Una città cupa fa da sfondo a questo racconto di Giuseppe D’Avino “Insegnaci a morire” di cui proponiamo la sesta e ultima  puntata.

SESTA E ULTIMA PUNTATA
-Pronto.
-Stanno parlando assai di te
, ti devi fermare.
-Non posso.
-Prima lo facevi.
Aspettavi mesi e poi …
-E poi …- avrebbe detto: e poi la botte si svuotava di nuovo del sangue di cui aveva bisogno.
Staccò la telefonata e salì di corsa. La madre non c’era e quindi aprì con le sue chiavi. La casa odorava di pulito, di mobili vecchi e stoffe. Sul tavolo trovò adagiata in una tortiera con buco la pizza di scarole che la settimana scorsa gli aveva richiesto per telefono. Ne tagliò un trancio e costatò la gradita presenza della spessa fetta di provola asciutta come piaceva a lui. Trangugiò in pochi morsi la fetta e imbustò tutto per andarsene.
In auto ascoltò musica neomelodica ad altissimo volume.
Raggiunse la stazione di Casalnuovo e parcheggiò.
Raggiunse il binario affollato di gente. Oltre le teste giungevano grida e le voci calme e scocciate delle forze dell’ordine. Una signora si era piazzata supina sui binari. I treni erano fermi. Tipica cronaca vesuviana, di gente che schiatta in corpo, che implode, colta da drammatiche casualità, decisioni al di sopra della loro capacità di intrufolarsi  nelle forze del destino. Lui sentì ancora sulle sue spalle il fallimento della società e una spinta motivazionale rincuorava la ragione dei suoi atti tenebrosi.
Era davvero stanco di come questo sistema di cose fosse capace di espandere la geografia di dolore e omertà di ogni persona. Questo perpetuo presente orfano di storia e futuro. Questo sentimento irrimediabile che gonfiava il petto di impossibilità.
-Pronto?
-Oh, dove stai?
-Faccio tardi,
aspetta.
-Ma …
Giunse alle due meno venti al bar.
Si sedette e ordinò un Negroni. Guardò negli occhi chi lo stava aspettando. Nella ceneriera c’erano sette mozziconi di Merit.
-Sei diventato una ciminiera.
-Fatti i cazzi tuoi.
-Allora?
-Te lo ripeto,
ti devi fermare.
-Dimmi quello che sai.
-Allora,
mi stai a sentì?
-Dimmi.
-Ti devi dare una calmata.
-Com’è ‘sta storia
che mi dici quello che devo fare?
-Non va bene, non va bene proprio, lo sai?
-Se vuoi …
-Non cominciare.
Non voglio tirarmi fuori.
-Allora dimmi cose utili e non rompere il cazzo.
-Ti devi calmare.
-Quando me lo consegni?
-Aspetta almeno un mese.
-No.
-Nel giro
si parla troppo di te.
-Azz, ‘so famoso.
-Non scherzare col fuoco.
-Dimmi quando puoi …
-Sto pensando che stiamo sbagliando tutto. Ci deve essere un altro  modo, no?
-No, non c’è.
-Come fai a saperlo?
-Lo so e basta.
-E se tu non fossi adatto a saperlo,
ci hai mai pensato?
-Allora, quando?
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La passò a prendere puntuale
e andarono a cena in un posto abbastanza formale. Erano mesi che ci riprovavano e che cercavano tra i frammenti della loro vita le ragioni per tenersi compagnia.
Lei guardò le sedie foderate di velluto rosso, le pareti crema, luci coperte di paralumi in pelle, il brusio educato e la gente che cenava agli altri tavoli vestita all’altezza della loro disinvoltura.
-Vedo che ti stai impegnando- sorrise.
Lui girò gli occhi per guardarla e parve tornare da luoghi che erano lontani anni.
-Che hai detto?
-Niente.
Finirono di mangiare il primo
, lei posò esausta le posate nel piatto integro se non per un paio di forchettate e disse: -Eugè, dimmi, che dobbiamo fare? Io non so che stiamo facendo.
-Perché lo vuoi sapere da me?
-Da chi lo devo sapere?
-Tu non sai niente?
-Certe volte ‘so contenta,
altre volte mi pare che stiamo sbagliando proprio tutto.
-Chi lo sa …
-Mi pare che a te non te ne fotte proprio più di niente.
-Lucì, certo che sei noiosa, eh? Sempre a dire le stesse cose.
-‘o ma veramente fai?
-Ma una dignità non ce l’hai? Ma non ti scocci a campare sempre tutta cacata sotto?
-Sentimi bene, stronzo: io lo faccio per nostro figlio, mi hai capito, eh?
-E allora non ha senso, no?
La donna non perse tempo, si alzò brusca e lasciò il tavolo e uscì dal locale senza mai voltarsi.
La guardò andare  via e il suo cuore non disse quasi nulla, una lieve scossa di irregolarità. Uno sfiato di inerte umanità. Le avrebbe voluto dire tante cose, ma come tante volte sentì che era inutile. Forse tanto tempo fa avrebbe scatenato l’energia necessaria per correrle dietro, avere idee buone per il futuro e adempierle. Aveva perso fiducia, quella che si era promesso di avere tutta la vita, ma che non era riuscito a tenere viva. Gli erano morte tante cose, tanti cari e tutto quello che gli necessitava per sostenere il peso di quelle cose. Dov’erano finiti i tempi in cui lui restava sveglio di notte, ma sereno, vagava senza timore tra le stanze e si sentiva contento di guardare le facce serene degli altri che dormivano?
Se avesse avuto la forza di correrle dietro le avrebbe detto solo verità e questo tanto bastò per fargli demordere quell’esigenza che aveva di gridarla e capire che gli altri non ne avevano alcun bisogno.
