Un urlo risuona nel silenzio del vicolo; un urlo lungo, disperato, come di bestia ferita interrompe la quiete che in ogni casa segna il riposo. Qualche testa si affaccia dagli usci, chiede al vicino che cosa sia successo. Occhi muti, gesti inarticolati per cercare una risposta alle domande di ciascuno. Nell’aria l’eco di quell’urlo ancora non si è spenta quando da una porta, spalancata con furia, una donna, non più giovane ma non ancora anziana, esce correndo ed agitando le braccia.
La bocca aperta nel tentativo di continuare quell’urlo; uno sforzo impossibile; una bocca che pure senza più fiato mantiene quella smorfia di disperazione.
Nessuno la ferma, nessuno si muove, nessuno le chiede che cosa sia successo, perché sta urlando, contro chi scaglia le sue grida perché tutti conoscono quella donna, la sua storia, le sue pene.
I suoi timori hanno avuto una conferma. Aveva invano sperato. Come di un avvenimento atteso e a lungo temuto, ora quel momento è arrivato. Perché tutto questo proprio a lei? Ma ora non è il momento di giudicare un destino crudele che la vuole protagonista.
La donna continua la sua corsa disperata con gesti e lamenti senza senso. La strada per raggiungere la vetta della collina, dove dicono che hanno portato suo figlio, è lunga. Ma il dolore non conosce stanchezza. Deve arrivare prima che tutto sia compiuto.
Sui due lati della strada una folla, ferma, la guarda con una profonda tristezza negli occhi, senza parlare, senza inutili tentativi di placare quella furia.
Quel dolore non chiede parole ma solo pietà. Molti non reggono la visione della donna che ora avanza a fatica su per la salita; restano impietriti, fermi, testimoni di un dramma che non cerca risposte e chi aveva dubitato, e qualcuno anche sorriso a sentire tutto quel che di prodigioso si raccontava di quel giovane, ora tace sgomento. Quanta pietà, quanto dolore negli occhi di chi resta fermo, incapace di un qualsiasi gesto verso quella povera donna che arranca con un suono sordo in gola; solo due donne le si affiancano e la sorreggono quasi spingendola nella sua disperata corsa.
Ma la fatica è tanta. La lunga veste le si attorciglia alle gambe impedendole un passo più veloce. E l’affanno le strozza l’urlo, le rallenta i passi ma non i pensieri. Tutti i presagi che non aveva voluto ascoltare, tutti i dubbi che, negli anni, hanno spento i momenti di gioia, eccoli, si sono avverati; ora sa che era tutto vero.
Possibile che le sue preghiere siano rimaste inascoltate? Ed allora che senso ha avuto la sua vita, che senso tutte le lodi che anche i dottori della chiesa hanno sempre rivolto a questo suo figlio adorato. Ed i giorni e le notti trascorsi in attesa del suo ritorno? Tutto un inganno? Come può credere a questa realtà che, oggi, le si è presentata crudele, inappellabile: suo figlio condannato a morte.
Di quale colpa è stato accusato? Che cosa di tanto grave può aver commesso suo figlio, amato da tanti, sempre buono con gli altri, da meritare la morte?
Che cosa potrà fare, lei povera donna, per salvarlo? Come potrà convincere i giudici della buona fede? Potrà mai il suo straziante dolore intenerire quelli che ormai hanno deciso?
Improvviso un bagliore illumina la cima della collina; e quello che appare è devastante: tre croci si stagliano sulla luce dell’orizzonte. E non è necessario chiedere il nome dei tre condannati.
A quella visione improvvisa e definitiva, il gruppo delle tre donne si arresta. Mancano solo pochi metri per raggiungere la vetta ma ora anche le forze mancano. Tutto ormai è consumato; ogni speranza, ogni illusione testardamente coltivata viene meno; e prima che possa riprendere il suo cammino quella donna, quella madre, rompe il silenzio in un ultimo disumano urlo stretta fra le braccia  delle due donne che l’affiancano mute.
La folla, giunta sulla collina, si fa da parte lasciando passare le tre donne che si trascinano. Sono giunte sotto le croci; tutto il dolore, tutta la disperazione per una vita così ingiustamente spezzata, sono negli occhi spenti di una madre che non ha più lacrime da versare e fiato per urlare. Unite, abbracciate le tre donne crollano in un solo viluppo di pianto e di dolore. Poi tutto avviene come al rallentatore.
Tutto intorno è silenzio; il buio della notte è calato improvviso. Nessuno parla; anche i soldati, ai piedi delle croci, ora sono muti; il dileggio, lo sprezzo, la crudeltà con la quale hanno martoriato quei tre corpi hanno lasciato il posto ad una vergogna che non è ancora pentimento.
E ora? Che cosa farà povera donna? Potrà esistere un dopo, da sola, senza quel suo adorato figlio per il quale lei aveva desiderato la vita, non la gloria? Come potrà sopravvivere a tutto questo? Chi ha permesso questo insulto? Quale oltraggio alle leggi di natura secondo le quali sono i figli a dover seppellire i genitori.
La pioggia, a lungo annunciata da lampi e tuoni, ora scende piano a bagnare il dolore di una madre chiusa nella sua definitiva solitudine.

