La metamorfosi in scena al Mercadante. Fino al 13 marzo l’adattamento teatrale del capolavoro di Kafka a cura di Giorgio Barberio Corsetti, che è qui regista e produttore, in quanto direttore del Teatro di Roma.
Uno spettacolo in lavorazione da due anni, finalmente in scena al Nazionale di Napoli. E qui il finalmente è d’obbligo. 
Perché ci sono opere che si leggono distrattamente, nella vita, etichettate come giovanili, ma che presentate in forme nuove creano varchi non palesati nella percezione di se stessi con il mondo.
La metamorfosi appartiene a questa categoria di prodotto culturale.Nata in seno ad un’epoca in guerra con l’opera dei padri, la novella dell’autore ceco, è critica verso quell’ ancient regime perdurante nonostante fosse stato dichiarato morto da più di un secolo.
Dal canto suo lo spettacolo stesso ci viene proposto in un’epoca strana, costretta prima alle tempistiche dell’ignavia pandemica, esposta poi al respiro gelido di una guerra che si annuncia globale, con tutti gli annessi e connessi, e gli effetti sullo stato d’animo delle persone._
La sala del nazionale non fa in tempo a scrollarsi di dosso la chiusura obbligatoria che si ritrova squarciata dalla sirena antiaerea in apertura di spettacolo, a ricordare che l’arte è soprattutto diga alla barbarie, resistenza culturale alle atrocità d’ogni tempo ed ogni luogo. 
In un’intervista di due anni fa lo stesso Corsetti riconosce quanto lo avesse ispirato una performance che il compositore Shostakovich portò a compimento durante l’assedio di Stalingrado del 1941. 
Perché La metamorfosi viene scelta soprattutto per due motivi:
claustrofobica, ricorda la costrizione in casa di milioni di persone nel pieno della pandemia; repellente, risponde alla necessità di assenza di contatto tra gli attori, che nella messa in scena viene evidenziata da una serie di situazioni al limite della gag comica.
Chiusura e ribrezzo, per una rappresentazione che nel profondo invita al nuovo, all’apertura e alla volontà di contatto.
La trasformazione, l’aberrazione, è il fulcro dell’intera vicenda, ed è magnificamente interpretata da un Michelangelo Dalisi elettrizzante, artefice di una pantomima entomologica che permette di partecipare all’angoscia clandestina propria sia della novella che dello spettacolo. L’attore personifica la metamorfosi, il cambiamento di stato, incarnato nelle movenze disumane di una coscienza mantenuta intatta, a tratti angosciata, a  tratti divertita, curiosa del suo nuovo modo di essere.
La metamorfosi non è solo cambiamento. Qui è soprattutto cesura netta tra due mondi, due visioni, due modi di approcciare la vita. Anzi, è vera e propria contrapposizione tra il mondo e l’immondo. 
E questo lo spettacolo lo mette in chiaro. Ognuno degli attori è a suo agio nel proprio ruolo, in un bilanciamento di scena acuito dalla danza della scenografia mobile, che travolge tutto.
Le voci si inseguono nel definire una sola vicenda che Kafka affida al solo punto di vista di Gregor Samsa, ma Corsetti arricchisce delle voci di ogni figura in gioco. Una scelta che getta luce sui pensieri, sulla visione di ogni partecipante. Così la doppiezza del padre (Roberto Rustioni) la corruttibile carità della madre (Gea Martire) la tenerezza inferocita della sorella (Anna Chiara Colombo) la riluttanza, l’insensibilità dei personaggi secondari, prosperano attraverso toni diversi di altrettanti punti di vista. 
Irresistibile mobilità che travolge tutto, che afferma con violenza la netta separazione tra i due percorsi una volta comuni.
La sceneggiatura ha il pregio di rendere evidente l’allegria che alberga nell’ironia sotterranea, linfa vitale dell’opera. Ironia beffarda che pure appartiene al testo originale, ma che nella riscrittura si amplifica, con il moltiplicarsi degli io narranti, in un carosello colorito.
L’angoscia viene sottolineata da un ambiente sonoro meccanico, freddo, pungente. Il dramma è completo e completamente si consuma.
La metamorfosi  appartiene a quell’universo di tragedie moderne umanamente sopportabili, pungolati più che propriamente pungenti, all’erta più che in agitazione. 
Patrimonio culturale complesso che difficilmente invecchia perché aderente a realtà cariche di compromessi manifesti, attuale più che mai oggi. 
Lo spettacolo ha il pregio di riportare in auge una vicenda che sa di eroismo, di presa di coscienza, di timore reverenziale, di bellezza celata e brutture evidenti.
Una vicenda estremamente umana nella necessità di appiattirsi, di svanire e talvolta rifiorire. 

PS.
Chi scrive non può non pensare al conflitto che sta bruciando nell’est Europa e al dramma umano che vi si consuma.
La sirena sentita in teatro è solo una simulazione, ma ci lega in filo diretto al dolore per il destino di città come Kiev e Odessa (così prossima a Napoli, se è vero che qui fu scritto O Sole Mio).
Ci uniamo con il pensiero al dolore di milioni di persone coinvolte nella barbara Guerra che divora l’Ucraina.
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Per saperne di più
https://teatrodinapoli.it/

In copertina, una scena dello spettacolo fotografata da Claudia Pajesksy

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