Suo padre una volta gli disse che la vita è bella solo nel suo danno. Avrebbe voluto obiettare. Lui era riuscito a considerarsi libero secondo la sua natura, ma non era riuscito ad adeguarsi ad essa: era la vita di tutti i giorni che lo aveva distrutto: quel peso della vita che non è altro che il carico e lo scarico di sentimenti che passa da persona a persona. Non era adeguato a sopportarlo, questa vita non faceva per lui e questa imperfezione così inaccettabile, lo aveva sempre indotto a pensare di finirla.
Ignorare la saggezza era la saggezza. Ci credeva e non perseguiva questo credo. Si era convinto che il resto della gente aveva scoperto che per assaporare la sensazione di vantaggio, era utile ignorare gli insegnamenti. Della filosofia la gente ormai ne faceva un compendio di regole da non seguire. Allora, per lui che aveva seguito la strada opposta senza incontrare nessuno, che senso aveva continuare a camminare?
Hai fatto cose orribili, pensò, e non ne senti il peso.
Non era troppo tardi per fare tardi, pensò. Non era tardi per lasciarsi andare, prendere coscienza, assoldare la parte di lui meno avvezza a questa vita e farla finita.
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Quando si mise a sedere in quel tugurio abbandonato, in attesa che gli venisse portato il ragazzo dalla mano monca con un inganno preparato, pensò che la rovina dell’umanità era che troppi uomini desiderano ciò che non possono ottenere. O peggio, il loro desiderio è canalizzato in ciò che non possono ottenere. Forse perché oggi il desiderio è vendibile come un’idea, non origina idee.
Agitava le gambe e batteva i ginocchi. Abbassava la testa ed enumerava quante sigarette lo avessero, per quella sera, avvicinato di più alla malattia o alla morte.
Puoi essere uomo quanto vuoi tu, pensò, ma tutti torniamo bambini vulnerabili ogni volta che ci addormentiamo e se non è una cosa che ti accade, significa che sei pronto a morire.
Sei pronto a morire?, si chiese.
Sei pronto, o no?
Pensò che a chiedersi una cosa del genere in un posto come quello presumeva una risposta facile. Ne rise. Poi pensò che forse era pure giusto che queste domande gli capitassero a tiro in posti come  quello, dove il suo cuore più trovava coraggio di aprire bocca.
Sentì svoltare un’auto e il rombo delle ruote sulla brecce riempirono l’abitacolo.
Quando i due ragazzi scesero dall’auto lui sgattaiolò per l’uscita posteriore e compì mezzo perimetro della casa e si mise in attesa dietro il muro a sinistra della facciata principale.
I due ragazzi entrarono dentro. Erano silenziosi. Il ragazzo della mano monca parlava di come distinguere una droga tagliata male da una non tagliata affatto ed elencava i vari prezzari dei diversi quartieri.
Raggiunse la porta ed entrò.
Il ragazzo dalla mano monca si voltò e lo guardò prima con un certo disappunto e poi, senza alcun timore, interrogò il suo accompagnatore.
-Non mi dire niente, è una cosa veloce- disse l’altro.
-Ma che sta succedendo?
Lui e il ragazzo della mano monca
estrassero la pistola e se la puntarono in faccia.
-Ma che cazzo sta succedendo? – urlò il ragazzo.
Il suo accompagnatore gli puntò di sorpresa una pistola alla testa.
-Lasciala cadere, forza- lo consigliò intransigente.
Il ragazzo dalla mano monca si abbassò lentamente per posare la pistola.
-Mettiti in ginocchio- gli disse lui senza accenno emotivo nella voce.
Il ragazzo lo fece, ma non smise di guardarlo negli occhi con una ferocia insaziabile.
-Eduà- chiamò suo figlio.
-Papà, fa presto.
-Non lo so se stiamo facendo bene.
-Papà, fa quello che devi fare e andiamocene.
-Ma come, questo  è tuo padre?
-Sta zitto.
-Cioè tuo padre
è …
-Sta zitto. Papà, fai presto, cazzo.
-Non ce la posso fare più.
Puntò la pistola alla fronte del ragazzo. Suo figlio scalciò via la pistola del ragazzo dalla mano monca.
-Sei giovane- disse lui. –Giovane che non te ne accorgi.
-Spara, stronzo, fammi vedere se hai le palle.
-Non è questione di palle. Questo è facile. È questione di saper dormire la notte.
-Papà …
Detonò il colpo che forò la testa del ragazzo: 
cadde senza vita. L’eco del colpo si consumò e si disperse verso l’esterno in un paio di riverberi.
Sorrise amaramente. Guardò suo figlio.
-Guarda che ti fa una vita sbagliata- disse.
-Papà?
-Vattene via,
me lo vedo io.
-Papà ma …
-Ho detto vai.
Ci vediamo in questo giorni. Vengo dalla mamma. Domenica magari pranziamo tutti insieme.
Suo figlio andò via senza mollare lo sguardo sulla sua figura.
Quando la macchina fu sulla strada del ritorno lui ancora non si era mosso e ancora non aveva smesso di guardare quel ragazzo e la crudezza della ferita, il sangue e tutta la materia cerebrale che la ferita aveva rigurgitato e l’odore di carne combusta e sangue ferroso.
Poi alzò la pistola, la infilò in bocca e fece partire il colpo.
                                                                                                      (6.fine)

