costa Il 28 marzo del 1943; lo scoppio aveva provocato l’arresto delle sue lancette fino al suo restauro del 1993. “Il quadrante del tempo, però, sembra ancora bloccato in un’atmosfera di stasi e ciclicità che, alle volte, non trova luce neanche nella memoria di chi vive in questo luogo … non scorre nelle parole .. viene in superficie a fatica[1]”.

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Quando leggo l’ultima pagina è tardi e sono già a letto. Mi accorgo che questa lettura è stata più impegnativa di quanto mi aspettassi. Maria Laura Longo ha cercato di narrare con discrezione, rispetto e una grande sensibilità questo luogo, ai più inaccessibile e incomprensibile, costruendo, con la sua ricerca, un’immagine che avesse tutte le sfumature reperibili.
La ringrazio per le cose dette, per aver dato un’anima ai manufatti di pietre, specchio degli uomini che le hanno immaginate e costruite, per quelle non dette, perché non facenti parte della ricerca. Mi riferisco allo sventramento del Castello del Carmine, ai resti ingloriosi del Chiostro e della Chiesa del Carminiello, ai martoriati ruderi della stazione Napoli – Portici altrettante ferite non rimarginate di un territorio che offendono la vista, l’animo e lo sguardo di quanti lo abitano prima che l’occhio del  visitatore.
Scorro tra le pagine per rileggere alcuni brani, tra i tanti che mi hanno colpito:è un quartiere poco rappresentato nell’immaginario napoletano che domina i media nazionali o le innumerevoli di fiction ambientate a Napoli. Non è assurto a luogo simbolico della città come, nel bene e nel male, è avvenuto per altri quartieri: la Sanità, San Lorenzo con gli antichi decumani, i Quartieri Spagnoli, Forcella, Scampia … Eppure è uno dei luoghi più antichi e densi di memorie storiche e di opere architettoniche che segnano lo spazio ma anche le vite degli abitanti, la loro immaginazione, il loro legame con il luogo[2]”…. “Il suo perimetro porta inscritta la storia dell’intera città, eppure esso risulta tagliato fuori dagli itinerari turistici tradizionali, spinto ai bordi della storia illuminata dal sole, quella che, invece, scorre incanalata nell’ampio viale di Corso Umberto[3]” … “Questo lavoro di ricerca compie un percorso, uno dei tanti possibili, all’interno di uno dei quartieri meno raccontati di Napoli”.
Vado poi al racconto che campeggia sulla parte prima del volume quando Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. … Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? … chiede il Kublai Kan. … Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra … risponde Marco … ma dalla linea dell’Arco che esse formano. Kublai Kan  rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge … Perché mi parli delle pietre? è solo dell’arco che mi importa. Polo risponde … Senza pietre non c’è l’arco.
Questa citazione, ripresa dal testo “Le città invisibili” di Italo Calvino, sembra sottolineare, se ancora ce ne fosse bisogno, che nessuna rinascita è possibile senza i protagonisti di quanti abitano quello spazio: soggetti e non oggetti della trasformazione.
Anche se l’ora tardi porta a spegnere la luce del comodino il pensiero non si ferma, … il buio silenzioso della notte favorisce la riflessione. Nell’assopimento o forse nel sogno camuffato da dormiveglia il contesto urbano sembra rassomigliare tanto all’intreccio di fili di un tessuto.
Quando la tessitura è sfilacciata, ciascun filo, non più organizzato in una trama ordinata, si ribella e in una sorte di autogoverno crea nuovi rapporti, stabilisce nuove relazioni: rende l’indumento a brandelli, vistosamente sdrucito e qualche volta lacero.
