Riparte la rassegna estiva del Mercadante a Pompei, con un attesissima prima nata da una collaborazione internazionale. Uno spettacolo fondamentale, in questa stagione e nella globalità di un discorso artistico che verte su un rilancio del teatro a tutti i livelli. Questo per vari motivi.
In primo luogo, Resurrexit Cassandra si inserisce nel felice sodalizio di Jan Fabre con Napoli, rafforzando un legame artistico che va avanti da anni. Inoltre lo spettacolo prosegue nel dialogo sempre più serrato tra le realtà culturali campane istituzionalizzate, nella cornice unificante del Campania Teatro Festival, quest’anno con una visione periferica rafforzata.
Il Pompeii Theatrum Mundi ha  il compito di fare da trampolino alla ripresa di settembre, che attende il Nazionale ad un varco per cui dovranno passare gli impegni che non è stato possibile onorare causa pandemia. E il tutto esaurito, non solo per lo spettacolo inaugurale, sembra far auspicare bene.
Ospitato nella arena grande del parco archeologico, Resurrexit Cassandra, fa a pensare al teatro e alle sue origini.  E questo sia che si intenda quello classico, con l’entrata in scena di uno dei personaggi di maggiore impatto della mitologia in una delle arene meglio conservate dell’antichità, sia per quello contemporaneo in chiave di discontinuità, di cui Jan Fabre è maestro.
L’artista di Anversa ha frequentato parecchio Napoli, negli ultimi anni, tra esposizioni museali, comparse nelle gallerie d’arte e performance teatrali.
Per il pubblico del Pompeii Theatrum Mundi, ripropone uno spettacolo andato in scena in Germania nel 2020, che qui si impreziosire della sceneggiatura di Ruggiero Cappuccio, anche direttore del Campania Teatro Festival.
Fabre è un artista eclettico, famosissimo e dal cachet importante.  Soprattutto è uno sperimentatore capace di portare il teatro in una nuova temporalità. Con spettacoli che stressano la capacità dello spettatore. Un esempio, Mount Olympus andato avanti per 24 ore, con gli spettatori liberi di entrare e uscire dalla sala per tutto l’arco della giornata.
Il suo modo di fare arte si nutre di un minimalismo apocalittico e si lega alla centralità del corpo, in Fabre oggetto d’arte. D’altronde, basta ricordare la performance degli anni 80 che lo rese famoso 80 in cui il suo stesso sangue era materiale da disegno.
Personaggio con un’esuberanza innata che lo ha condotto a una vita di contrasti e ambiguità, crede nello shock dell’arte e nella sua natura universale. In questi giorni ritorna al centro di un caso giudiziario, dopo la denuncia di molestie e di bullismo da parte di alcuni membri di una compagnia teatrale belga, risalente al 2018.
Dalla scenografia alle luci, in Resurrexit Cassandra, tutto è curato da Fabre. Il palco, con un livello di elaborazione minimo, conta come elementi di scena una serie di sculture serpentesche, un’ascia.
Dietro ciò, un telo bianco. Chiaramente uno schermo.
Lo spettacolo si presenta sotto i migliori auspici. Non solo per una luna piena che enfatizza e illumina palco e spettatori. Nell’immortale Pompei, la rivitalizzata Cassandra fa la sua periodica apparizione nel panorama delle analogie umane.
Cassandra è l’indovina figlia di Priamo che predice la caduta di Troia. Il suo dono è quello di vedere il tempo nella sua interezza, e conoscere la sventura degli umani. Questo accompagnato a una maledizione: tutto ciò che dice viene sistematicamente ignorato.
Quello che la caratterizza è frutto di un anatema di Apollo o, secondo altre versioni, le deriva da alcuni serpenti. Nel nostro mondo e nella sua schiera di metafore quotidiane,  è colei che appare quando le vicende umane volgono al peggio.
La Cassandra di Fabre/Cappuccio si ricompone. Le molecole del suo corpo si ribellano all’entropia, si rimettono insieme, nascendo a gruppi, poi ad organi, in parti differenti del globo.
La scena è tutta per Sonia Bergamasco (foto), alle prese con un ruolo titanico, occasione importante per svincolarla dalla figura di moglie di Montalbano che si porta cucito indosso.