Quel mal di vivere che emerge la notte

PRIMA PUNTATA

Tornavano a casa e durante il tragitto sua moglie elencava sottovoce i nomi che riusciva a scorgere dai manifesti funebri slabbrati dalla pioggia. Lui guardava la strada, perso in pilota automatico a raschiare dal fondo della memoria una sfilza di progetti di vita mai compiuti. L’immaginazione di vite diverse a uso di rifugio gli era diventato un gradevole guscio di menzogna che aveva sostituito la fiducia e la paura e di conseguenza la vita stagnava e lo disgustava molto spesso.
Maneggiava il volante con la svogliatezza che la conoscenza di quelle strade gli consentiva. Evitò un paio di buche e sterzò dolcemente a destra per evitare la nuova toppa di asfalto per recenti lavori di tubature. Saettò di fianco una moto che sparì presto nel buio di una via secondaria. Guardò sua moglie e poi tornò a prestare attenzione alla strada. Sua moglie allungò una mano sulla sua coscia, strofinò le dita sulle trame del suo denim e sorrise, ammiccante.
-Antò?
-Mh?
-Ma quando
ce ne andiamo da qua?
Si voltò. –Dove?
Lei scrollò le spalle. –Da qua …- tornò a guardare la strada.
Lui restò in silenzio.
-Ci siamo fatti vecchi, amò-
-Mh.
Sfiorò il vetro
impallinato dalla pioggia.
Quand’è …
Giunsero presto sotto il portone di casa.
Erano l’una e un quarto di quel finesettimana e lui decise di non scendere.
Non vuoi salutare a …
-No. Lascialo dormire.
-Ma quale dormire, so sicura che sta giocando a quella cazzo di Play Station.
-Lucia, meglio di no.
La donna annuì sconfitta e senza forze scese dall’auto. Lui la guardò in tutti i suoi movimenti, che ostentavano rigidità per proteggere una irreparabile paura dell’abbandono; e tutto questo gli ricordava sua madre.
Prima di andarsene la donna si chinò e ticchettò sul vetro, lui  l’abbassò. Aveva smesso di piovere e nella strada si sentiva solo il liquido suono delle gocce  che stillavano dai cornicioni dei palazzi e il fruscio delle ruote delle auto che si muovevano in lontananza; qualche cane che latrava. Stettero in silenzio un minuto intero.
-Sei sicuro?
-Sì, sì.
Facciamo un’altra volta- la spicciò.
La donna si voltò a guardare la strada e poi tornò con gli occhi a lui. –Sicuro sicuro?
-Sì, sì, andiamo che è tardi, Sali!
Lei risucchiò tra le labbra uno schiocco di disapprovazione e si avviò al portone.
Sentendosi molestato decise di non voler attendere, ingranò la marcia e ripartì.
Scese dall’auto dopo aver parcheggiato di fronte al bar Arcobaleno. Diede pochi spicci al posteggiatore abusivo. Sul corso di Amoriano scorrevano poche auto e nel bar c’erano gli habitué, vecchi trasognati e dalla vista opaca; fuori si erano piazzati tanti ragazzi e gli parve che la trovata del proprietario di piazzare un caffè e un dj set fuori l’entrata fosse azzeccata.
Lo colpì l’immagine di un uomo che sedeva di spalle, con una giacca rattoppata: si muoveva con movimenti semplici e essenziali, portava il bicchiere alla bocca, sorseggiava e posava il bicchiere in continuazione; era il circolo vizioso della nostalgia che provava per suo padre.
Non riusciva a tornare a casa. Guardò più volte l’orologio e l’ora non corrispondeva al suo mal di vivere. Così prese una pezza dal portaoggetti della portiera, chiuse, pulì il cofano anteriore dalla pioggia e ci si sedette sopra che era ancora caldo. Sbuffò per l’ennesima volta, si accese una sigaretta e pensò che la pensione fosse orribile e che la vita era determinante nella preparazione per cose di cui non si conosce il moto. Pensò a varie cose del passato, scene che lo avevano segnato, che avevano attratto una parte di lui in un piccolo segmento di tempo. Sapeva che farlo era pericoloso. Rimestando i ricordi a suo piacimento, aveva acquisito la tempra di quegli uomini che sanno dormire solamente da soli.
La sua attenzione riemerse allettata da un ragazzo con la mano sinistra monca, che giunse fuori al locale sparato a razzo su un motorino centocinquanta. Frenò e lo lasciò cadere e il tonfo della scocca laterale che frusciava sull’asfalto ruvido allarmò il gruppo, che cominciò a indietreggiare verso il muro, il bar, l’ingresso. Lui sapeva che bisognava trarre dai dettagli dello sguardo per indovinare su chi si sarebbe scatenata la violenza, ma era difficile individuare paura concreta in quel vespaio di gente. Così attese e il ragazzo dalla mano monca non ci mise molto a trovare la sua preda: un ragazzo tre volte la sua stazza, ascelle foderate di grasso, pancia a damigiana e gambe sottili in un paio di jeans strappati: una faccia da piscione.
Si alzò dal cofano quando il ragazzo dalla mano monca cominciò a girare attorno alla sua vittima come un avvoltoio. Lo picchiava con schiaffetti dati con la punta delle dita sulla nuca e sul muso e gli ripeteva varie ingiurie, vari insulti sulla sua ridicola costituzione fisica ed accennava a una certo apprezzamento fisico che il piscione si era permesso di fare sulla sua ragazza. Il piscione rimaneva inerme, allungava le mani verso gli altri e li incitava a stare al loro posto, e subiva a testa bassa. A un tratto il monco gli  piantò un calcio nelle giunture e il piscione cadde e l’altro continuò a dargliene dietro la testa.
                                                                                                         (1.continua)

