“Piccerè, a tiene ‘a salute”. Ero andata all’Accademia di Belle arti, dove c’erano pochissime donne, per l’esame di ammissione al liceo artistico, quando ancora frequentavo il secondo anno del classico. Avevo davanti a me un capitello che dovevo riprodurre con un carboncino. Mi voltai e vidi un signore di bell’aspetto che guardava con approvazione quel chiaroscuro energico, forse per lui poco femminile. Cos conobbi Domenico Spinosa, pittore e maestro dell’Accademia. Erano gli anni Cinquanta. Mi sarebbe capitato, in quel periodo, spesso di sentirmi dire anche da altri “No, la tua non sembra mai l’opera di una donna”.
Mi arrabbiavo molto, non capivo la differenza. In famiglia la determinazione eranel dna. E anche l’arte. Energica e progressista era la madre di mio padre, una delle poche donne laureate in Medicina alla fine dell’Ottocento, con caparbiet  era riuscita a specializzarsi e a esercitare la professione di ginecologa in Calabria. Mentre la vena artistica probabilmente proveniva dal fratello della mia bisnonna, Alessandro Lazzerini, scultore che aveva realizzato il monumento a Petrarca nella citt  di Arezzo.
Forse mia madre mi ha sempre un po’ più incoraggiata nelle mie scelte. Niente poteva, però, contro i veti paterni. Per lui non dovevo assolutamente lasciare Napoli. E quando Notte mi comunicò che la commissione del bando di concorso mi aveva dato l’ok per uno stage da frequentare in Francia con un grande artista come Oskar Kokoschka, disse no. Dovetti rinunciare anche dopo. Avrei voluto andare a Parigi dove si era trasferito uno miei amici dell’Accademia, Guido Biasi, con cui avrei potuto dividere l’appartamento. Non fu possibile. Pur di non farmi allontanare, mio padre si prodigò molto nell’allestirmi lo studio di ceramica con forno in via Bernini al Vomero. In quegli anni conobbi mio marito Sandro che nello studio era arrivato con un amico cui avevo chiesto la cortesia di spegnere il fornolasciato acceso con le opere in cottura, per non tornare troppo tardi a casa. Sandro mi scarabocchiò un disegno. Ne fui molto seccata e il mio amico me lo presentò.
Poi il matrimonio, i figli, due negozi di ottica che appartenevano alla mia famiglia. Finalmente nel ’79, quando i ragazzi erano ormai cresciuti, sono tornata a esporre alla galleria Ganzerli e, poco dopo, con un’antologica a Castel dell’Ovo.
Non ho rimpianti, rifarei tutto. L’arte me la sono portata sempre dentro, nel cammino della mia mente e l’ho ritrovata Gi  da prima, infatti, un lembo di stoffa o gli occhi di vetro utilizzati nel negozio di ottica li vedevo come opere realizzate.
Dal dopoguerra a oggi son passate generazioni ed è cambiato il mondo. Si è stravolto tutto. Prima esisteva il concetto della collettivit , anche nel’ambiente artistico. Forse perch eravamo di meno. Adesso è una corsa a ostacoli. E si corre a tutti i costi e in ogni modo, pur di ottenere qualcosa.

In foto, il Golgota di Anna Maria Bova

*Napoletana, Anna Maria Bova si dedica da anni a una attenta ricerca di tecniche e soluzioni che rendono le sue opere interessanti e innovative. Utilizza, oltre ai colori e ai pennelli, lenti ottiche e lettere tipografiche trovate nei vecchi depositi delle aziende di famiglia. Ha esposto pure in molte collettive, tra le altre, anche al PAN di Napoli. Nella Chiesa di San Gennaro, due suoi lavori il Golgota e la Crocifissione.
La stele di Rosetta è l’opera selezionata da Vittorio Sgarbi per il Padiglione Italia della 54 ima Biennale di Venezia- lo Stato dell’arte in Campania, presentata all’ex tabacchificio Centola di Pontecagnano (30 settembre 2011- 10 gennaio 2012).

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