Un gruppo malavitoso che incarna il pezzo di stoffa sbrindellato altro non è che la negazione del patto civile che regge la vita associata e agisce come un corpo “antisociale”[4]. Una tale definizione ci fa supporre che quel gruppo è altro rispetto all’ambiente in cui vive e si riproduce; in altre parole il malridotto è circoscritto rispetto al resto del pezzo di stoffa. Questa dichiarazione naturalmente non indaga sulle modalità e circostanze con le quali un tale gruppo prende forma nel tessuto sociale ed economico di un  territorio.
La sfilacciatura in un punto della stoffa rende debole l’intelaiatura anche delle parti prospicienti e in un fazzoletto piccolo come quello di piazza Mercato la commistione genera una mescolanza che rende difficile e complessa anche l’individuazione netta, definitiva e precisa della zona infetta.
In più l’estorsione e le aree abusivamente deputate al parcheggio possono assurgere anche a meccanismi di sorveglianza, intimidazione e predominio che la criminalità organizzata utilizza coinvolgendo gli strati più bassi della popolazione, le ultime catene dell’ingranaggio camorristico, quelle più visibili, le meno importanti e per questo le più esposte[5]. In un progetto di rinnovamento dovrebbero essere i primi a cui rivolgere le attenzione per la rinascita.
I malavitosi, oltre a essere specialisti nella violenza, sono anche specialisti di relazioni sociali. Concorrono a mantenere l’ordine sociale non solo utilizzando la forza, ma anche influenzando la costruzione sociale della fiducia attraverso un insieme di regole basato sulla coercizione e un sistema di relazioni che poggia su forme variabili di consenso sociale; spesso coercizione e consenso sono difficilmente distinguibili. Chi porta un interesse inclusivo assicura “ordine e vantaggi anche alla popolazione per cui l’estorsione permanente risulta alla fine di gran lunga migliore di una situazione di anarchia”[6].
Affrontare le macrosfide della società contemporanea e le microsfide di quella locale, ricostruire a piccoli passi un tessuto economico sano, attraverso la valorizzazione del singolo e della comunità, è ciò che serve per riallacciare i fili e provare a ricomporre un tessuto sociale. E, per fare questo, c’è bisogno di un chicco che sappia generare una nuova vita … se il seme non muore non porta frutto[7] e la morte in questo caso non è quella fisica ma quella che sa anteporre ai propri interessi quelli generali. 
Riprovare a scorgere l’altro, dopo la difficoltà a vederlo e l’abitudine all’io, è la sfida del futuro. Per ritrovare le radici, i monumenti del territorio, sia di quelli che sono stati risparmiati dalla forza distruttrice, che guida spesso le attività degli uomini, sia di quelli che hanno avuto meno fortuna, possono dare una mano: essi parlano a quanti sanno ascoltare.
Normalmente provano ad attirare la nostra attenzione, domandano uno sguardo, chiedono una nostra sosta. Lo fanno proprio perché portano impresso il segno di quanti li hanno realizzati; lo fanno perché vivono attraverso la vita dei vivi. Quando riusciamo ad osservare con attenzione e a dare loro spazio nella mente e nel cuore sanno colorare la nostra esistenza di intensità, profumo e profondità. Torna la relazione tra l’osservatore e l’osservato dove l’osservato è anche l’osservatore.
Le pietre possono essere massi abbandonati, diventare schegge impazzite o sagomarsi l’una con l’altra per costruire ponti. Quando diventano ponti consentono di attraversare le avversità, di raggiungere la sponda che non conosciamo, ricostruire noi e il nostro futuro.
Quando osservo una pietra mi pare di sentirne il battito cardiaco lentissimo[8]”. È il battito della Terra la nostra madre comune, che ci appartiene e a cui apparteniamo.          
È la Terra che può aiutare a a guidare i passi del viandante che ha perso il sentiero.


NOTE

[1]Maria Laura Longo Opera citata pag.152

[2] Gabriella Gribaudi  Prefazione Maria Laura Longo Opera citata pag.7

[3] Maria Laura Longo Opera citata pag.12

[4] Maria Laura Longo Opera citata a pag.92 riferisce quanto riportato da Luciano Brancaccio in Mercati violenti e gruppi di camorra” ed in altri lavori.