Il silenzio della violenza tra la folla rumorosa
SECONDA PUNTATA
La folla dietro di loro rumoreggiava mentre il piscione beccava i suoi calci alla testa, i pugni nelle reni e rimaneva in silenzio.
A guardare la scena sorrise, provò un po’ di rabbia, si accese un’altra sigaretta e per puro istinto si sfiorò le bruciature di sigaretta che aveva sul braccio sinistro.
La scena si consumò con il monco che schiacciava la testa del piscione a terra. Poi tornò al motorino, lo rialzò a fatica, ma senza mostrarla in volto, bestemmiò, mise in moto e partì verso destinazioni che sicuramente avevano a che fare con bersi qualcosa, ascoltare un po’ di musica neomelodica e magari rimediare una chiavata fuori mano.
Lui continuò a guardare il piscione. Lo vide di spalle che entrava dentro, evitato da tutti, da alcuni che addirittura lo sbeffeggiavano e lo seguì con gli occhi finché non scomparve nella rientranza del corridoio interno che conduceva al bagno.
Risucchiò aria e schiocco tra le labbra disapprovazione. Sorrise ancora mentre risaliva in macchina e senza rendersene conto sbatté la porta, poi accese il quadro, abbassò il finestrino e allungò fuori il braccio. La sigaretta tra le dita, arrivata alla sua fine, cominciava a scottare. La gettò e prese il telefono dalla tasca interna della giacca, cercò un numero e chiamò.
*************************************
-Che?- rispose una voce apatica dall’altra parte.
-Come stai?
-Ma hai capito che ore so’?
-Sentimi bene:
 ne ho un altro.
-Mh … si?
-Lo conosci.
-Una foto ce l’hai?
-No.
Come facc …
-Ha menato
 uno fuori l’Arcobaleno.
-Forse ho capito.
-È facile.
-Quando?
-Al più presto.
-Va bene.
-Cià.
-Cià.
***************************************
In macchina ascoltava
 solo il suo silenzioso respiro e lo vedeva condensarsi una volta espulso. Fuori l’aria putrida mischiata ai miasmi delle fognature gli ricordò che da piccolo, in una giornata di pioggia, aveva visto una saracinesca sollevarsi e l’acqua che debordava trascinare con sé un’orda di zoccole aggrovigliate.
Ripensò all’accaduto. Strinse i pugni. Il piscione era uscito fuori con ancora i segni degli schiaffi sulle gote e sulle orecchie arrossate, sorrideva imbarazzato, fumava, come se niente fosse accaduto.
Ricordò che una volta disse …
-Da vecchio lo sai che voglio fa?
Luigi alzò gli occhi arrossati di sonno dal testo di papirologia, si girò verso di lui e con un cenno del mento attese risposta.
Girò gli occhi dal soffitto al viso del compagno di stanza e disse: -Voglio uccidere la gente di merda.
Luigi sorrise, scosse la testa e tornò a sottolineare la pagina che stava leggendo.
Lui sollevò la testa dal cuscino. –Faccio davvero, scè.
Il monolocale fumoso e disordinato che avrebbe abbandonato da lì a un mese era un’accozzaglia di oggetti, cuscini e una chitarra poggiata al muro con cui Luigi si dilettava di tanto in tanto. Alle pareti poster di Jonny Cash e Bruce Springsteen e personaggi di manga famosi.
-Faccio davvero, oh!- insistette.
-Sì, sì, come no.
-Ti ho detto che ci sto pensando sul serio.
Luigi si tirò indietro sullo schienale e le rotelle della sedia partirono con un lamentoso rollio, allontanandolo dalla scrivania.
-Ma veramente fai?
-Lo sai,
 quando dico una cosa è quella.
-Lo vedi? A non fare un cazzo la gente esce di testa.
-Invece no: a questa città serve una cosa del genere.
Luigi si versò un bicchiere di Cola da discount, bevve e si accese una canna, che al secondo tiro passò a lui.
-A che serve, dimmi?
Si destò dal letto con la canna tra le dita, poggiò i gomiti ai ginocchi e ci pensò.
-Non lo so, ma è una cosa diversa.
-Diversa?
-Si, diversa.
 Fare cose diverse fa la differenza, luì.
-Ma pensa a laurearti, stronzo!
Scosse la testa.
-No, no. Non fa per me.
 Lo so.
-Ma veramente fai?
-Ho deciso,
 Luì.
Si alzò, andò alla finestra e guardò la Pignasecca e il traffico di gente all’ora di pranzo. Il mercato andava a rilento e i commercianti declamavano la loro mercanzia, affiancati dai neri che erano stesi a terra con davanti i teli pieni di bigiotteria e borse parallele. Qualcuno urlava dagli appartamenti che quasi si baciavano nei vicoli adiacenti. Un vecchio storpio coi piedi riversi e una folla al bancone di una rosticceria. La città esalava sudore e cazzimma. Il basolato pieno di cartacce e i rigagnoli sporchi di mondezza marcita e macerata da giorni, che faceva da strada a topini ignorati. C’erano le solite zingare abbigliate da pantacolle e gonne di jeans e i capelli raccolti da mollettoni e la pelle di quel colore fangoso, lucido di sudore.
-Lo devo fare Luì, lo devo fare e basta.
Il suo amico ticchettò la penna sulla pagina e ruttò. Sospirò ironico alle sue spalle.
-E dimmi, per chi? Per chi?
Si tenne la risposta per sé, si voltò a guardarlo e ricordò che suo padre …
                                                                                                      (2.continua)

