Rete no global. Sono passati 20 anni dai fatti di Genova, anticipati dagli scontri a Napoli tra forze dell’ordine e manifestanti, in occasione del vertice Ocse, nel marzo 2001. Un anniversario che diventa occasione per discutere di quel movimento, oltre la cronaca. Ne parliamo con l’ex poliziotto Paolo Miggiano, già dirigente nazionale del Silp CGIL .
A luglio è stato celebrato il ventesimo anniversario della contestazione al G8 di Genova. Per la prima volta, dopo anni di silenzi, sono emerse da più parti voci che hanno denunciato la brutale repressione subita dal movimento no global. Puoi raccontarci della tua esperienza come uomo della Polizia di Stato?
All’epoca di Genova ero un elicotterista della polizia. È un tipo di mestiere che, nel tempo, mi ha dato la possibilità di studiare, diplomarmi, laurearmi. Ho avuto la fortuna di praticare il mestiere di poliziotto più attraverso lo studio e l’approfondimento, che non sul campo. Anche se in passato ho prestato servizio nell’ordine pubblico, non mi sono mai sfuggite le questioni sociali. Ero dirigente nazionale del sindacato Silp[1] per la CGIL Polizia. Il nostro motto era: “Polizia tra la gente”. Negli anni Settanta/Ottanta, andavo nelle scuole, nelle fabbriche a portare la nostra voce. Ci consideravamo lavoratori fra lavoratori, tenendo presente il rispetto dei diritti di tutti.
In che modo?
Per mia formazione, sono sempre stato molto attento a ciò che accadeva nella società. Quindi, costantemente più proiettato all’esterno dell’apparato, nonostante all’interno svolgessi il mio mestiere con attenzione e rispetto. Sono entrato in polizia nel 1973. Non avevo formazione né culturale, né politica. Da subito capii che la polizia mi stava più stretta del mondo contadino da cui provenivo, in cui si facevano molti sacrifici per vivere, conducendo un’esistenza quasi rupestre, ma incentrata sulla dignità. Il mondo della polizia mi apparve come una realtà ribaltata. Capii subito che i retaggi fascisti e scelbiani non erano andati via. Il corpo delle guardie di pubblica sicurezza ne era permeato. Negli anni Settanta, a Palermo, entrai nel movimento democratico di smilitarizzazione dei poliziotti. Nel 1981, ci fu un’importante riforma della polizia che – partendo dalle nostre rivendicazioni – cambiò il modello, non solo riguardo ai diritti dei poliziotti, ma anche riguardo alla rappresentazione di relazione tra l’apparato e la società.
Fu un mutamento radicale?
Per la verità, non eravamo in molti a pensare che quello potesse essere un cambiamento positivo. Tuttavia, ci si rese conto che la smilitarizzazione stava divenendo un fatto irreversibile. Incominciarono a nascere, accanto al movimento confluito nel Siulp[2], sindacati più corporativi, di giubba, di stipendio. Ma quella realtà non aveva uno sguardo rivolto alla società. Nel 1999, noi dell’area più democratica facemmo una battaglia per uscire anche da questo sindacato, che era permeato da logiche corporative. Così, nacque il Silp Cgil. Il Siulp mantenne il proprio nome, ma si legò sempre più all’area della Cisl. In seguito, nacque anche la Uil polizia.
A che punto è il processo di smilitarizzazione della polizia?
Per la verità, questo percorso si è compiuto normativamente nel 1981. Spesso, però, mi sono scontrato coi miei colleghi. Mi torna alla mente quanto accadde a Palermo con la repressione delle rivolte in carcere, le indagini sulle mafie, le torture nelle caserme. Mi sono sempre scontrato con questa impostazione. Nell’81 vennero aboliti i gradi militari. Nelle questure si utilizzano ancore queste nomenclature. Basti pensare al fatto che ci si chiama ancora “maresciallo” o “capitano”. Chi utilizza questo linguaggio è giovane, ma questo è niente. Mi sono scontrato con gente che cantava “Faccetta nera”, mentre i dirigenti non dicevano nulla. Questi atteggiamenti dall’alto venivano tollerati come “goliardia”, ma non lo era. C’era e, purtroppo, credo ci sia ancora un’impostazione prevalente nella polizia in cui non ci si sente parte di un ordinamento democratico posato sulla Costituzione antifascista.