[5] Maria Laura Longo Opera citata pag.95

[6] Maria Laura Longo Opera citata a pag.96

[7] Vangelo Giovanni 12, 24-26 Se il seme di frumento non finisce sottoterra e non muore, non porta frutto. Se muore, invece, porta molto frutto.

[8] Francesco Alessio scultore
Nella foto, piazza Mercato bombardata durante la seconda guerra mondiale
(3.fine)
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PIAZZA MERCATO/ Quei monumenti che restano, bussole nello spazio e nel tempo


SECONDA PARTE

La seconda parte, Alfabeto sconvolto, marca il forte intreccio esistente tra storia sociale e spazio urbano. Questa parte del quartiere Pendino risparmiata dallo sventramento di Napoli ne ha subito comunque l’effetto.
Una porzione delle 57mila persone costrette a spostarsi, non potendo pagare le pigioni delle case costruite sul Corso Umberto, vennero respinte dietro il paravento ed andarono ad affollare la parte non interessata dalle nuove strutture rappresentative di quella che doveva essere la nuova città.
Strutture che, come una cesura, avevano tagliato non solo l’identità dei quartieri bassi di impianto medioevale, ma anche quel ruolo di connessione tra centro antico e mare.
La Villa del Popolo, area realizzata nel 1877, (foto di copertina) interrando lo specchio d’acqua prospiciente piazza Mercato per consentire al popolino escluso dalla splendida Villa di Chiaia di poter fruire di uno spazio sul mare, tutto piante, ayole, alberi, sentieri e viali sparsi di fine ghiaia e sabbia[1] scompare soppiantato da un ampliamento del porto: Calata del Popolo. Isolamento, perdita funzionale, svuotamento simbolico: è pesante l’eredità lasciata dal risanamento nelle pieghe del territorio[2].
La situazione urbanistica, dopo la guerra drammatica per l’elevato incremento demografico e la carenza di vani[3] originata dalle distruzioni belliche, è una delle giustificazioni per produrre, edifici come il palazzo Ottieri che si staglia imponente, mastodontico, osceno, simbolo estremo, più evidente, di quello che la speculazione edilizia ha significato per la città d Napoli[4].
Per fortuna restano i monumenti, bussole nel tempo e nello spazio per i suoi abitanti, luoghi di culto dalla storia secolare e parte del patrimonio artistico e culturale di tutta la città.
Nella vita di un quartiere come in quella delle persone ci sono alcuni eventi che si  possono considerare veri punti di svolta e che determinano un prima e un dopo. Altri cambiamenti sono più graduali: si insinuano nella quotidianità lentamente senza traumi e non consentono di delineare un prima e un dopo.
Il quartiere Pendino ha sperimento entrambe le situazioni. Con questa riflessione inizia la terza parte che porta un titolo suggestivo Nel cantiere della memoria. L’evento traumatico è senza dubbio il terremoto del 23 novembre 1980 venuto all’improvviso inatteso e violento così come emerge dal racconto che ne fanno gli abitanti del quartiere.
Le trasformazioni degli anni ’80, di natura demografica, sociale, culturale ed economica, causa di spopolamento, perdita dell’identità culturale, ridotta capacità di richiamo della piccola distribuzione commerciale, si traducono in un progressivo abbandono degli spazi pubblici e le aree mercantili che ne caratterizzavano l’uso in favore di luoghi specializzati extraurbani (ipermercati, centri commerciali, factory outlet village) autori di politiche sempre più aggressive nella moderna distribuzione.
La crisi del commercio ha trasformato piazza Mercato da centro commerciale dell’intero sud Italia in zona vittima della delocalizzazione del grande commercio nelle periferie con relativo calo del numero delle imprese. Rifunzionalizzare gli spazi, senza dimenticare il passato dei luoghi: è forse questo il difficile compito che spetta a chi vive e governa questo territorio[5]. Completa questa sezione il racconto sulla presenza massiccia di immigrati, la più alta della città, da collegare alla presenza di numerose attività commerciali condotte principalmente da stranieri provenienti dal Bangladesh o dal Pakistan.