La letteratura, una forza che salva dalla castrazione mentale
TERZA PUNTATA
… Suo padre… Era uno di quei poeti falliti
 che aveva versato i suoi anni in una carriera a vicolo cieco da bidello scolastico. Parlava poco e niente e a volte rimaneva muto per giorni. Coltivava il dono dell’osservazione come se fosse un sentimento. Ogniqualvolta tornava a casa il litigio muto tra lui e sua madre era una consuetudine che da un lato significava tenera sopportazione e dall’altro cupa congestione. Parlava spesso solo con lui prima che si addormentasse e non per leggergli favole o raccontargli storie amene. Enunciava piuttosto il suo spavento per la gente e di come si aspettava che da lì a pochi anni tutto sarebbe peggiorato. Lo faceva raccontandogli dettagliatamente azioni di gente o descrivendogli le ipocrisie familiari che conosceva bene. Gli raccontava di come la violenza può anche non provocare dolore.
Lo teneva fuori da tutto, lo aveva cresciuto nel dono prezioso dell’ingenuità e nella coltura dei buoni sentimenti, con sane dimostrazioni di buonsenso di cui era dotato. Diceva: “La gentilezza non ha prezzo, è gratuita”. Lui una volta chiese a suo padre del perché bisognava essere gentili e suo padre gli rispose: -Perché no?
Quando cominciò a uscire di più di casa capì quello che intendeva suo padre: una volta un gruppo di ragazzi maggiorenni lo prese di mira e insieme lo picchiarono a sangue, lo legarono a una panchina e dopo, quando il tramonto enunciò tempo di cena, gli spensero vari mozziconi sulle braccia. Così, senza senso, senza un valido motivo. E non fu l’ultima volta, ne seguirono molte altre di angherie, fino all’estremità dell’abitudine. Una volta se l’erano dimenticato legato e quando, a sera tarda tornarono sul posto, i ragazzi lo notarono e gli pisciarono addosso, poi lo slegarono e lo lasciarono tornare a casa. Le loro menti idearono quest’altro divertimento. Sentì che lagente, più che divertirsi, ormai fosse suggestionata solo dal pensiero di conoscere fin dove la molla del loro conflitto morale potesse estendersi.
Tornato a casa suo padre lo ripulì, lo medicò e attese. Poi gli chiese cosa provasse.
-Li vorrei picchiare, papà!– urlò piangente.
-Lascia stare.
-Ma perché?
-C’è tempo.
-Come, papà?
-Pensa a te e basta.
-Ma loro …
-Loro sono loro e tu sei tu. Tu sei diverso. Troverai un’altra soluzione.
Passarono pochi anni, di libri e di angherie, di bulli e silenzio. Pensò anche a uccidersi. Si sentì inadeguato, estraneo, diverso. Proprio come aveva detto suo padre: sei diverso. Pensò: “Ma è utile esserlo?”. Non sapeva come uscire da quella vergognosa omertà contro una violenza che la parola non era in grado di scalfire. Ma era deciso a fidarsi delle parole di suo padre, che era sempre pronto a ricordargliele.
Pochi anni dopo suo padre morì e gli lasciò una lettera.
Se c’è una forza che ti permette di non avere paura di quello che pensi, che può salvarti dalla castrazione mentale, quella è la letteratura. Come si dice: una persona non và oltre la sua conoscenza, il suo vocabolario.
Voglio esprimere tutta la mia ingenuità, adesso. Alcuni mi hanno detto, nel corso della mia vita, che l’ingenuità non è altro che l’ignoranza di come funziona il mondo, l’uomo. Io ho sognato di un uomo che era capace di esserlo in tutte le circostanze, ma non lo sono stato e non lo sarai mai neanche tu, figlio mio: ma forse tuo figlio o il figlio di tuo figlio potrà godere di questo dono, non lo so. Io credo che l’ingenuità possa essere rapportata a qualcosa di molto fragile, prezioso e facilmente derisorio: la fede. Una fede che può morire come tutte le fedi.
Io credo che bisogni incoraggiare l’ingenuità e non denigrarla con disprezzo solo perché chi ne è caratterizzato, esprime concetti che non sono attuati a livello pratico o sembrano inattuabili, estremamente fantasiosi o addirittura favolistici: un mondo che esiste nell’idea ha diritto di avere una possibilità. Ma al contempo l’ingenuità ha i suoi aspetti negativi, vale a dire ignorare di forza il senso di realtà. Naturalmente, chi ha potere di decidere per se stesso, come te, figlio mio, saprà che anche se non bisogna sbilanciare le energie su un concetto a scapito di un altro che ne è funzionale, a volte fare questo è utile e si chiama sacrificio. Le idee nascono perché qualcosa di quello che vediamo nel mondo a noi non piace. Il momento in cui non ci sarà più alcun problema, l’uomo farà a meno delle idee, ergo, la vita dell’uomo può riassumersi nell’esistenza continua dei problemi e la volontà nel risolverli.
(3.continua)

