La politica italiana, dal centro alla periferia, passando per le istituzioni intermedie, soffre di un gravissimo male che, di fatto, la rende debole e incapace di affrontare i gravi problemi che con velocit  crescente affliggono l’intero corpo della Nazione. I grandi partiti nazionali e le loro diramazioni periferiche non riescono a contenere al loro interno le naturali divergenze, non sono in grado di trasformare le contraddizioni, i punti di vista e gli interessi contrastanti in una dialettica interna, capace di vivacizzare il dibattito e di dare nuova spinta all’organismo in cui si manifestano. Ogni divergenza diventa motivo di rottura pubblica, di contrasto insanabile, di cancellazione delle mediazioni unificanti. Succede al partito che appena due anni fa aveva trionfato alle elezioni nazionali e aveva confermato il successo in quelle regionali e locali. E succede al partito più grande dell’opposizione, che, nonostante le difficolt  degli avversari, sembra scivolare in termini di consensi lungo un piano inclinato.
LA LEZIONE DI SARTRE
Come mai si verifica questa sorta di implosione e di rottura all’interno di due organismi cos diversi per nascita, storia, esperienza e leader-ship? Qual è la tabe che consuma dall’interno la politica italiana? Chi scrive non è un politologo n uno scienziato della politica n tantomeno un sociologo. uno storico della filosofia, che tenta di chiarire a se stesso, con gli strumenti del proprio lavoro quotidiano, qualche aspetto di una cos nefasta situazione. E tenta di farlo usando analisi messe a punto da un filosofo francese, Jean-Paul Sartre, in un volume scritto alla fine degli anni Cinquanta del Novecento il secondo tomo della Critica della ragione dialettica, che reca come sottotitolo L’intelligibilit  della storia.
I RAPPORTI DI FORZA
In un passaggio assai interessante, Sartre analizza le ragioni che generano il conflitto e, conseguentemente, la scissione all’interno di un gruppo unito da un patto comune. Il cemento che tiene strette in unit  le varie componenti è il progetto inizialmente condiviso, il fine storico da realizzare insieme. Proprio in nome di questo fine comune e di questa unit  si manifestano le prime contrapposizioni. “Ciascuno dei sottogruppi scrive Sartre si oppone all’altro in nome di quella unit  che egli pretende di rappresentare da solo ognuno presenta l’altro come criminale a priori, perch con le sue pretese, rompe l’unit “. Seppure rappresentati da singoli leader, i motivi della contrapposizione ineriscono ai compiti e ai poteri esercitati dai gruppi contrapposti all’interno del gioco della politica. Certo, i caratteri personali entrano in gioco, ma non rappresentano gli elementi scatenanti il conflitto. La distensione o la lotta si determinano attraverso le funzioni svolte e le decisioni assunte giorno dopo giorno. Sono le trasformazioni dovute alle scelte quotidiane a modificare il rapporto iniziale. Sono queste che lentamente modificano il peso specifico di ciascun sottogruppo all’interno del gruppo unitario. A determinare la lotta, perciò, sono i rapporti di forza, sempre in evoluzione, tra le parti che compongono il gruppo totale.
DECLASSAMENTO O RIBELLIONE
Gradualmente uno dei sottogruppi assume sempre più potere decisionale e riduce l’altro o gli altri al rango di comparsa residuale nella determinazione delle scelte e trasforma, in modo silenzioso e surrettizio, i loro rispettivi leader in semplici militanti. Rispetto a questo slittamento a vantaggio di un solo gruppo del potere decisionale, gli altri hanno una sola alternativa accettare il declassamento oppure opporsi a coloro che hanno determinato e rivendicano il nuovo assetto del potere decisionale. L’accettazione della prima opzione porta alla morte del gruppo sottomesso. Il rifiuto genera la rottura. La prima forma del dissenso si manifesta come “conflitto di