La moschea di piazza Mercato, in via Corradino di Svevia, è un luogo di ritrovo non solo per bengalesi e pachistani ma anche per marocchini, ghanesi e migranti di altre provenienze. La presenza di questi stranieri, percepiti a volte come invasori e altre volte come ospiti, fotografa la difficile ma possibile convivenza tra culture diverse. Le strade strette del Lavinaio, dove convivono, sono rianimate da un“miscuglio di odori e suoni che spaziano dal detersivo della biancheria stesa ad asciugare, tipico dei bassi napoletani a forti aromi di spezie propri della cultura indiana[6].
Il termine camorra che pure “si ripete nelle relazioni semestrali  che la Direzione Investigativa Antimafia redige per il Parlamento Italiano, oltre che nella documentazione giudiziaria[7]” non compare mai in nessuna testimonianza.
Nell’ultima parte Funzioni e Linguaggi, la ricerca prova a dare una diversa lettura dello spazio o meglio degli spazi, quelli stratificati, controllati, trascurati nel tentativo di dare forma al deserto dei luoghi, credendo che “i silenzi su episodi specifici, le omissioni di dettagli rilevanti, la difficoltà o la reticenza a affrontare determinati periodi o argomenti possano infatti dirci molto sul rapporto che le persone hanno con il loro passato[8]
Anche se un decreto della Procura di Napoli evidenzia la presenza di attività illecite come estorsioni, traffico di droga, produzione e commercializzazione di cd e dvd contraffatti, occupazione abusiva del suolo pubblico destinato ad aree di parcheggio non autorizzato, la sensazione di insicurezza manifestata dai residenti e commercianti è tutto legato alla microcriminalità.
La potenza della camorra non dipende solo dall’uso smoderato della forza, considerato un espediente  per tirare avanti, ma produce “forme di regolarizzazione e stabilizzazione dei rapporti economici” provvede “a ritagliare uno spazio nell’incertezza, uno spazio che accolga chi non ha niente e cerca disperatamente di apparire e appartenere[9]”.
Con queste premesse la violenza viene interiorizzata e riesce quasi inconsapevolmente a pervadere il linguaggio quotidiano con locuzioni  come “andato in carcere”, “morto ammazzato”, “sparato alle gambe”. “È la quotianizzazione della violenza … Il processo di colonizzazione della psiche che esso è in grado di innescare fa apparire normali azioni, comportamenti, modalità di relazione in cui viene neutralizzata qualsiasi percezione dell’orrore[10]”. Malgrado le numerose vite consumate le file della malavita continuano a gonfiarsi sullo sfondo di un silenzio normalizzato … “… là dove i racconti scompaiono, … vi è perdita di spazio; privato di narrazioni … il gruppo o l’individuo regredisce verso l’esperienza inquietante, fatalista di una totalità informe, indistinta, notturna[11]”.
  Una fonte di finanziamento molto redditizia della camorra, cosi come emerge dalle intercettazioni telefoniche e nella documentazione della D.I.A. di Napoli, è rappresentata dalla gestione dei parcheggi abusivi su aree comunali dove l’organizzazione, molto articolata, fatta con turnazione ben definita, non è “curata dagli affiliati (evidentemente impegnati in attività più importanti) ma gestita da vari soggetti, spesso extracomunitari oppure donne costretti a versare con cadenza settimanale una quota dei proventi al clan[12]. … “Le storie che si  nascondono dietro la solita violenza, la solita camorra, la solita piccola e grande delinquenza, sono un susseguirsi di abbandoni, paure, negazioni, uccisioni. Sono vicende profondamente umane, cancellate da tratti di crudele disumanità, quelli tipici  della camorra. Non è facile raccoglierle, perchè non è facile che trovino espressione, soffocate in quel dedalo di vicoli, in quel silenzio spettrale nella vastità di una piazza vuota[13].

