Ti aspetto, sai? Seduta a un tavolo apparecchiato per due nel ristorante di Gerbaudo a un passo dal mare.
Al cameriere sui diciotto, venutomi incontro sull’uscio, con uno straccetto appoggiato sul braccio, dico di chiamarmi Chiara Martinelli e di aver prenotato un tavolo per due.
Lui tira fuori un blocchetto e controlla. Lo seguo.
Gerbaudo non si vede. Sar  in cucina.
Il cameriere è uno nuovo, non l’ho mai visto. A maggio capita che Gerbaudo rimpolpi le file del personale. Una volta al tavolo, ringrazio il cameriere. Lui si allontana, preso com’è dalle voglie dei clienti e dalle loro richieste. Sfilo la giacca ocra e la appoggio dietro la mia sedia. Fuori la serata è mite, primo vero accenno di primavera, e c’è un cielo puntellato di stelle, quasi blu, a fare da tetto al mare, imperturbabile appena qualche metro più in l . Scruto le cose, le persone e senza volerlo tamburello le dita sulla tovaglia bianca. I bicchieri, uno per l’acqua, l’altro per il vino, stanno vuoti, mentre di fronte qualcuno mesce un Aglianico del Taburno rosato nel calice della sua donna. Sbircio sull’orologio le 20.30 in punto. Giungerai col tuo sorriso luminoso. Gerbaudo, riemerso dal fondo delle sue pentole, si accosta all’uscio della cucina. Mi riconosce e viene a salutarmi.
«Signorina bella, come mai da queste parti?»
Accenno un sorriso vacuo e abbasso gli occhi per una punta d’imbarazzo. Manco da questo posto da un anno e l’ultima volta ci sono stata da sola.
Era inverno e in giro non c’era un’anima. Gerbaudo aveva aperto quasi per caso. Notai le luci accese dalla battigia umida e salii verso la strada. Entrai più per ritrovare un amico che per mangiare, in verit .
«Di questi tempi meglio stare aperti, non si sa mai che a qualcuno venga voglia di una cenetta ad un passo dalla spiaggia» sfotteva.
Mi accomodai. Ero l’unica cliente. Cucinò solo per me.
«Il solito?» Dopo quindici minuti compariva, in un piatto regale, una porzione di ravioli fumanti al ragù. Mangiai e bevvi di gusto.
Gerbaudo vegliava su di me come un padre e io scommisi che entro la fine della cena mi avrebbe chiesto di te.
«Non per farmi gli affari tuoi, ma che ci fai qui tutta sola?»
Vinsi la scommessa.
«Abbiamo litigato» risposi solo.
Poi afferrai il bicchiere e mandai giù un sorso di Bardolino.
Lui cambiò espressione. Doveva essersi dispiaciuto. Ci aveva conosciuti insieme e insieme era sempre stato abituato a vederci.
«Sono cose che capitano, Gerbaudo. Vedrai che risolveremo» lo tranquillizzai.
Mandai giù un altro sorso. E a me? Chi mi avrebbe pensato a me?
Gerbaudo si congedò un attimo. Ebbi anche la sensazione che si sentisse in colpa di mollarmi da sola a naufragare nel Bardolino. «Un attimo e sono da te» prometteva. Che tornasse o meno, per me faceva lo stesso. Ero livida anche se iniziava a montare la tristezza.
Per tenermi occupata e confondere i pensieri, grufolavo nella borsa. Pescai il cellulare niente, non avevi inviato nessun messaggio. Dovevi sentirti ben difeso.
Ti figuravo in macchina, con lo stereo a tutto volume, diretto da uno dei tuo amici.
«Lasciala stare, te l’ho detto mille volte che è pazza da legare» ti avrebbe detto il saputello porgendoti una Tennent’s.
Tu avresti sorseggiato volentieri, ma senza commentare. Più avanti, verso mezzanotte, avresti rovistato nelle tasche della giacca blu che indossavi ancora dal pomeriggio e avresti gettato un’occhiata sbieca al monitor del cellulare con la sicumera di non cedere ad un alcun tipo di contatto, vista la mia ostinazione a non chiederti scusa.
Nel flash sogghignai di rabbia. Che stronzo, pensai.
Avevamo litigato per la mia gelosia.
«Che ci facevi al ristorante con quella bionda?» ti chiesi non appena rientrasti a casa.
Ti avevo visto per caso, all’ora di pranzo mentre rientravo da lavoro.
Mi ridesti in faccia.
«Sei matta? Non pensare male come al solito. una mia collega».
Non aggiungesti altro. Quel sei matta ti aveva gi  tradito.
Io ti guardavo disgustata. Era solo per decenza, o forse per orgoglio, che non ero entrata nel locale.
Soffrivo. Tu invece ti sentivi in colpa.
«I luoghi di lavoro sono trappole. L’ho sempre detto» commentai diretta in camera da letto non appena distolsi lo sguardo da te e dalla tua bellezza.
Non mi seguisti subito. Giungesti avvertito dal fracasso di ante e cassetti spalancati. Stavo preparando una valigia.
«Ma che fai?»
«Non lo vedi? Parto», e intanto continuavo a infilare nella borsa abiti e libri a casaccio.
Mi sbarrasti la strada.
«Dai, ti spiego» dicesti.
«Mi spieghi? No, guarda, levati e lasciami passare»
