Da Ivana Margarese, ideatrice e fondatrice del portale Morelvoci dallisola, riceviamo e volentieri pubblichiamo di seguito l’intervista con la filosofa Adriana Cavarero.
Ivana Margarese è laureata in filosofia, insegna al Liceo delle Scienze Umane. Ha collaborato con diverse riviste in Spagna e in Italia.

A cura di IVAN A MARGARESE

Qui sopra, Adriana Cavarero. In alto, foto di Gordon Johnson da Pixabay 


Incomincio con una domanda sulla filosofia e sulla sua potenzialità “sorgiva”, prendendo a prestito questo aggettivo dal suo ultimo saggio Democrazia sorgiva (2019).
CAVARERO: Come dice il titolo stesso del libro, la qualità ‘sorgiva’ è da me applicata alla politica e, più precisamente, alla democrazia partecipativa come esperienza concreta dell’agire insieme in uno spazio condiviso. Se abbiamo partecipato a manifestazioni pacifiche, o se abbiamo condiviso con un gruppo l’entusiasmo di un’iniziativa, possiamo capire facilmente in che cosa consista l’elemento sorgivo, generativo, promettente di questo tipo di interazione e, soprattutto, della sua carica emozionale. Ma siamo appunto nell’ambito dell’azione, ovvero della politica intesa come agire di concerto di una pluralità di ‘attori’ uguali e distinti (sto citando Hannah Arendt, ovviamente). La filosofia, in quanto esercizio del pensare, riflessione, spesso solitaria, sembra invece molto lontana dall’emozione sorgiva dell’azione plurale. Per renderla sorgiva, emozionante, empatica, dobbiamo dunque intendere diversamente la filosofia stessa, concependola come dialogo, pratica di confronto, non solo decostruzione critica ma sforzo costruttivo dell’immaginazione e del cambiamento. Certo, si tratta sempre di concetti! Ma credo, per esempio, che l’aver messo al centro del mio lavoro le categorie di nascita, di differenza sessuale, di relazione e di inclinazione, così come l’aver condiviso e discusso con altre e con altri le mie riflessioni, mi abbia consentito di percepire la potenzialità creativa del filosofare. E’ anche questione di liberarsi dalla postura di distanziamento intellettuale e di disincanto razionalizzante, tipici del filosofo, per osare invece di spingere la forza immaginativa del pensiero sino ai limiti dell’utopia. Mary Wollstonecraft non si limitava a criticare la società del suo tempo ma, argomentando razionalmente le sue proposte, immaginava una società giusta che il suo tempo riteneva impossibile. Credo che lo slogan del ’68 “pensate l’impossibile” abbia a che fare con questo atteggiamento di sfida per il cambiamento del presente (Wollstonecraft parlava di “riformare il mondo”!) che definirei, a buon diritto, rivoluzionario.
In Nonostante Platone (1990) lei racconta e decostruisce alcune figure femminili della filosofia antica e del mito: Penelope, Demetra, Diotima, la servetta tracia di Talete. Spesso al liceo nelle mie lezioni su Platone condivido con gli studenti la sua lettura di Diotima, per far conoscere sia questa straordinaria maestra di pensiero sia l’importanza che ha l’eros nella conoscenza per la filosofia da Platone alla ragione poetica di Maria Zambrano. Potrebbe raccontarmi da cosa è nato questo saggio?
 CAVARERO: Il libro è nato dalla mia passione per la filosofia antica – ero e sono, per mestiere, una studiosa di Platone – e, allo stesso tempo, da un sentimento di estraneità, in quanto donna, rispetto ai testi di forte marchio patriarcale che leggevo e che facevano coincidere il paradigma maschile col soggetto universale. Se sei di sesso femminile, la tradizione filosofica non parla di te, ti ignora oppure, con tutta coerenza, ti relega a una posizione di essere umano inferiore, a un ruolo servile. Tutto questo ormai lo sappiamo e abbiamo scritto migliaia di libri su cotesta incresciosa faccenda. Invece di unirmi al coro della critica al fallologocentrismo – che è sacrosanta ma un po’ ripetitiva – ho così preferito ‘rubare’ al testo patriarcale delle figure femminili per ri-situarle in un contesto di significazione che desse loro una valenza diversa, positiva e generativa. Che la mia attenzione tenda a concentrarsi su figure mitiche non è un caso. L’ambito del mito, come quello dell’epica omerica, ha una fluidità e una polivalenza che non ‘chiude’ ancora il discorso in un sistema, in una gabbia razionalizzante. Detto altrimenti, il mito è strutturalmente aperto e duttile rispetto a nuove narrazioni e riscritture. Del resto, lo stesso macrotesto antico è punteggiato di inquietudini ed enigmi. Come mai Penelope è l’unica a non riconoscere Ulisse? Come mai Platone mette in bocca a una donna, la sacerdotessa Diotima, la sua concezione erotica del filosofare? Mi è parso che il testo greco mi invitasse a rubare queste figure per pensarle diversamente. Posso assicurare che, sul piano, anche empirico, della scrittura filosofica, il furto è divertente.