(2,continua)


[1] Maria Laura Longo Opera citata pag.43

[2]Maria Laura Longo Opera citata pag.44

[3] La fame di case e della successiva speculazione edilizia che interessò varie parti della città fu descritta dal film drammatico “Le mani sulla città” del 1963 film drammatico diretto da Francesco Rosi . E ‘una storia di corruzione politica nel post- seconda guerra mondiale.

[4] Maria Laura Longo Opera citata pag.47

[5] Maria Laura Longo Opera citata pag.76

[6]Maria Laura Longo Opera citata pag. 84

[7]Maria Laura Longo Opera citata pag. 88

[8] Bruno Bonomo Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica Carrocci Roma 2013 p.15.

[9]Maria Laura Longo Opera citata pag. 93

[10]Maria Laura Longo Opera citata pag. 95

[11] Michel de Certeau L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro Roma, 2010 pp. 181-184

[12]Maria Laura Longo Opera citata pag. 99

[13]Maria Laura Longo Opera citata pag. 110
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PIAZZA MERCATO 1/ Memorie e racconti di un paesaggio urbano: il quadrante del tempo

PRIMA PARTE
Quando da piazza del Gesù mi inoltro nel decumano, cuore antico della città, i primi protagonisti o meglio le prime protagoniste che incontro sono le pietre: tracciano strade strette e confidenziali, proteggono l’intimità dei cortili, descrivono i portali dei negozi, segnano l’accesso alle abitazioni.
Alcune pietre sono particolarmente preziose: portano ancora incise lettere antiche; hanno sfidato gli avvenimenti che hanno segnato i luoghi e ora raccontano storie di altri tempi. Altri protagonisti rendono vivace e dinamico questo spazio: sono le persone che qui abitano e qui lavorano, quelle che lo visitano velocemente, quelle che si lasciano travolgere dall’energica operosità del posto.
Quando imbocco via S. Gregorio Armeno il restringimento del percorso diventa evidente per le sporgenze laterali: scanni ricoperti da un gran numero di piccole figure che mani esperte hanno reso preziose e capaci di parlare ai passanti senza preoccuparsi dell’età, della provenienza o della lingua parlata.
Tra stretti vicoli una moltitudine di persone, fatta di giovani e meno giovani, si ferma e ammira con stupore “i pastori” catturati dagli sguardi e sbalorditi dai gesti imprigionati nella terracotta. Alcune volte descrivono personaggi famosi, altre volte familiari, spesso volti del tutto ignoti; appartengono alla storia della vita antica o a quella contemporanea.
Mi piace tuffarmi in questo spazio condiviso dove gli osservatori animano gli osservati. Dietro gli ignari protagonisti dal cuore di argilla, che con le loro esibizioni rendono vivo questo palcoscenico della vita, ci sono altri che hanno guardato, rilevato, fissato.
In fondo, tra le bancarelle, che tanto affascinano i passanti, si consuma un gioco delle parti tra l’osservatore e l’osservato, dove l’osservatore è anche l’osservato.
Mentre viaggio tra questi pensieri, mi accorgo che il tempo passa e io devo arrivare al Pio Monte per le 11.00. Ho letto velocemente la locandina; quando arrivo al Pio Monte di Misericordia l’usciere mi dice che il Dipartimento di Scienze Sociali si trova altrove e quindi torno indietro. Mi dirigo all’aula 1.1 del vico Monte della Pietà, 1 e intanto mi viene spontaneo pensare al navigatore satellitare che, nel momento in cui non trova corrispondenza tra il percorso programmato e il tragitto intrapreso, ripete, non so se a se stesso o all’autista, “ricalcolo del percorso”; rifletto su come un’osservazione poco dettagliata e puntuale ci porti a sbagliare e nei casi più gravi a perdersi.