                                                                           §§§

– Per la camera mortuaria è tardi, dovete tornare domani.
Queste parole non sono ancora terminate quando l’uomo che le ha pronunciate viene travolto e spintonato da una donna che corre verso l’interno seguita da altre due.
– Ma dove correte? Urla l’ addetto all’ingresso dell’ospedale. Inutilmente insegue quelle furie che corrono senza sapere la direzione da prendere. Il leggero rumore dei macchinari che lavorano tutta la notte viene interrotto dai loro passi.
Imboccano un passaggio, senza sapere perché. Non incontrano nessuno al quale poter chiedere. Quel vuoto di persone e di voci è l’unico commento possibile.
Che cosa orienta le povere donne? Che cosa, d’istinto, indica loro le porte da aprire, le scale da scendere, i corridoi da percorrere? Nessuna delle tre parla, avanzano senza sapere dove stanno andando; fino a giungere in fondo, contro una vetrata chiusa; ma nella loro volontà sanno che non può essere un ostacolo ed infatti, appena forzata, la porta ha ceduto. Un ancora più anonimo luogo, dove l’assenza di vita è la realtà, accoglie le donne che si fermano senza sapere come proseguire. Il leggero rumore di una cicalina d’allarme è l’unico suono. Un rumore, alle loro spalle, avverte che sono state seguite; ora verranno trascinate via; ma non è questo che le spaventa. 
E quando si voltano decise ad affrontare chiunque voglia tentare di impedire loro di proseguire, la disperazione dei loro occhi è una evidente dichiarazione di lotta, una volontà di continuare la loro ricerca che non vede ostacoli. Lo comprende anche l’uomo che le affronta; lo stesso che era alla porta e che, ora, le guarda attonito, intristito, senza coraggio; uno sguardo che ammette la propria incapacità a affrontare tutto quel dolore.
– Venite, è da questa parte; dice; ma per favore non fate rumore.
È un mesto corteo quello che riprende a camminare. Ancora una porta che si apre su un corridoio. L’abbagliante bianco di un ambiente li avvolge come in un acquario. Se la morte ha un colore per manifestarsi ebbene ora quella luce bianca, spettrale, senza una fonte visibile, è lì davanti a loro, sulle pareti, sul soffitto e sui tre lettini disposti contro la parete.
L’uomo ha capito, sa chi cercano, non è necessario chiedere; ed avanza piano fino a fermarsi davanti ad uno dei letti. Solo un leggero lenzuolo, disteso con pena su quel corpo, divide la morte dal dolore senza scampo; solo un ultimo gesto e poi, la crudele realtà sarà davanti ai loro occhi. 
Il ronzio dell’aria condizionata è continuo, sgradevole. Le tre donne circondano quel letto restando immobili; nessuna parla; alzano una mano in un gesto timido ritirandola subito dopo; non sanno cosa fare; la pena, il dolore è nell’aria.
Ma l’uomo, per esperienza, sa che quella pena dovrà esplodere, che non può restare senza un lamento, un pianto. Quello è un momento terribile; tutte le speranze, tutte le illusioni che i parenti hanno coltivato rifiutando la realtà che, in fondo, ben conoscono ora naufragheranno contro la verità alla quale sarà impossibile sfuggire.
Ancora una volta è lui a dover prendere l’iniziativa. Ogni ritardo è solo un tormento inutile, un inutile sgomento aggiunto a quel dolore che è negli occhi di tutti. Con un leggero gesto, delicato, quasi temendo di ferire quel corpo, alza un lembo del lenzuolo.
Il viso di un giovane uomo, quasi un ragazzo, è lì che forse chiede perdono a quella madre che con un singulto, come un rantolo, affonda il suo volto su quello del figlio.
– Figlio, figlio mio bello, che cosa ti hanno fatto? Perché, perché? Che cosa volevi, che cosa cercavi?
La donna mischia lacrime e parole in un suono, un lamento che sembra riprendere nenie infantili nella disperata illusione di risvegliare il ragazzo. Gli altri, muti testimoni di un’angoscia senza conforto possibile, assistono piangendo in silenzio.
– Volevi crescere povero figlio mio, avevi fretta e non hai capito i pericoli che correvi. Ogni giorno divoravi il tempo che ti veniva incontro. Volevi afferrare la vita ma la vita ti ha tradito e ti ha lasciato solo. Perché non ho capito quest’ansia che ti portavi dentro senza darti pace? Sono stata una cattiva mamma? dimmi. Io per te avrei dato la vita. Ti ho tenuto nove mesi nel mio corpo, ma quando hai avuto bisogno di me io non c’ero. Perché non sono riuscita a salvarti? Perché, perché? Ditemelo voi, perché?
Ed ora come posso continuare a vivere, dimmi, come posso camminare se i tuoi passi si sono fermati per sempre, respirare sapendo che tu non potrai più sentire il vento, il caldo del sole, il profumo del mare che ti piaceva tanto?
La disperazione della donna è inarrestabile. Il dolore di una madre che piange il proprio figlio è un’ingiuria ai sentimenti umani, il tradimento di una vita che corre all’incontrario.
La situazione è diventata difficile, straziante; non ci sono parole possibili per arginare quel fiume di pianto e dolore; occorre intervenire.
L’uomo le si avvicina poggiandole una mano leggera, quasi una carezza, sulla spalla.
La donna ha compreso.
– Lasciatemi qua, ve lo chiedo per carità; gli faccio compagnia; io non faccio rumore.
– Mi dispiace, ma non è possibile. Ora dovete andare, potete tornare domani.
– Vieni, Maria, dobbiamo andare, vieni. Torniamo domani.
Le due donne sollevano piano la loro amica la quale, gli occhi ormai senza pianto, con un gesto lieve ricopre il volto del figlio.
– Vi prego, non lo toccate, non gli fate male; io domani porto panni puliti e lo cambio; gli voglio portare anche la maglia della sua squadra.
– Certo, va bene; non vi preoccupate; non faccio entrare nessuno; io resto qui fino a domani.
La strada da percorrere per uscire è la stessa anche se, ora, sembra più lunga ed anche più buia.
Fuori le prime luci dell’alba, livide, rischiarano appena il cortile dell’ospedale; qualcuno passa veloce. Le tre donne piano vanno verso l’uscita seguite dallo sguardo triste del custode.
©Riproduzione riservata