Tu che mi guardi, tu che mi racconti: filosofia della narrazione (1997) è un testo decisivo per comprendere il legame tra identità e narrazione. Studi recenti si soffermano sul ruolo fondamentale del corpo nello sviluppo del comportamento narrativo e sulla letteratura come dispositivo di contenimento dell’ansia. Mi piacerebbe un suo parere su questo.
CAVARERO: Non mi sento di dare pareri su ambiti, come quelli della biologia e della psicologia, che non conosco bene. Sono curiosa, se mai, degli studi recenti sui cosiddetti ‘neuroni a specchio’, che io leggo nei termini di una conferma della soggettività relazionale che mi sta tanto a cuore, in opposizione al paradigma dell’individuo egoista, verticale, autocentrato, che campeggia nella cultura moderna e contemporanea. Certo, la dimensione della corporeità è fondamentale nella mia ricerca filosofica, così come lo è in pressoché tutta la tradizione femminista. Quanto alla narrazione, più che come un dispositivo di contenimento dell’ansia, tendo a pensarla come una forma di piacere, di emozione mentale, sia per chi narra che per chi ascolta. Credo che gli umani siano animali narrativi e che la forma più piacevole del loro essere dotati di parola (e di memoria!) sia raccontare storie, intrecciare trame di vite singolari che trovano il loro significato nell’esser raccontate come una storia. Anche se mi occupo di filosofia, prediligo di gran lunga la letteratura e, soprattutto, le narrazioni biografiche. Questa mia predilezione mi costringe spesso a leggere in lingua inglese perché trovo che gli scrittori e le scrittrici italiane abbiano una forte propensione per la prosa poetica e trascurino invece la narrazione biografica e addirittura sdegnino la trama. Quindi dico loro: grazie per la bellezza della lingua, grazie per il volo dell’immaginazione e l’architettura poetica, anche sonora, della narrazione, ma, per favore, datemi storie!
In Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme (2007) fa riferimento alle figure di Medusa e Medea come archetipi dell’orrore.
CAVARERO: Anche in questo caso si tratta di figure ‘rubate’ al mito antico. Medusa, con i suoi capelli serpentini, allude alla radice etimologica stessa dell’orrore, vocabolo che, tanto in greco quanto in latino, richiama il fenomeno del rizzarsi dei peli (si capisce bene dal termine italiano ‘orripilante’). A ciò si aggiunga che Medusa è una testa mozzata, il suo corpo è smembrato, ossia rappresenta l’orrore come reazione al crimine ontologico della disfigurazione violenta dell’umano. Uno dei punti su cui ho costruito la categoria di orrorismo è la distinzione fra orrore e terrore. Mentre la fisica del terrore è legata alla fuga per paura della morte violenta, la fisica dell’orrore ha invece a che fare con una repulsione che immobilizza e agghiaccia. Siamo appunto di fronte a un crimine perpetrato sull’umano, a una disumanizzazione dell’umano, in quanto essere costitutivamente vulnerabile, che si esprime nella forma di una violenza unilaterale sull’inerme. Medea, che uccide i suoi figli, è in questo senso emblematica, nonché profondamente perturbante perché si tratta di una madre, ossia di una figura dalla quale, come la tradizione, la storia e il senso comune non si stancano di ribadire, ci aspettiamo la cura, non la violenza. In quanto madre infanticida, Medea mostra che un certo limite del crimine ontologico è stato toccato in profondità. Il suo gesto ci espone a una delle manifestazioni più estreme dell’orrore. Non del terrore, ma proprio dell’orrore, che agghiaccia, suscita repulsione e vergogna.
Il pensiero di Julia Kristeva e Hélène Cixous ha sottolineato la valenza della voce come spazio antecedente al logos, inteso come discorso formalizzato, e come espressione di ritmo e piacere per la sonorità. Un ruolo fondamentale è da attribuire secondo Kristeva al repertorio dei gesti vocali (il pianto, la risata, il grido, l’urlo, il bisbiglio, il richiamo) denominati chora, termine preso in prestito dal Timeo, dove Platone descrive l’universo come opera di un demiurgo che plasma una materia informe sul modello delle idee eterne. Kristeva elabora il concetto di chora semiotica, un luogo di indistinzioni che è innanzitutto spazio di relazione tra madre e bambino in cui i soggetti non sono ancora ben differenziati e dove il bambino può scambiare comunicazione e affetto senza comunicare qualcosa sul piano semantico. Come potremmo spiegare la chora platonica del Timeo definita dal filosofo “ madre” e “ matrice”?