La Bergamasco occupa il palco per intero così come occupa la corporalità di Cassandra. La sua apparizione in vesti funebri, preannuncia sventura e oscurità.
Sola sul palco, ma con il suo doppio: alle sue spalle lo sfondo prende vita nel film che accompagna lo spettacolo e le sue fasi. Anch’esso opera di Jan Fabre.
Quello di Cassandra è un viscerale monologo ipnotico, in cui lo spettatore si ritrova assorbito per intero. Lo spettacolo ha sapore di oracolo, la location non fa che aumentare la suspense, la partecipazione arriva al parossismo, ci si dimentica di vivere fuori da quelle mura eterne, ci si dimentica delle vicissitudini quotidiane per fissare quell’oracolo vivente, immobili, col fiato sospeso.
Ci si scorda di se stessi, eppure l’oracolo non fa che parlare della platea di spettatori ammutoliti.  Cassandra comincia a mutare di pelle, dopo aver abbracciato uno dei serpenti presenti sul palco. Allora si passa dal nero funebre al rosso paillettato, il colore del sangue e della guerra. Quello che accade sullo schermo segue la muta del colore, come una seconda pelle.
Seguono altri abbracci ai rettili, quindi altri colori nei vestiti, indossati uno sull’altro e di cui cassandra si disfà come pelle di rettile: il blue dell’aria, il verde tossico, fino ad arrivare al bianco, l’auspicata rinascita. Alla muta corrisponde un cambiamento nei colori del palco, dei rumori, delle scene del film.
Il monologo è uno straziante appello, un invito non troppo originale ma immediatamente in linea con i tempi che corrono, secondo una critica altolocata della devastazione ambientale,  che attacca feroce una platea di persone corresponsabile della devastazione. Un moralismo accusatorio, lontano dal fornire soluzioni e che sputa veleno.
Se quelle parole non fossero messe in bocca a Cassandra, risulterebbero alquanto pedanti. Ma Cassandra non ha pretese pedagogiche. Dice agli altri solo quello che vede. E basta.
Un modo di fare critica a tratti radical chic  e lontano dal reale, come sembra dimostrare la mancanza dai un punto finale.
Lo spettacolo ha una serie di criticità, e si presenta un po’ al di sotto delle aspettative. La recitazione è tenuta bene. Tuttavia alcuni scoppi di voce sembrano fuori luogo, non del tutto giustificati.
La stessa sceneggiatura non sembra essere tra i migliori pezzi di Cappuccio, e lascia più di una questione in sospeso.
Per quanto riguarda invece la scenografia e le luci, curate direttamente da Jan Fabre, le cose sembrano funzionare bene, come anche l’integrazione con quanto appare sul palco, nel film e i pochi effetti scenici.
Nel complesso, lo spettacolo riesce, risultando semplice e di impatto, come nella migliore tradizione di Fabre. Interessante l’analogia tra la vicenda della devastazione di Troia e la devastazione ambientale: così la voce di Cassandra è la voce di chi oggi parla contro al distruzione del mondo e non viene ascoltato, allo stesso modo il cavallo di legno, il dono da cui guardarsi, è tutti i doni di uno stile di vita deleterio votato all’ipertrofia bulimica dei consumi, e la città in fiamme è il nostro pianeta che brucia e arranca verso un punto di non ritorno sempre più prossimo.
Lo spettacolo finisce, ma ci accompagna fuori. Perché a conti fatti, la parte peggiore di andare al teatro a Pompei è che poi dal parco archeologico occorre necessariamente uscire, abbandonando la tranquillità, il silenzio devoto di chi si avvia verso casa, l’odore di macchia mediterranea. E nell’uscire si scopre che li dentro si è al sicuro, tagliati fuori da un cromatismo aggressivo fatto di luci al neon, pubblicità, traffico e rumori. Tutte cose con cui si ha uno scontro troppo forte, abbandonando quelle mura inanimate.
E non vi è impressione più vivida del fatto che probabilmente la Cassandra che ci ha appena fatto visita, criticandoci aspramente, abbia pienamente ragione.
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