Foto di Stefan Keller da Pixabay 

L’AUTORE
Ordinario di storia dell’architettura all’università Federico II di Napoli, Francesco Divenuto è autore, tra l’altro, di  numerosi saggi su riviste specializzate e di  due romanzi “Il capitello dell’imperatore. Capri: storie di luoghi, di persone e di cose” e “Vento di desideri “(edizioni scientifiche italiane). Tra gli ultimi libri realizzati, quelli a più voci dal titolo “Napoli: a bordo di una metro sulle tracce della città” coordinato con Guido D’Agostino e Antonio Piscitelli (edizioni scientifiche italiane 2019), La casa nel Parco. Un giorno tra il Museo e il Real Bosco di Capodimonte (AGE 2020) e Agorà, ombre e storia nelle piazze di Napoli (La Valle del Tempo, 2021) curati con Clorinda Irace e Mario Rovinello..
Tra i racconti, pubblicati sul nostro portale, “Variazioni Goldberg”, “Il bar di zio Peppe”, “Carmen e il professore”, “Il flacone verde (o Pietà per George)”, “Lido d’Amore”, “Frinire”, “Primo novembre”, “Due di noi”, “Il trio”, “Quattro camere e servizi”, “Mai di domenica”, “Cirù e Ritù”, “Una notte in corsia”, “Gennaro cerca lavoro (il peccato originale)”, “L’odio”, “Il vaso cinese”, e “Il nuovo parroco”, “L’eredità”, “Una caduta rovinosa”, “Cronaca nera”, “La cartellina rossa”. “L’ultima scelta”, “Un disco rotto”, “Sogno di un giorno di mezzo agosto”, “Il mare verde”, “L’arrosto di Ariosto”.
Questo nuovo racconto s’intitola “Madre”.

RISPONDI

This site is protected by reCAPTCHA and the Google Privacy Policy and Terms of Service apply.