In copertina: 17 marzo 2001. Napoli. Carica alla testa del corteo [Foto di Luciano Ferrara tratta dal libro: Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete No Global]. Sopra: Anni Settanta del XX secolo. Spezzone di poliziotti democratici ad un corteo sindacale [Photo credit: Archivio del movimento operaio e democratico]

Torniamo al movimento no global. Com’è noto, la mobilitazione del G8 di Genova venne preceduta dalle giornate contro il Global Forum dell’OCSE a Napoli. Tu sei stato nella piazza del marzo 2001 da agente
No. Ma ho avuto tanti colleghi e amici che ci sono stati. Ho rapporti molto stretti con l’avvocato Elena Coccia e i Giuristi Democratici. In generale, facendo l’elicotterista non mi trovavo a cospetto, ma a copertura aerea delle manifestazioni. A Napoli e Genova anche gli elicotteri hanno contribuito allo sparo di lacrimogeni e al bombardamento dei cortei dei manifestanti. Non so se non mi ci mandarono a posta, perché ero conosciuto per le mie posizioni. Se c’era qualcuno che al bar esibiva il busto di Mussolini, appena arrivavo io lo toglievano. Ero diventato noto perché, dopo la morte di un collega a Procida, misi in discussione l’intero apparato della polizia aerea. Ebbi l’impressione di essere stato lasciato a casa premeditatamente per non interferire con gli obiettivi dell’apparato.
Dal punto di vista della polizia, cosa accadde nelle strade di Napoli e di Genova?
Una deriva autoritaria, che poi si è estesa all’intero Paese. L’impostazione fu che quel tipo di organizzazione doveva essere affidata ad alcuni vertici. Nel libro: “Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete no global”[3], il magistrato Nicola Quatrano spiega molto bene che la Digos napoletana – una delle migliori in Italia, proprio perché si interfacciava quotidianamente con una realtà politica e sociale complessa – venne scalzata nella gestione della piazza del marzo 2001 dai reparti della Squadra Mobile della Questura di Padova, specializzata nella repressione di piazza.
Abbiamo assistito a pestaggi indiscriminati, brutalità su inermi, torture nelle caserme. A cosa è servita questa violenza da parte dei corpi di polizia?
Mentre leggevo ciò che accadeva, nei giorni precedenti alle manifestazioni di Napoli e Genova, avevo avviato un lavoro di studio e documentazione sulla globalizzazione. Ho avuto l’impressione che si sia voluto spostare l’asse della discussione dai temi del movimento no global al tema dell’ordine pubblico. C’era la libera circolazione delle merci, ma non degli esseri umani. A Genova, si è premeditatamente fatto questo. Si voleva impedire alla società di capire cosa stesse accadendo nel mondo. Il Genova Social Forum provò a farlo capire. Si doveva fare lavoro di prevenzione. Ho vissuto come poliziotto gli anni Settanta. Era fuori dalle regole democratiche che Fini, che all’epoca ricopriva incarichi di governo, stesse nella cabina di regia che gestiva l’ordine pubblico nelle piazze. Così come era fuori luogo il fatto che ci fossero agenti formati nel contesto della lotta alla mafia che si sono accaniti sui giovani coperti da caschi e scudi.
Da dove nasce tutta quella brutalità cui abbiamo assistito?
Si fece pensare ai giovani poliziotti che sarebbero andati in guerra. Io dico che hanno sbagliato tutti: hanno sbagliato quelli che hanno organizzato la manifestazione a non fare lavoro di prevenzione verso chi voleva fare gli scontri. Vengo dall’esperienza dei servizi d’ordine della CGIL: se non doveva accadere casino, non accadeva. Dall’altra parte, com’è possibile che a Genova un intero camion con armi e oggetti contundenti attraversasse la piazza senza che l’intelligence e le forze dell’ordine non si mobilitassero per fermarlo? Per me, hanno sbagliato tutti.