Se il potere è la più alta repressione della debolezza
QUARTA PUNTATA

Ne trovò tante altre in una cassetta chiusa a chiave. La chiave suo padre l’aveva nascosta nella fessura di un gradino della scala che conduceva alla cantina. Un posto dove sedeva spesso, dove rifletteva e scriveva. Quelle lettere le bruciò tutte, senza pentirsene, perché ritenne giusto che fosse suo esclusivo beneficio ricordarle, e che per ricordarle fosse decoroso verso il pensiero di suo padre, preservarle con diligenza nella fallibilità della sua memoria. Ne lasciò integra solo una che avrebbe portato per il resto dei suoi giorni ripiegata nel suo portafoglio.
Ora sono pronto, dice un potente alla fine della sua ascesa. Ansima e respira forte come una donna alla rottura delle acque. Deve farcela, il peso del governo, che sia un padre di famiglia o un padre di stato, o un padre del mondo, il respiro si percepisce e deve essere percepito solo dentro se stessi. Il potere è la più alta repressione della debolezza. La logica dei serpenti è nelle prime file della minaccia, a riposo nella fossa, con l’attesa del tempo, l’attesa dello sgretolamento di ogni sicurezza. Aspettano, con l’indice sul muso, suggeriscono agli altri di stare in silenzio, di fare lo stesso, che il potente vacilla, ma ci vuole tempo, e loro sono sempre pronti, hanno valutato ogni mossa, perché la preda inafferrabile ha tutto il tempo di studiare il suo predatore. La preda si preoccupa di ciò che gli è vicino.
Non dondolarti. Non agitare le mani nel silenzio. Non abbassare lo sguardo. Non cacarti sotto. Sii lucido. Dì ciò che hai da dire come se fosse la cosa più importante in quel momento per il mondo intero. Non farti invidiare. Cogli le lame nelle parole. Profitta dell’amore altrui per i tuoi benefici. Uccidi anche tuo figlio se può servire alla sopravvivenza del tuo operato. Ignora l’odio basso, che non conosce nulla del tuo peso. Credi fermamente in quello che fai come se ne dipendesse la tua vita e quella di tutti in ogni attimo. Perché è vero. Tutti desiderano quello che tu sei in grado di fare, ma pochi sono in grado di fare ciò che tu sai fare, per questo i nomi sono pochi, le lame sono tante. La promessa di protezione e di guadagno in tutte le sue forme richiede la creazione di un pericolo che tu dovrai creare, e malgrado tutto, che tu dovrai controllare. Tu devi convincere che puoi farlo. Fomentare l’odio è facile, controllarlo richiede una preda che non ha il potere della tua convinzione, ma soprattutto di eccitazione e commozione: la causa comune è fonte di uno spirito organizzato e rivoluzionario. Il potere non ha requie, l’uomo ne ha. Ci vuole mano ferma.
La forma di potere più utile è possedere il vero senso di realtà, ma soprattutto impedire agli altri di averlo.