CAVARERO: Anche in questo caso lei mi provoca con stilemi psicanalitici che non sono nelle mie corde. (C’è già una divertente aneddotica, soprattutto nel dibattito intellettuale di lingua inglese – anche ma non solo femminista – che frequento, sul fatto che ignoro intenzionalmente e pervicacemente la psicanalisi e il suo fortunato idioletto. Scrivo su Edipo ma non parlo di Freud, non ho mai citato ‘la fase dello specchio’ di Lacan. Quindi, vede che mi sta provocando o, meglio, mi ha subito stanata). La chora del Timeo è comunque una categoria molto interessante, che Kristeva ha problematizzato acutamente, nonostante la sua predilezione per la scena psicanalitica. Platone sta appunto descrivendo la nascita dell’universo e dice che c’è un padre (le idee, le forme), un figlio (l’universo sensibile nel quale abitiamo, e che è fatto ad immagine del padre), e c’è un terzo elemento, informe, la chora, nel quale il padre imprime, ‘stampa’ le sue forme affinché l’universo sensibile, e perciò materiale, si generi. La chora, che in greco significa più o meno ‘spazio’ o ‘luogo’, è perciò sostanzialmente materia informe; ma il punto cruciale, come Platone stesso confessa, è che essa, essendo informe, non può essere detta, nominata, concettualizzata dal discorso, dal logos, in quanto il logos stesso è costituto da idee, forme. In altri termini, pur dicendola e dandogli il nome di chora, Platone dichiara la chora indicibile e inconcettualizzabile, qualcosa che trascende il discorso, sfugge alle maglie del logos ed è da esso indominabile. Per di più, ragionando per via metaforica, la chiama ‘madre’, ‘ricettacolo’ e ‘matrice’. Come anche Luce Irigaray ha argomentato, siamo dunque di fronte a un femminile di cui il registro discorsivo postula la necessaria esistenza e insieme riconosce l’irriducibilità. Detto altrimenti, questo femminile irriducibile, indicibile, inaddomesticabile, è ben diverso dal femminile addomesticato che coincide con il ruolo subalterno assegnato alle donne nella cosiddetta economia binaria. Io non insisterei dunque sulla chora come luogo di indistinzione fra madre e bambino, e non scomoderei la psicanalisi; la chora è piuttosto la potenza vocale, corporea, ritmica, vitale, emozionante che la dimensione semantica del dire non contiene. E’ ciò che sostiene e nutre e tuttavia eccede la lingua. Ciò in cui la lingua si genera e di cui tenta di esprimere la potenza generante, sfiorandola appena – alla lettera, e-vocandola – nella poesia. La Musa invocata da Omero non solo narra ma, appunto canta. Nel mio libro A più voci ho cercato di rifletter su questo tema e su come la trattazione platonica della chora sia una risorsa per pensare il femminile, sganciandolo dal modello patriarcale dell’economia binaria. Ripeto: il testo antico è un testo che può e deve essere saccheggiato.


Hannah Arendt ha messo l’accento sulla responsabilità del pensiero e sul valore della relazione. Vorrei farle una domanda su quello che si potrebbe chiamare il talento dell’amicizia in Hannah Arendt che la rendeva capace di accostarsi e comprendere, al contempo con forza e delicatezza, anche personalità apparentemente distanti da lei come Walter Benjamin o mantenere, nonostante tutto, un rapporto di scambio con Martin Heidegger.
CAVARERO: La grande amica di Arendt è Mary McCarthy, come si evince dal bellissimo e densissimo epistolario fra le due. Credo che con Heidegger, dopo l’amore giovanile, abbia voluto ricostruire un rapporto che però, alla fine, l’ha delusa. Più genuino e profondo è il suo rapporto con Jaspers: anche in questo caso l’epistolario è estremamente interessante, sia sul piano filosofico che su quello biografico. Arendt ha comunque riflettuto e scritto sull’amicizia, tema del resto classico, già indagato da Aristotele, che ben si inscrive nella visione arentiana della condizione umana come pluralità di esseri unici e della relazionalità che, in varie forme, esprime questa condizione. In effetti, leggendo le sue lettere e soprattutto la bella biografia sulla Nostra scritta da Elizabeth Young-Breuhl, si intuisce che Arendt era molto socievole, cercava la compagnia del prossimo, amava la discussione e coltivava l’amicizia.  Diciamolo così: era molto curiosa del mondo umano, che è per lei un mondo di relazioni, mentre era abbastanza indifferente alla natura. Ho conosciuto persone che l’hanno conosciuta e che la descrivono come una donna straordinaria, vivace, dotata di una forte personalità e di grande coraggio, non solo intellettuale. Sappiamo che, in seguito alla pubblicazione del libro La banalità del male sul processo ad Eichmann, perse molti amici ebrei che le divennero furiosamente ostili. Questa è forse la sua cifra più autentica: la responsabilità del pensiero ‘senza balaustre’, la scelta di dire e cercare di comprendere le cose come stanno, anche se questa operazione va contro le opinioni del tuo ambiente e ti crea inimicizie. Non era un tipo da compromessi: la sua vita è una testimonianza di fedeltà alla responsabilità del pensare.
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