Eppure, la questione che colpisce di più – e di cui ancora oggi si fa fatica a parlare – non sono tanto le dinamiche degli scontri di piazza, bensì ciò che accadde nelle ore successive. A Napoli, i manifestanti feriti vennero rastrellati al pronto soccorso dell’ospedale e portati alla caserma Raniero per essere interrogati e torturati. La stessa cosa accadde a Genova, a Bolzaneto, alla scuola Diaz. Da ex agente e uomo democratico, come interpreti il fatto che lo Stato non sia stato capace di processare ciò che è accaduto e di condannare i responsabili delle brutalità perpetrate a danno dei manifestanti?
L’apparato si difende sempre.  Non si è fatta chiarezza sulle responsabilità dei vertici, che sono stati addirittura promossi, raggiungendo posizioni apicali. Un paese democratico si misura dalla capacità di non auto-assolversi. Qui, invece, si sono attivati dei meccanismi mostruosi. La gente non si informa e con l’avvento dei social, si informa ancora meno. Si pensi ad Ustica e altre vicende nere. Su quelle faccende si sono sviluppati movimenti di opinione pubblica che si informarono sui fatti e tennero alta l’attenzione anche quando di quei temi si parlò nelle aule dei tribunali. Ora non lo si fa più. I processi durano anche dieci anni e più. L’apparato, se si tratta di fare “pulizia” nei ruoli bassi, ti mette in croce. Ma quando tu alzi il livello, è come se mettessi in discussione un modello autoritario. Questa cosa l’ha imposta la politica. A Genova, la sala operativa non doveva vedere la presenza né di Fini, né del Ministro degli Interni, ma delle figure apicali della Polizia. Questa cosa comporta un’ingerenza gravissima, che ha prodotto la macelleria della scuola Diaz.
Di fatto, ci fu una sospensione dello stato di diritto. Vennero violati impunemente i corpi dei manifestanti fermati. Si stralciò il principio dell’habeas corpus. Da ex poliziotto, come interpreti quanto accadde nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 a Genova?
Alla Diaz non trovarono armi, black block o delinquenti. C’erano ragazzini innocui che tentavano solo di dormire dopo una giornata pesantissima. Poteva esserci anche mio figlio dentro quella scuola. Altrettanto grave fu quanto accadde a Bolzaneto. Non puoi trasformarti in aguzzino o giudice. Dovresti essere il tutore del fermato. All’epoca, ci fu anche una confusione dei ruoli. La Polizia quando ha fra le mani il corpo di un manifestante, deve tutelarlo. Per questo uscii allo scoperto e scrissi una lettera al Manifesto. Volevo chiarire che anche nella Polizia di Stato non siamo tutti uguali e che non condividevo l’operato dei miei colleghi. Mi accusarono di essere comunista, perchè leggevo l’Unità e il Manifesto. Dopo il mio intervento, in diversi dissero ad alta voce: «questo qui sta ancora in Polizia?». Si crearono le tifoserie. L’operazione di propinare odio verso i no global ebbe pieno successo. Il clima si fece pesantissimo. Tutti divennero solidali con la violenza vista in piazza. Nella colluttazione di piazza ci si può anche far male, da una parte e dall’altra, ma quando viene perpetrata su un corpo inerme, vuol dire che c’è qualcosa di malato.
I poliziotti si sentivano superiori alla legge?
I colleghi nelle caserme vivevano una sorta di frustrazione. Non si doveva parlare dei temi. Quando su un corpo inerme infliggi punizioni e violenze significa che ti senti protetto e onnipotente. Si è tentato di coprire queste nefandezze. Napoli e Genova sono collegate a ciò che è accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. C’è un clima di impunità. Carceri e caserme sono luoghi chiusi. Prima accennavo di quanto accadde al carcere dell’Ucciardone dove, dopo una rivolta, volarono tantissime botte sui detenuti. Ma all’epoca non c’erano le telecamere. Ciò che accade oggi, sapendo di essere registrati, dimostra che ci si sente impuniti. Tutto questo può accadere di nuovo. La cultura del poliziotto è intrisa di repressione.

