Minaccia pioggia; mi affretto sull’ampia scala del terrazzo del sagrato della chiesa. Pochi, in piccoli gruppi, aspettano che inizi la funzione. Non riconosco nessuno e nessuno mi rivolge un saluto. Entro nella chiesa già quasi tutta occupata; trovo un posto negli ultimi banchi e mi accomodo.
Mi guardo intorno perplesso; volti che non riconosco, saluti non corrisposti e persone, che mi sorridono, alle quali non riesco a collegare nessun ricordo; spingo lo sguardo fra il gran numero dei presenti che riempiono la chiesa soffermandomi su fisionomie trasformate dagli anni così come apparirà la mia agli altri; altri ai quali, in tempi ormai lontani devo essere stato legato da frequentazioni pressoché quotidiane. Arrivano altre persone alle quali non saprei dare un nome e nemmeno un ricordo. Il funerale di un collega diventa una passerella di sconosciuti.
La grigia signora che mi saluta è la collega che guardavo con simpatia ed alla quale, forse, ho anche rivolto un timido quanto infruttuoso approccio? Un completo smarrimento ferma i miei pensieri. Se non ricordo il mio rapporto con amici e colleghi la mia realtà risulta senza memoria. Penso che lo stesso sentimento appartenga a tutti gli altri; potrei chiedere ai presenti quanti saprebbero collegarmi nella loro vita.
Esistiamo in rapporto agli altri: e ora, qui, siamo una folla di persone sole, senza memoria e senza passato.  Ed allora chi siamo, chi sono?
Un brusio e un rumore di passi annuncia l’entrata della bara che avanza fino all’altare dove viene deposta su bassi scanni; la segue un piccolo corteo credo di parenti più stretti ed altri pochi intimi. Qualcuno depone un piccolo fascio di fiori; l’omaggio della famiglia? Ora non ricordo nemmeno chi sono i parenti dei quali non conservo nessuna immagine o particolare ricordo.
Una musica, appena accennata, da inizio alla funzione. Tutti si alzano in piedi; un mormorio, del quale percepisco poche parole, accompagna il sacerdote nelle sue omelie.
Rispetto all’altare sono seduto piuttosto indietro e questo, insieme alla mia sordità, mi esclude da gran parte della cerimonia. Mi è facile estraniarmi; mi chiedo se sono qui per un omaggio ad un collega molto stimato o non, piuttosto, per rispondere anch’io ad un rito al quale pochi, anche convinti atei, riescono a sottrarsi. La ripetizione di una tradizione senza alcuna riflessione sul suo significato non mi appartiene. Non ho alcun rapporto con la pratica religiosa anche se, ora, non saprei dire una causa precisa. Certo una pigrizia ma anche la consapevolezza della necessità di un profondo esame sulla vera partecipazione ad una fede, esame che ho sempre rimandato e che, ora, alla fine della mia vita, mi sembra anche inutile.
Mi guardo intorno senza un’idea; mi distraggo seguendo lo spazio della chiesa e soffermandomi sui particolari della cappella presso la quale siedo. Sia l’altare che la grande pala non mi sembrano di alcun interesse artistico; del resto, in tutto questo ampio luogo sacro non riesco ad individuare elementi importanti. La chiesa, pur di antica fondazione, deve aver subito trasformazioni profonde che hanno cancellato ogni traccia delle sue precedenti strutture. L’anonimo spazio, risultato finale, ha condannato la chiesa a una sua insignificanza artistica; motivo questo che aumenta, se possibile, il mio disagio.
Al rito sacro e alle parole del sacerdote, segue, come ormai è abitudine, la commemorazione da parte dei parenti ed amici particolarmente cari all’estinto. È un rito consolidato con uno svolgimento che sembra rispondere ad una consuetudine alla quale nessuno può sottrarsi; tutti sanno che questo momento arriverà ed attendono.
Ogni oratore ricorda i meriti e il ruolo svolto dal defunto al quale testimoniano la loro stima. Parole che non sempre suonano convincenti ma che nessuno mai vorrà contestare. Tutto risponde ad una retorica, un rito al quale riesce difficile, ed anche inutile, sottrarsi; sentimento che sembra riguardare la maggior parte dei presenti. Non c’è posto per risentimenti, rancori o antiche gelosie. Ora l’estinto appartiene ad un pensiero positivo e non c’è dubbio che le qualità ricordate le possedeva tutte.
Alla mia età ogni funerale viene vissuto come una prova generale e mi consente un approccio sereno con la morte. Lo svolgimento della cerimonia mi conferma l’intenzione, quando sarà giunto il mio momento, di andar via nel modo più anonimo possibile. Una piccola commemorazione, rigorosamente civile, pochi, pochissimi parenti e poi, addio: una fiamma distrugga tutto quello che di mortale sarà rimasto di me. Se poi potessi far disperdere le ceneri nel mare, ecco, non vedo migliore addio da una vita che ho amato molto.
