Location perfetta quella del Blu di Prussia di Napoli in via Filangieri per accogliere gli scatti di Guy Bourdin, in mostra fino al 29 gennaio 2022. Il pavimento scuro e lucidissimo fa da specchio alle fotografie costruite e sature di colore quanto basta per catapultarci in una dimensione patinata e da set cinematografico, tipica di Bourdin.


Guy conosce Man Ray nel 1950 che lo apprezza e lo ammira, spingendolo così nell’ambiente delle gallerie e delle prime esposizioni personali.
I suoi primi servizi di moda risalgono al 1955 quando inizia a lavorare per Vogue, sodalizio lungo che durerà fino al 1987 e che gli permetterà di seguire diverse campagne pubblicitarie, marchiandole con il proprio stile.
A ben guardare, i suoi scatti non sono soltanto ciò che appaiono. Si nota in alcuni una profonda malinconia, qualche riferimento agli spazi desolati Hopperiani e vaghe parentesi nella natura, quasi come fossero pause dalla stanchezza dello stress urbano.
La figura centrale della donna gioca tra la “material girl” e la “natural woman”, tra la malizia e la voluta solitudine, tra la sfacciata provocazione e il velato senso ironico, tra l’assurdo e il sublime.


Un trauma profondo nella sua vita personale fu quello del suicidio della moglie nel 1971, dopo 10 anni di matrimonio e un figlio.
Ma già la sua infanzia era stata colpita da un duro accadimento, l’abbandono della madre quando aveva soltanto un anno. Inevitabilmente il suo sguardo al mondo femminile viene dunque segnato nel corso del tempo.
Da un lato, il contesto della moda di superlusso, di cui comunque mal sopportava l’aspetto mondano, lo porta ad inquadrare da varie angolazioni il capitalismo, la trasgressione sessuale e gli eccessi consumistici, con pose teatrali e composizioni ben strutturate, con il pensiero sempre rivolto allo sviluppo grafico che poi doveva avere l’immagine (manifesti, copertine etc). Dall’altro, c’è la visione più romantica, se si vuole, della moda come arte in cui il surrealismo è tra le influenze principali. La donna appare o meglio non-appare se non con alcune bellissime parti del corpo, come le lunghe gambe in splendide calze oppure è immersa in una dimensione onirica fatta di giochi di luci e ombre.


Per un periodo che va dal 1977 al 1980, la sua musa ispiratrice fu la modella Nicolle Meyer, conosciuta appena diciassettenne e che lo ricorda molto affabile anche se molto esigente. “Il mondo di Guy” dice parlando dello studio di posa visto per la prima volta, simile a una grande caverna senza finestre, con quadri in giro e ventilatori giganti. Della musica a tutto volume durante gli shooting e del via vai di amici che c’era giorno e notte. “Il mondo dei sogni” dice riferendosi invece al contesto di quegli anni visto dalla sua giovanissima età e dall’obiettivo di Bourdin, che l’ha presa dal nulla e lanciata sui suoi set completamente non-convenzionali, intrisi dai decibel della discomusic, abitati da persone e personaggi fuori dal comune, spesso luogo di campagne-scandalo comunque mai censurate.
Guy Bourdin muore prematuramente nel 1991 dopo aver collaborato con i nomi più famosi e prestigiosi della moda mondiale ma è comunque ancora fin troppo sconosciuto rispetto ai più sentiti Helmut Newton o Richard Avedon. Se la cosa sembra strana, in realtà è da ricondurre a un preciso atteggiamento del fotografo che non ha mai più esposto una volta avviata la sua carriera, non rilasciava interviste, non amava esporsi in pubblico, non partecipava alla vita mondana e concedeva la pubblicazione delle foto soltanto alle riviste e ai periodici con cui collaborava.
Così facendo, quindi, la circolazione del suo nome al di fuori degli ambienti di nicchia o noti agli addetti ai lavori, è stata molto limitata nel tempo.


Resta però il segno del superamento del limite tra fotografia commerciale e fotografia artistica, che fu la base di ogni sua ricerca. Molti avranno qualche dubbio sul gusto di alcune composizioni troppo pensate o non concorderanno con il filone poco spontaneo ma sicuramente Guy è testimonianza che quel tipo di arte (considerata “minore”) anche se legata al lavoro e al profitto può comunque sfuggire al mero ruolo promozionale e comunicare una storia e un vissuto proprio come fanno le tele, attraverso le forme e i colori.
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