L’ex poliziotto Paolo Miggiano

Ma la riforma della polizia non doveva servire a democratizzare le forze dell’ordine e svecchiare i corpi repressivi dello Stato?
C’è stata una regressione degli apparati di polizia. Non a caso, in alcune vicende vennero aperte anche delle inchieste su noi poliziotti democratici. Ponemmo l’accento sulla deriva militaresca della Polizia di Stato. Nell’81, venne abolita l’amministrazione di Polizia di pubblica sicurezza e venne introdotto il concetto di Polizia di Stato. Con quella riforma si pensava di cambiare l’apparato. Ad esempio, si introdusse l’abolizione dell’arruolamento. I ruoli vennero destrutturati. All’epoca, tu entravi, ti misuravano altezza, cuore, vista. Se risultavi idoneo, entravi in Polizia, dove facevi sei mesi di militare, marciavi, imparavi a fare la guerriglia. Poi, c’erano i funzionari che venivano dal ramo civile, mentre altri entravano col diploma e divenivano ufficiali. Facevano quattro anni di accademia di polizia e diventavano dirigenti operativi. I primi venivano destinati nelle questure, i secondi nelle caserme. Nell’81, vennero promossi concorsi esterni che cambiarono tutto: furono necessarie capacità intellettive, cultura, formazione. Entrarono persone con una certa capacità di discernere le cose. Ha incominciato a prendere forma un altro tipo di Polizia. Questa cosa si scontra con quanto accaduto a Genova, perché sono entrati in questo nuovo sistema e l’hanno dissimulato dall’interno.
Hanno provato a far fallire la riforma dell’81?
L’apparato è rimasto intriso di cultura fascista. Nei ruoli bassi, la Polizia stava subendo una trasformazione culturale enorme: se entravi con la laurea e facevi l’agente, avevi gente formata nell’apparato. Teoricamente, se hai qualcuno che ha studiato Tocqueville, non dovresti picchiare la gente. Ci si accorse che questo mondo era poco permeabile. E lo cambiarono ancora. Oggi, se vuoi entrare in Polizia devi fare 4 anni di militare in Afganistan o in qualche missione militare estera e dopo poi arruolarti in Polizia, Carabinieri o Guardia di Finanza. Quindi, entri nell’apparato con una cultura militaresca. Chi è laureato, dopo anni di studi, non fa in tempo a entrare in Polizia, se non in un numero molto esiguo.
Si può dire che la Costituzione non è mai entrata realmente nei corpi di polizia, che sono un esercito armato contro il popolo?
Nessuna generalizzazione impropria, ma spesso ho temuto proprio di sì.
Sei mai stato minacciato per le tue posizioni?
Sono stato messo sotto inchiesta. Nel 2001, sapevano bene che avevo delle posizioni critiche. Fu per questo che probabilmente non venni inviato a Napoli e Genova. Avevo messo in discussione i vertici dell’apparato di polizia nel campo aviatorio, a causa della morte di un mio collega a Procida. Ci fu anche l’episodio di una giovane collega, che venne scoraggiata nell’avere contatti con me. Poi, essendo una ragazza intelligente, siamo diventati grandi amici. A me, come ad altri, hanno provato a fare terra bruciata attorno, ma ci sono riusciti solo in parte. Dopo Genova, venni visto io come un terrorista, perché incontravo i Giuristi democratici, Magistratura democratica, Soccorso rosso. Quello che è accaduto nelle caserme non doveva succedere. La politica ha determinato la mattanza in piazza, perché è scesa sul campo col manganello. Funzionari impegnati nella lotta alla mafia sono stati dislocati a fare ordine pubblico. Tra i poliziotti impiegati a Genova ci furono dei più grandi costruttori di prove false sulle manifestazioni di quel periodo e non sono neanche tanto lontani da noi. Riguardo alle violenze delle forze dell’ordine, si è pagato solo nei ruoli bassi. Si è detto di bucarsi la giacca e dichiarare di essere stati accoltellati in piazza. Se un ordine costituisce manifestamente reato, non bisogna eseguirlo. Prima dell’81, non era così. Ma ci sono sacche di resistenza molto estese. Vengono costruite prove false, come le molotov alla scuola Diaz.