Mi sono distratto richiudendomi nei miei pensieri. Dalla porta, aperta sul piazzale dell’ampio sagrato, entra, prepotente, il garrito dei gabbiani che scivola via sovrastando, per un attimo, le parole del rito. È, involontariamente, un richiamo alla vita che continua; almeno a me così piace pensare.
L’aria calda di questo inizio di primavera ha portato in città molti uccelli e i gabbiani, almeno sulla collina, da qualche anno ormai, sono diventati sempre più aggressivi. Fanno un largo giro seguiti dal loro stridulo verso che si allontana per poi ritornare.
Ecco mi sono distratto di nuovo e questa volta seguendo il loro tempo; mi sembra che seguono sempre lo stesso intervallo anche se non ho la possibilità di controllare. Quando ritorna il silenzio del loro verso io rientro nella funzione sacra.
«Il professore aveva passione per la disciplina, passione che riusciva a trasmetterci; il professore ha avuto la capacità di creare una scuola; il professore è stato una guida sicura, un maestro; ciao maestro, riposa in pace».
Le parole dell’ultimo fra i tanti allievi, giovani e meno giovani, concludono la lunga cerimonia. Non occorre aggiungere nulla. Il prete, seguito dai chierici, si è allontanato dall’altare.
Ora bisogna aspettare che la bara sia trasportata all’esterno della chiesa, poi il saluto ai parenti concluderà la commemorazione. Ormai non conto più le volta in cui mi distraggo; non ho avvertito il frastuono; qualcuno dice, ad alta voce, qualcosa che non capisco.
Mi sembra di sentire: «Il gabbiano, il gabbiano; non vi muovete, non lo spaventate, andrà via». Da dove sono seduto non vedo e non ho l’idea di che cosa stia succedendo. Che cosa dicono, chiedo ma nessuno ha capito; poi è un attimo e fra i banchi, sopra le nostre teste, un gabbiano vola veloce verso l’uscita. Mi è sembrato che avesse qualcosa nel becco.
«I fiori, i fiori, ha preso i fiori» dice qualcuno. È una scena surreale, che ha dell’incredibile. Non c’è spiegazione possibile. Restiamo fermi, attoniti, Ci guardiamo scambiandoci sguardi interrogativi. È inutile chiedersi che cosa possa aver provocato questa azione da parte del volatile.
Tutti mormorano cercando una spiegazione plausibile. Non sono facile all’emozione ma ammetto che questa scena l’avrei potuta immaginare solo in un film, mettiamo, di Wenders.
«Il nonno». La voce di un bambino rompe questa atmosfera di attesa nella quale tutti sono fermi. È solo una parola, pronunciata ad alta voce, alla quale non riesco a dare alcun significato temendo anche di aver sentito male.
Poi qualcuno ride e altri applaudono. È certamente una reazione liberatoria in un’atmosfera sospesa; l’incantesimo è rotto. Lentamente tutti usciamo sul sagrato continuando a interrogarsi sull’incredibile avvenimento.
La bara, ormai, è stata sistemata nell’auto del trasporto funebre. Gli addetti attendono solo che i parenti salgano sulle loro auto per poter partire. Fermi, ai due lati, lasciamo che il corteo si allontani seguendolo con lo sguardo. Restiamo ancora prima di andar via; molti, tentano di recuperare lontane memorie e ricordi che li accomuna ma l’inspiegabile, innaturale avvenimento è ancora l’oggetto principale dei loro comenti. Ogni ipotesi lascia tutti poco convinti. Perché? Io credo che sia stato il modo più giusto e più poetico di concludere una cerimonia di addio.
Ora il cielo è sgombro da ogni nuvola. Pensare che anche il gabbiano abbia seguito il feretro, è un’idea che pochi avranno avuto e che io non ritengo di esprimere ad alta voce.
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Foto da Pixabay
L’AUTORE
Già professore ordinario di storia dell’architettura all’università Federico II di Napoli, Francesco Divenuto è autore, tra l’altro, di  numerosi saggi su riviste specializzate e di  due romanzi “Il capitello dell’imperatore. Capri: storie di luoghi, di persone e di cose” e “Vento di desideri “(edizioni scientifiche italiane). Tra gli ultimi libri realizzati, quelli a più voci dal titolo La casa nel Parco. Un giorno tra il Museo e il Real Bosco di Capodimonte (AGE 2020), Agorà, ombre e storia nelle piazze di Napoli (La Valle del Tempo, 2021) curati con Clorinda Irace e Mario Rovinello, e Un giorno lungo una vita. Storie di tanti e di noi stessi (La Valle del Tempo 2024) dove raccoglie anche alcuni racconti pubblicati sul nostro portale come quello intitolato “Madre”.

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