È stata la dottoressa Maria Laura Longo a invitarmi al convegno Napoli tra centro e periferia  le memorie, le pratiche, le reti sociali” presso il Dipartimento Scienze Sociali dell’Università degli Studi Federico II, dove deve relazionare su Piazza Mercato di Napoli, uno spazio raccontato. Ci siamo conosciuti nel 2015, quando si è presentata nella parte orientale della città per una ricerca sul territorio: ne ha tratto un testo che raccoglie il suo lavoro; dopo diverse occasioni mancate, finalmente lo riusciamo a condividere.
La relazione, essenziale ed efficace, inizia con la proiezione di due immagini della piazza la prima è di Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro[1] Piazza Mercato all’epoca di Masaniello[2]. Il pittore, considerato il cronista e narratore nella Napoli del Seicento, specialista a riprodurre scene cittadine affollate da piccole figure descritte in modo dettagliato, si mostra come sempre attento a rappresentare la realtà sociale popolare.
In questo dipinto la protagonista è la piazza: si fa conoscere con tutta la sua vitalità, affollatissima, sotto una distesa di tendoni che cercano di difendere dal sole merci e persone, acquirenti e venditori, passanti e mendicanti.
La seconda immagine è una foto di piazza Mercato ripresa dall’alto (foto), dal lato di piazzetta S. Eligio, scattata dopo gli ultimi interventi eseguiti per la riqualificazione dell’invaso. La foto mostra un angolo dell’esedra, deturpata nelle linee e nei colori, il palazzo Ottieri che, irrispettoso della geometria della piazza, irrompe con uno sbarramento che nega allo sguardo l’accesso al mare, il campanile ancora martoriato dai ponteggi degli ultimi lavori e soprattutto il vuoto della grande piazza con l’assenza di ogni forma di attività: uno spazio senza vita.
La relazione prosegue riportando alcune delle tematiche affrontate nel lavoro di ricerca che si è svolta incrociando le testimonianze orali di chi vive quel luogo con varie fonti: “testi storico-letterari, giornali, fotografie, immagini d’archivio, atti giudiziari, censimenti, statistiche, studi urbanistici e saggi …. per contestualizzare le storie di vita e restituire ai fatti narrati coerenza storica[3].
Trovo stimolante l’utilizzo delle testimonianze orali[4], voci, narrazioni polifoniche che si condensano attorno ai confini poco demarcati di piazza Mercato[5]che permettono di “ricostruire, attraverso i ricordi e le percezioni del presente, un volto diverso del quartiere” e, “con i silenzi le omissioni, la rielaborazione degli avvenimenti dei punti di vista[6]consentono di tratteggiare possibili letture di “una parte delle cose che sono successe e che possono succedere[7]”.
Mentre vado via penso e ripenso a quell’immagine dell’invaso vuoto, a quello spazio occupato da un silenzio spettrale. Provo il dolore acuto di chi sente quei luoghi come familiari. Vissuti intensamente rivelano una magia che solo occhi attenti sanno leggere e animi sgombri sanno intendere: dall’ascolto di grandi e piccoli si riescono a comprendere aspetti della vita che uno sguardo distratto non riesce a cogliere.
Non ci si può rassegnare a vedere che quelle storie come le persone che le vivono non siano visibili, c’è come un rifiuto a guardare una immagine che non ha tempo.