competenza”. Non è un caso che il gruppo minoritario all’interno del più grande partito di governo ha cominciato la lotta rivendicando il ruolo di “cofondatore” del suo leader e, quindi, la “parit ” decisionale tra questi e il leader del gruppo maggioritario. Il “conflitto di competenze” nasce e si rassoda gradualmente, durante il tempo in cui l'”indeterminazione” dei poteri all’atto del “patto”, grazie ai cambiamenti intervenuti e imprevisti all’inizio, viene trasformandosi a vantaggio di uno solo dei sottogruppi. Le origini del conflitto, perciò, sono contingenti. Nascono dai comportamenti che i gruppi assumono giorno dopo giorno. E il conflitto si manifesta soltanto quando il sottogruppo che si sente soccombente rivendica, contro l’altro, il medesimo potere decisionale.
IL RUOLO DEGLI OPPORTUNISTI
Nel momento in cui i contendenti avviano il confronto duro, la lotta, alcuni membri dei rispettivi gruppi, di solito gli “opportunisti”, considerando contingenti e temporanee le motivazioni del conflitto e ritenendo che le si possa superare, svolgono il ruolo di “colombe”, di mediatori. Al manifestarsi pubblico del conflitto, però, la serie degli eventi che l’hanno determinato si è ormai ossificata, si è trasformata in un “residuo inerziale”, che pesa sulle decisioni da prendere più delle singole volont  dei protagonisti del confronto. Lo sbocco, a quel punto, è la rottura definitiva, che può essere perseguita gradualmente nel tempo oppure può essere consumata istantaneamente. I singoli gruppi decidono della condotta da tenere in base al calcolo del proprio tornaconto, immediato e/o futuro. Un eventuale ripensamento di una delle due parti in lotta comporterebbe come costo da pagare la perdita di ogni credibilit  e, perciò, di ogni potere contrattuale successivo.
LA DEBOLEZZA DEI CAPI
Si può applicare sic et simpliciter questo stesso schema alle vicende che affliggono il maggior partito dell’opposizione? Personalmente, credo di no. Qui la causa della frattura è specularmente opposta. Proprio per essere tale, però, è attiva sempre all’interno della dialettica del potere. Se nel partito di governo la rottura è dovuta alla forte volont  decisionale del “capo” di un sottogruppo, di uno dei due “cofondatori”, che, giorno dopo giorno, con le decisioni assunte ha ristretto l’ambito del potere decisionale dell’altro, fino a tentare di ridurlo a semplice esecutore dei suoi desideri, nel maggior partito dell’opposizione, il motivo vero degli smottamenti e delle fronde è dovuto alla debolezza di iniziativa dei capi, pur eletti in forma democratica e partecipata. Rispetto a questa debolezza, l’area del potere decisionale diventa terra di saccheggio, luogo da occupare con l’iniziativa messa in campo da gruppi o da singoli. Non è un caso che la parola d’ordine dei giovani “rottamatori” riuniti a Firenze, agli inizi di novembre, fosse la seguente “Non chiediamo posti. Ce li prendiamo noi”. Anche in questo caso il rapporto di forza viene costituendosi giorno dopo giorno, nella prassi politica quotidiana, e il conflitto, ancora una volta, si manifesta come lotta per occupare spazi decisionali, che sono, ovviamente, anche spazi di potere.
SCHEMI UTILI
Si tratta, come si può vedere, di semplici schemi teorici, utilissimi, però, nel consentirci di comprendere la “struttura”, ovvero l’ossatura delle procedure dialettiche di quella specie di guerra “condotta con altri mezzi” che è la politica. Di volta in volta, le forme di questa “struttura” sono attivate utilizzando argomentazioni che, sempre all’interno degli stessi schemi teorici, riguardano valori, problemi sociali, tematiche economiche o altre questioni avvertite come urgenti e fondamentali in quella determinata congiuntura storico-esistenziale.

*Storico della filosofia, universit  di Salerno

In foto, Sartre

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