Quando sei vicino alla fine della vita questo senso di realtà diviene più chiaro, come se il sole filtrasse nelle zone adombrate di una giungla esotica, sfondasse i suoi confini rivelando ciò che soffoca il respiro. Sparisce tutta l’insofferenza, lo sporco della vita perde il senso come lo perde il tempo, schiacciato e ripiegato, che denso si accartoccia su se stesso negli ultimi rantoli. Una lucidità sovraumana, che evacua il piano dell’esistenza originale, come se ti vedessi al di fuori di te stesso, come se tu fossi a metà dal maturare l’idea del mondo senza di te, che non completerai mai; in quel momento potrai avere il perfetto senso di realtà, quando ti servirà ormai a poco. È l’istinto di chi ha valutato la sua vita con la stessa preziosità che si dà a una pietra qualunque, ma senza pensare che quella pietra non valga comunque qualcosa, quanto la sua irripetibilità.
Dopo averla riletta per l’ennesima volta riprese respiro, la ripiegò e la ripose nel portaschede del portafoglio.
Aveva parcheggiato l’auto in un sentiero di campagna, nascosta dietro un deposito di lamiere in cui erano custoditi utensili e attrezzi. Si cambiò le scarpe e indossò dei guanti di lattice.
Percorse la terra nel buio più assoluto, tagliando per i campi coltivati e raggiungendo lo scorcio di terra schiacciato verso il muro che faceva da strada da accesso a un noceto fradicio d’acqua. Lontani erano i richiami delle civette e sulla sua testa sentiva svolazzare i pipistrelli e staccarsi le gocce di pioggia dalle punte delle foglie.
Superò la lingua di terra, tenendosi in ombra dietro un tronco al passaggio delle auto sulla strada principale. Di fronte c’era una stradina stretta tra due case che intersecava la statale e la via provinciale; all’imbocco sulla provinciale di fronte a lui la strada s’incurvava morbida, agevolando l’inserimento in strada grazie a uno slargo d’asfalto e brecce che, per chi era più avventato, risparmiava la noia di dare la precedenza.
Era lì che il suo obiettivo svoltava sempre per evitare i semafori. Quando ci fu solo silenzio attraversò la strada fino ad affiancarsi al palo della luce spento, adiacente all’angolo del muro della casa a sinistra. La cavità orale della notte inghiottiva tutta quello che si distanziava almeno dieci metri dai suoi occhi. Risacche di eco dalle montagne lontane. Sudari di foreste che coprivano le montagne e di cui si scorgevano le forme gotiche fruscianti nel vento, impossibili da vedere nelle parti in cui il buio era immenso. Qualche cane abbaiava e in risposta un altro e un altro ancora.
L’attesa non lo corrodeva, sapeva aspettare. La pazienza era un gioco affine alla sua capacità di impegnarsi in passatempi. S’impegnò a scalciare verso gli alberi pietre che raccoglieva da terra; scrisse qualche pensiero che gli passava per la testa sul taccuino che teneva nella tasca posteriore dei jeans; immaginò, ripensò e tagliuzzò biglietti del pullman nel tentativo di comporre origami.
Di tanto in tanto allungava il collo verso le finestre serrate, ascoltava i rumori più nascosti e tornava a giochicchiare. Nel buio la sua faccia assumeva espressioni a lui sconosciute. Si rendeva conto del contorcersi dei suoi lineamenti, dei sorrisi e degli spasmi nervosi che provocavano vibrazioni intestinali. Sentiva che il silenzio, miscelato all’attesa per atti inconfessabili, era un prodigioso lassativo, un piacere anale che spesso, nelle prime intrepide “operazioni”, lo aveva colto fino a fargli saltare i piani.
(4.continua)