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L’introduzione Il quadrante del tempo, che apre il volume, sintetizza il percorso della ricerca e ne riassume le tappe. Al centro dell’Arco di S. Eligio c’è l’orologio che, per l’autrice, distende lo sguardo da una parte sulla città delle case attraverso le pietre che segnano e disegnano lo spazio e dall’altra sulla città delle persone che per anni hanno occupato e ancora occupano tale spazio.
Ed è proprio la prima parte, Archi, ponti e pietre, a trattare la nascita di questo luogo da sito incolto fuori le mura della città, denominato Campo del Moricino, a territorio incluso nel perimetro urbano, con una posizione che segna da subito la sua forte vocazione allo scambio e al commercio. Nella città delle pietre, oltre alle case degli abitanti, ci sono dimore illustri a segnare il fluire del tempo: la Chiesa di S. Giovanni a mare, la Chiesa di S. Eligio, la Chiesa del Carmine, l’esedra con la Chiesa di S. Croce e Purgatorio al Mercato. Alcuni uomini hanno attraversato questa area rimasta libera dalle pietre, da Corradino a Masaniello fino ai Martiri della Repubblica napoletana lasciando un segno forte in quei luoghi.
Sempre in questa piazza hanno convissuto vita e morte: ai colori e ai profumi delle mercanzie in strada ai rumori del popolo vivace e accattone, si è accompagnata l’immagine dei sospiri, delle decapitazioni, delle morti più o meno celebri[8]”.
La piazza e il dedalo di strade che si dipanano da essa, con ancora i nomi delle attività artigianali[9] a cui erano deputate, sono delimitate dalle grandi linee direttrici dell’asse viario urbano[10] che sembrano stringerla “in un cono d’ombra figurato e reale[11]”.
C’è poi il racconto delle devastazioni portate dall’ultima guerra, una delle zone più bombardate della città, la grande esplosione della nave Caterina Costa, che ebbe sulla città l’impatto di un sisma, i tanti morti, la lotta per la sopravvivenza per gli scampati. E ancora la descrizione di alcune figure come quella dello scugnizzo e del magliaro, gli ultimi avvenimenti come la dislocazione di molte aziende dal Mercato al CIS di Nola, un grosso centro di distribuzione all’ingrosso. La Piazza, da sempre centro commerciale naturale, privata “delle sue forze giovani e con esse di energia, speranza, innovazione” sembra avere “serie difficoltà” a “ripensare e riformulare la scrittura del suo tempo futuro[12].
(1.continua)
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27 dicembre 2021
NOTE

[1] Il nome Micco Spadaro è dovuto al mestiere del padre, forgiatore di spade (Bernardo De Dominici, Vita di Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro pittore ed architetto, e de’ suoi discepoli, in Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, Vol. III, Napoli, Tip. Trani, 1844, pp. 401)

[2]Toledo, Museo de la Fundación Duquede Lerma

[3] Maria Laura Longo Piazza Mercato a Napoli Memorie e racconti di un paesaggio urbano, 1940-2016 Franco Angeli Editore 2020 pag.14

[4]A raccontare la storia della Piazza nei suoi molteplici aspetti diacronici e sincronici sono gli abitanti del luogo: commercianti che resistono; residenti che l’hanno vista cambiare nel corso degli anni;, nuovi cittadini provenienti da paesi lontani che hanno stabilito punti di riferimento proprio nel quartiere Pendino; associazioni ed attori socialiMaria Laura Longo Opera citata pag. 13

[5] Maria Laura Longo Opera citata pag.12

[6] Maria Laura Longo Opera citata pag.13

[7] Alessandro Portelli (a cura di) Città di parole. Storia orale di una periferia romana, Donzelli Editore. Roma 2007, pag. 6

[8] Maria Laura Longo Opera citata pag.18

[9] Interessante quanto riportato a proposito di queste attività “negli isolati stretti le merci si producevano, si lavorava il ferro, il legno le ossa animali, e si producevano i manufatti: la cera, il sapone, le sedie, le campane, i chiodi … i generi alimentari”.

[10] Le strade che delimitano questo pezzo di territorio sono: Corso Umberto al nord, via Duomo a ovest. Via Marina a sud e Via dei Fossi e attualmente Corso Garibaldi ad est.

[11] Maria Laura Longo Opera citata pag.18

[12]Maria Laura Longo Opera citata pag.38

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