Come ti immagini la polizia del futuro?
Sempre più presente nella società. Sono andato via anni fa. Mi ero stancato di quel mondo. Nella polizia c’è bisogno di coscienze critiche. In tempi recenti, sono stato a Verbania per presentare uno dei miei libri dentro una scuola di polizia penitenziaria. La dirigente della scuola mi aveva chiamato per educare i giovani agenti. Sono andato a dire che chi sta in carcere è un loro simile. «Ci sarebbe bisogno di fare questi incontro dal principio e non alla fine del corso di addestramento», dissero i giovani agenti al termine della mia conferenza.
Cosa ne pensi dell’omicidio di Carlo Giuliani?
Un defender dei Carabinieri è stato gettato in mezzo al corteo, quasi a voler generare una catena di reazioni e di eventi. Non so dire se ci siano stati tentativi di depistaggio. Ma posso affermare con certezza che non ci sono stati processi. Quel defender, lanciato in un contesto di guerriglia con a bordo dei Carabinieri ausiliari, è stato una provocazione. A Genova non c’era un contesto da stadio con tafferugli con gli ultras. Né i manifestanti, né i poliziotti erano preparati a quello che accadde realmente. Trovo assurda la tesi che un proiettile sia stato deviato da un sampietrino, che poi abbia colpito Giuliani. Non ho fatto l’esame balistico, ma ci sono dubbi enormi.
Perché vige ancora il segreto di Sato sulla vicenda di Carlo Giuliani?
Mi domando appunto che segreto ci sia. Significa che c’è qualcosa da nascondere e che le cose non sono andate come volevano. Il carabiniere Placanica – quello accusato di aver sparato contro Giuliani – è stato strumentalizzato. Tuttavia, viene da riflettere sul fatto che faccia presentare il proprio libro a Giovanardi e Gasparri, conosciuti come esponenti della destra più tradizionale (diciamo così).
Ci sono spiragli per la democratizzazione della Polizia di Stato?
Me lo auguro. L’attuale legge è buona, ma cinque-sei corpi di polizia nel nostro Paese sono davvero troppi. Ora c’è anche la Guardia di finanza a gestire l’ordine pubblico, quando poi dovrebbe avere esclusivamente compiti di polizia tributaria. Occorrerebbe una riforma più generalizzata di smilitarizzazione dei corpi e della specializzazione d’ufficio. Spesso, invece, si creano duplicazioni di indagini, invidie, rivalità che non hanno senso. Ci sono dei palesi tentativi di ritornare al passato (4 anni di militare prima di entrare nei corpi di polizia). E, non ultimo, c’è il tema della rimilitarizzazione della forestale. Dico questo non perché tema colpi di stato, ma perché è l’ennesimo passo indietro. Se una forza di polizia ad ordinamento civile viene rimilitarizzata, ha un significato preciso.
È possibile riaprire una discussione sulle ragioni del movimento no global?
Penso che sia necessario. Ma mi chiedo: cos’è rimasto di quel mondo? Vedo i rappresentanti di soggettività sociali, ma le soggettività che vogliono rappresentare non sono partecipi. Se si vuole discutere collettivamente, bisognerebbe coinvolgere le persone. Una discussione sulle reali motivazioni dovrebbe essere nutrita da un reale coinvolgimento. Invece, percepisco divisioni, competizioni inutili. Oggi occorre più che mai unire ciò che dall’alto si divide.
©Riproduzione riservata


NOTE

[1] Sindacato dei lavoratori di polizia.

[2] Sindacato unitario italiano dei lavoratori della polizia.

[3] Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete No Global, a cura di Daniele Maffione, DeriveApprodi editore, 2021, pg. 320

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