La Mostra d’Oltremare

Il colonialismo è una categoria di pensiero. Che si forma sul concetto di razza e riposa all’ombra del potere. Accaparramento di territori determinato dall’avidità. Per mettere le mani sulle ricchezze di un luogo e utilizzarle in nome della politica e del denaro. Il colonialismo non impallidisce nel tempo: resiste sottilmente nella vita di tutti i giorni, negando la cittadinanza anche a chi nasce e studia su suolo italiano, generato, però, da genitori stranieri.
E in questi giorni fa discutere la proposta di legge sullo jus scholae che permetterebbe ai bambini di ottenere la cittadinanza dopo aver frequentato cinque anni di scuola nel nostro paese.
Secondo un recente sondaggio di you Trend, sei italiani su 10 sono d’accordo su questo cambiamento, partendo dall’idea che sia grave sentirsi estranei nel luogo in cui si vive.
Intervistato dal quotidiano la Repubblica Khaby Lame, influencer ventiduenne stella di TikTok, sottolinea il suo disagio: pur abitando qui da quando aveva un anno continua ad avere passaporto senegalese che rallenta gli spostamenti necessari alla sua carriera di divo social.
E le due mostre organizzate dal Madre, museo d’arte contemporanea della Fondazione Donnaregina, curate dalla direttrice Kathryn Weir invitano proprio a riflettere sull’eco del passato nel presente e sui preconcetti che continuano a orientare le menti, e non solo in Europa.
Al piano terra, Bellezza e terrore: luoghi del colonialismo propone le opere di 12 artisti (fino al 26 settembre): Rossella Biscotti, Sarah Abdu Bushra & Dawit Seto, Alessandra Cianelli, Leone Contini, DAAR – Sandi Hilal and Alessandro Petti, Binta Diaw, Theo Eshetu, Délio Jasse, Giulia Piscitelli e Justin Randolph Thompson.
L’altra al terzo piano s’intitola “Ferdinandea” e si sviluppa da un progetto espositivo del regista e artista francese Clémens Cogitore (classe 1983) che lavora tra film, video, installazioni e fotografie.
Il nucleo della ricerca collettiva da cui si sviluppa “Bellezza e terrore” è la Napoli degli anni Quaranta: le riflessioni artistiche che si traducono in visioni narrative partono dai materiali d’archivio ma anche dal patrimonio architettonico del ventennio fascista di cui emblema è la Mostra d’Oltremare, costruita da sessanta persone (uomini, donne e bambini) deportate da Etiopia, Somalia, Eritrea e messe in scena, poi, nel villaggio indigeno della sede fieristica.
Tra i documenti su cui si sono concentrati gli artisti e le artiste coinvolti/e, mappe degli anni ’30 della Consociazione turistica italiana dell’Africa orientale italiana e anche fotografie scattate da Hilmar Landwehr, soldato della Wehrmacht in Campania fra il 1942 e il 1943 (grazie alla collaborazione del Goethe Institut di Napoli diretto da Maria Carmen Morese) o ancora immagini delle riviste “La difesa della razza” e “Tempo”, sostenute dal regime.

Una delle sale che accolgono “Ferdinadea” di Cogitore

L’esposizione propone opere potenti, come le grandi stampe della pugliese Rossella Biscotti tra figure e paesaggi che evocano il massacro dei partigiani etiopi nel 1939 compiuto dall’esercito mussoliniano; oppure come l’angolo di “Nero sangue” realizzato dalla giovane Binta Diaw che con i suoi pomodori neri vetrificati richiama l’attenzione sull’odierno sfruttamento dei migranti e sul caporalato. Una mostra che merita più di una visita per poterne cogliere i dettagli e meditare sulle terribili analogie della memoria con l’oggi.
Anche “Ferdinandea” è metafora delle ambizioni degli stati a prevalere sugli altri. Un titolo che nasce da un accadimento storico: nel 1831 al centro del Mediterraneo, tra Sicilia e Tunisia, emerge all’improvviso un’isola su cui si concentra l’attenzione della nazioni.
Tutte vogliono collocare su questo territorio la propria bandierina di appartenenza: il Regno delle due Sicilie la chiama Ferdinandea per celebrare il suo sovrano, Grahm l’Inghilterra, Île Julia i francesi e i tedeschi, che sono presi da un enorme interesse scientifico, vorrebbero attribuirle il nome di Nerita.
Nelle sale che accolgono l’immaginario di Cogitore fino al 12 settembre, ci sono illustrazioni, mappe e lettere che documentano la formazione dell’isola, affiancate da elaborazioni creative: foto subacquee, per esempio, da cui affiorano parole di lingue differenti, maltese, siciliano e arabo.
Infine, in una sala oscura, un film realizzato sulla base di riprese effettuate dallo stesso filmmaker durante una spedizione scientifica per installare un sismografo nel punto in cui l’isola è scomparsa. Ipotesi di un futuro in cui quella terra, attualmente otto metri sotto le onde, potrebbe risorgere, scatenando di nuovo contese geopolitiche. La sete di possesso è inesauribile.
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In alto, Note su Zeret di Rossella Biscotti

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