Se la felicità, o almeno il suo punto di partenza, prende la strada di un raccordo tra ciò che realmente siamo e amiamo e l’immagine che diamo di noi stessi, Joan Mirò deve avercela fatta, almeno per un attimo. Lascia gli studi di economia per dedicarsi a tempo pieno alla ricerca artistica, facendo a brandelli ogni logica costruttiva per restituire all’umanità una nuova percezione della realtà. Più che una mostra è un’esperienza visiva, quella messa in piedi al PAN-Palazzo delle Arti con 80 opere che portano la firma del grande maestro spagnolo.

“Joan Miró. Il linguaggio dei segni” è a cura Robert Lubar Messeri professore di storia dell’arte all’Institute of Fine Arts della New York University, studioso scrupoloso e appassionato di Mirò, del quale, attraverso l’individuazione di ben nove punti focali, ci restituisce una versione affascinante e completa.
Le opere in mostra giungono in prestito a Napoli dal Museo di Serralves di Porto. Ma la loro storia ha dell’incredibile. Tutte di proprietà del raffinato mercante d’arte Pierre Matisse, sono state custodite gelosamente per anni da un collezionista giapponese, poi vendute al Banco Português de Negociós e messe al sicuro in un Caveau, per giungere infine al Museo di Arte Contemporanea portoghese grazie all’intervento dello Stato che ne sospende la vendita all’asta. Anarchico, ribelle, spregiudicato è il modo in cui Mirò decostruisce la figura operando una sintesi visionaria tra poesia e pittura che si traduce in segni calligrafici su carta, tela, ceramica, tessuto.
A partire dal quel famoso 1924, anno che segnò per lui una fase di rivoluzione creativa. Tra le immagini eseguite da Miró in quest’anno ce n’è una intitolata Ballerina dove il corpo è ridotto a un semplice asse verticale, le braccia a una curva e pochi tratti suggeriscono il profilo del vestito. La superficie pittorica, a partire da questo periodo, diventa spazio destinato a segni e iscrizioni, dove la figura non è più protagonista in un sfondo ma spesso è il risultato della creazione stessa, evocata da segni e macchie presenti sulla tela grezza. Se i disegni su carta, i collage e le opere su masonite sono già un mirabile manifesto di questo grande genio e della grande rivoluzione che ha operato nella destrutturazione della rappresentazione figurativa, a catturare completamente lo spettatore sono le opere su tessuto realizzate nel 1973 in collaborazione con il tessitore Josep Royo.
A metà strada tra pittura e scultura i Sobreteixim, così definiti dal critico Alexandre Cirici Pellicer, sono fatti di juta, lana, cotone e canapa tra le cui trame Mirò incorpora oggetti comuni. Si giunge infine alla dissoluzione  stessa del segno, con le cinque tele bruciate che Miró esegue, sempre con Royo, nel dicembre 1973. Dopo aver tagliato le superfici con un coltello, l’artista applica masse di pigmento su varie aree della tela, usando una torcia per stendere la vernice fino alla carbonizzazione del supporto.
La mostra, aperta al pubblico fino al 23 febbraio 2020, è promossa dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, con il supporto del Ministero della Cultura Portoghese e il patrocinio dell’Ambasciata del Portogallo in Italia, è organizzata dalla Fondazione Serralves di Porto con C.O.R. Creare Organizzare Realizzare di Alessandro Nicosia.
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