Obbedisti. Ti lasciavo nella stanza a friggere nell’incredulit .
Guidai verso la casa al mare. La nostra casa al mare. Quella che avevamo comprato a discapito di un’abitazione più spaziosa. «La casa serve per appenderci            6                 è« «    oè  á«sptBLlibrineBlinkBBd dBd d«BpGBB«7Be«BEBBèMODEBHlèNOèBB» OJBe
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Adesso ti aspetto a cento chilometri da casa, in mezzo alla notte accesa di lampare, di saliscendi, di bar dismessi in attesa della bella stagione, e sei gi  in ritardo.
Oggi mi hai telefonato, rompendo il silenzio di un anno.
Io, invece, non ho mai ceduto. La certezza che mi avessi fatto del male ha rinsaldato, nei giorni, un rifugio intimo di orgoglio e di rabbia, e mi ci sono rinchiusa, confondendo il bisogno di udire la tua voce, almeno una volta, prima di scrivere la parola fine. In questo bastimento di illusioni e di lacrime solitarie ho mangiato, ho bevuto, ho lavorato, ho incontrato altri uomini e con uno ci sono andata pure a letto. Sono rimasta sempre nella casa al mare, che ora è solo la casa, la mia casa.
«Ho bisogno di vederti. Vediamoci alla casa al mare, anzi no, da Gerbaudo alle 20.30» hai detto d’un fiato.
Credi che a cento chilometri dalla citt  il dialogo si alleggerisca e che l’atmosfera rappattumi con poco gli occhi, le mani, le bocche. Da parte mia non ce l’ho fatta a negarmi.
Gerbaudo va e viene. In quest’anno mi ha vista in giro, ma neanche una volta mi ha chiesto come mai non entrassi più nel suo ristorante. Aveva capito subito, gi  quella notte d’inverno, che non sarei tornata se non con te.
Forse ha capito che ti attendo. Sciorina per l’occasione un menù di mare «Spaghetti alle vongole? un dentice fresco guarnito con le verdurine?»
So che ami mangiare pesce, cos ordino la spaghettata. Da bere una Falanghina dell’Irpinia.
Riguardo l’orologio. Sei in ritardo.
Il cameriere stappa la Falanghina e mi riempie il calice.
Il vino caracolla nell’ampolla e io penso al tuo passo fermo che giungeva come il sole tra gli interstizi dei palazzi nel chiaroscuro di un post temporale.
passata un’ora e mi rassegno all’idea che non giungerai.
Intorno ho visto avvicendarsi le persone. Stasera hanno optato tutti per il pesce.
Gerbaudo mi chiede se può servire gli spaghetti. Gli dico di s, ma solo una porzione.
Fa un cenno con la testa.
Mangio. Arrotolo la pasta con la forchetta.
Gerbaudo mi scruta da lontano. Con gli occhi cerca di esprimermi il suo dispiacere.
Alzo il bicchiere e lo protendo verso di lui come a dirgli pensa alla salute, Gerbaudo.
Consumo la cena in uno sconforto indicibile. La fame scema boccone dopo boccone, anche se resta la voglia di te, esplosami nella pancia tutta insieme, in un giorno all’improvviso. Colpa della tua voce nasale e calda che ha scoperchiato un contenitore di emotivit  compresse a stento nella foschia della memoria.
Gerbaudo mi offre una fetta di delizia al limone.
«Offre la casa» e sorride.
Lo ringrazio. Non posso rifiutare il mio dolce preferito.
Dopo il dolce è ora di andare. Ti ho aspettato oltre un’ora, invano.
Stupida, penso, che soffri a fare? Tutto sommato Domani non sar  cos diverso da ieri.
Mi avvio verso casa. Dal viale adiacente l’abitazione viene giù una macchina. Cant’take my eyes off you suona a tutto volume e le ruote sollevano un polverone.
La macchina sbuca sullo spiazzo, vicino alla fontana con i due delfini, nonostante il divieto di accesso alle auto. Ci metto poco a realizzare che è la tua Fiat Uno Tipino verde.
Ti fermi e scendi quasi avessi visto un fantasma. Hai la barba lunga e gli occhi arrossati.
«Ho fatto tardi. Un’emergenza e non sono riuscito a svincolarmi. Ma abbiamo tutto il week end per parlare e recuperare».
Non ti dico che io qui ci abito e che per me il tempo non detta leggi.
Ti guardo.
Muovi i passi verso la porta, dandoti le spalle, e giro la chiave nella serratura.
«Dai, entra. Credo che sarai stanco»
Cos entri, e mentre ti guardi intorno rinfrancato, io tendo lo sguardo al mare, oltre la piazza e penso che non importa se ho cenato da sola o se domani riprenderemo a discutere. Conta che io e te, in questa notte fuori citt , faremo di nuovo l’amore.

*L’autrice

Laureata in giurisprudenza, giornalista pubblicista. Collabora alla pagina culturale Scritture e Pensieri del Corriere Nazionale, redattrice per i web magazine Caffè news e Web house. Tra le sue collaborazioni, anche quella con la casa editrice Opposto.net, con cui ha pubblicato "Di Passaggio”.

Per saperne di più

www.marinabisognoblogger.eu

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