 Quella lama che scatta nell’aria gelida
QUINTA PUNTATA
Quando dal quadro analogico del suo orologio
 vide che l’ora era matura, posizionò a terra la sua arma segreta artigianale: una striscia dentata compressa a molla da un meccanismo a rocchetto che scattava nel momento in cui un dente di metallo veniva sollevato.
Si accosciò e si sedette sulla brecce fredda e umida e perse tempo a estirpare fili d’erba che odorava e spezzettava. L’aria gelida che gli si appoggiava addosso proveniva bassa dalla strada, passava attraverso la trama sdentata della foresta, come la bocca marcia di un vecchio centenario da cui la morte risaliva la laringe e accedeva nel mondo col suo miasma.
Osservava da dietro il muro l’imbocco della strada dove vedeva sfrecciare le nude e allungate sagome delle macchine in corsa che avvertiva arrivare dal tremore sotto i glutei intorpiditi. Si tenne pronto. Svoltò prepotente una golf duemila grigio metallizzato. I fanali lo accecarono per un momento. Aveva studiato i tempi per una settimana di pedinamenti e sopralluoghi notturni.
L’auto sfrecciava veloce e nel momento in cui lui strinse il dente di metallo da sollevare, l’auto aveva già consumato venti metri che completavano metà del tragitto. Attese senza che il suo cuore sussultasse e quando il rombo del motore designò nella sua mente una prossimità di una decina di metri, fece scattare il congegno: la striscia di metallo stridette e scattò, l’apice della testa di alluminio cozzò contro la parete opposta.
Si schiacciò spalle al muro e al passaggio dell’auto gli mancò il respiro per la ventata prepotente degli pneumatici scoppiati. Sentì un urlo provenire dall’abitacolo sopraffare il clamore del botto e poi aprì gli occhi, osservò la deriva del veicolo, che andò a schiantarsi a ridotta velocità contro il terzultimo albero della prima fila oltre la strada: un albero giovane, cosicché il troncò sussultò e si piegò lentamente fino a far emergere una parte del piede piena di radici.
Doveva fare presto, immediatamente. Si alzò, riprese il controllo, estrasse il coltello dalla tasca posteriore dei pantaloni. Dalle finestre giungevano voci allarmate. Si affiancò al finestrino. Il pallone dell’airbag si era sgonfiato e il ragazzo si stava lamentando semicosciente, girava gli occhi spaesato, le mani si agitavano senza controllo, forse alla ricerca del telefono. Il finestrino era calato.
Senza pensarci due volte fece scattare la lama, il suo braccio partì come una frusta e con una precisione serpentina la punta del coltello recise la carotide. La faccia del ragazzo si rianimò, gli occhi si sgranarono; si portò le mani alla gola. Lui ascoltò il gorgogliare provenire dalla gola, le bolle di sangue che gli scoppiavano in bocca, il sangue che fiottava sul bianco dell’airbag e il tettuccio. Fece due passi indietro e poi, osservando la sua vittima con maniacale principio di controllo, si accertò che la morte fosse a due passi.
Prima che una delle finestre si spalancasse, la sua figura nera si era già mischiata al buio del noceto, in proiezione verso l’auto. Ci mise poco o niente a tornarsene a casa. Salì di corsa, aprì la porta del suo appartamento con cautela e produsse quanto meno rumore possibile. Dentro la casa era illuminata, la televisione accesa a basso volume e un telefono messo in prossimità della porta dove lui aveva registrato telefonate finte per ingannare i vicini. Scivolò dentro e si lasciò il mondo alle spalle.
Dopo essersi scrollato di dosso i vestiti pregni di sudore, indossò il pigiama e ripose tutti i vestiti in una borsa. Andò d’istinto in bagno e quando vide la sua figura riflessa allo specchio ebbe un sussulto. La sua faccia sempre bianca, di un pallore funebre, pareva scomparire dietro le indagini che il tempo, mai stanco, svolgeva sul suo trascorrere, imprimendogli insenature e macchiandogli la pelle. E in quelle insenature di fianco gli occhi, la bocca, la gola, non c’era suono o parola. Nessun effetto scatenante. Ricordi si, ma silenti: bobine mute e scolorate. Il tremore della mano gli consolidava il senso di sparizione che lo stava cogliendo e, come da poco tempo gli stava accadendo, si sentì costretto a incidersi la carne del petto con uno dei tanti coltelli che aveva nascosti per casa. Giunse un dolore che lo calmò parzialmente. Finse di piangere e straziato di non riuscirci soppresse delle urla. Gli bruciava la testa.
Andò in salotto e su Youtube azionò il video di una scaletta di musica classica napoletana. Per scusarsi delle sue colpe pensò che non bisognava mai dimenticarsi che il crimine, in realtà, è una risposta.
Andò in cucina e prese una bottiglia di Aglianico e un bicchiere, tornò in salotto e si lasciò cadere nella poltrona e cominciò a bere fino a perdere i sensi.
Si svegliò all’alba con immagini di lui con la canna della pistola in bocca o puntata al cuore. Il polso era intorpidito e stanco e i tendini rigidi. La pistola caduta a terra e senza sicura.
Giunse sotto il palazzo della madre che era mezzogiorno. Spense l’auto e poi si fermò, col sottofondo le chiavi che dondolavano ancora infilate nell’accensione. Cinque minuti, poi dieci. Un’attesa preparatoria. Un camerino per il trucco del sorriso, del tutto apposto, del si sta bene, che bella giornata. E intanto fuori dal finestrino, tutta l’assonanza del mattino dal cielo plumbeo come il suo umore. Il telefono squillò rianimandolo.
(5.continua)

 


 

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L’AUTORE
Giuseppe D’Avino, nato a Nola nel 1992, ha conseguito la laurea in cultura e amministrazione dei beni culturali alla Federico II di Napoli con una tesi sul cinema indipendente dei fratelli Coen e la bibliografia completa di Cormac McCarthy. Appassionato di cinema, letteratura e manga. Sul nostro portale ha già pubblicato il suo primo racconto Morte ai piedi dei santi

 

 

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