Fino al 17 giugno, nella Reggia – Museo di Capodimonte, vi saranno due opere a confronto: una del Seicento e un’altra del Duemila. L’una è un dipinto, “Il Martirio di Sant’Agata”, di Francesco Guarini (o Guarino) (1611/1651), l’altra è una scultura, “Femme Couteau” (Donna Coltello), di Louise Bourgeois (1911/2010).
La mostra è parte di un progetto intitolato  “Incontri sensibili”, nato dall’amichevole collaborazione tra Laura Trisorio, direttrice dello Studio omonimo, Andrea Viliani, direttore del Museo Madre, e Sylvain Bellenger, direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte. Al Madre vi è stata la proiezione di un film e un talk su Louise Bourgeois, mentre allo Studio Trisorio  c’è, fino al 17 giugno, “Voyages Without Destination”, una retrospettiva con disegni e bronzi  dell’artista francese. L’intento della mostra a Capodimonte è quello  di stimolare, attraverso il confronto tra un’opera contemporanea e un’altra più antica, la capacità di osservazione dello spettatore. “Osservare l’opera d’arte almeno per un minuto è necessario alla sua comprensione.” – ripete Bellenger. Che, alla domanda di una ragazza “ma a che serve l’arte?” risponde “a conoscere te stessa”.
“Il martirio di Sant’Agata” è una pittura molto bella. Raffigura il mezzobusto di una giovane donna, che si copre il petto con un panno bianco macchiato di sangue. La Santa è una greca catanese del III secolo. Martire cristiana, fu bruciata viva dopo aver sopportato il martirio della resezione del seno, per volontà di un suo pretendente respinto, Quinziano, un uomo molto potente, il console romano della città.
Guarini, nato nell’Avellinese  e quindi napoletano per formazione,  ha dipinto la figura della Santa, precisandone le fattezze di donna “napolitana”: la carnagione chiara, gli occhi espressivi, le labbra morbide, i capelli scuri. Amando e rispettando la bellezza, la dolcezza e la fierezza della sua femminilità. In effetti il pittore esprime, santificandola, la concezione della donna che si aveva all’epoca dalle nostre parti. “Il martirio di Sant’Agata” è una delle tantissime immagini di santi e madonne del periodo controriformistico, quando la Chiesa Cattolica le diffuse, per contrastare la propaganda del Protestantesimo.
Ma  questa sant’Agata si può anche considerare in relazione alla tradizione religiosa della Magna Grecia che, a Napoli, privilegiava le divinità femminili dando importanza alle donne.  Perché Napoli nasce come porto, come città marinara, dove gli uomini andavano per mare e le donne, a terra, dovevano sbrigarsela da sé. L’autonomia delle donne, di conseguenza, era un fatto necessario, rientrava nella normalità. Cosicché si può pensare che qui le cosiddette conquiste femministe fossero piuttosto avanzate.
E quindi è quasi naturale che a Napoli anche il Sessantotto abbia avuto una connotazione femminile con il vivacissimo movimento artistico, (pittura, poesia, danza, cinema…) delle Nemesiache di Lina Mangiacapre, che, diffusosi in Europa, approdò anche negli USA, dove, nel National Museum of Women in the Arts di Washington, esiste ancora una Sezione Napoletana, organizzata dal Centro Donna del Comune di Napoli, diretto da Annamaria Scardaccione.
Di questo Sessantotto ha anticipato alcuni temi Louise Bourgeois, che è considerata la prima artista femminista.
Ora, nella Reggia-Museo di Capodimonte, accanto a “Il Martirio di Sant’ Agata” c’è la sua “Femme Couteau”. La violenza contro la donna è l’argomento che accomuna queste due opere. Ma nell’una la violenza subita dalla vittima è pudicamente nascosta, nell’altra  è palesemente mostrata.
In verità, si sarebbe preferito accostare alla “Femme Couteau il dipinto “Giuditta e Oloferne” di Artemisia Gentileschi, ora in mostra a Palazzo Braschi, che esprime parimente una palese violenza, ma quella di una donna contro un uomo. Artemisia Gentileschi, è noto, ha subito realmente una prevaricazione da un uomo che l’ha stuprata, sverginandola, una violenza assassina, che colpisce a morte l’intimo di una sensibile giovane donna e la segnerà per tutta la vita. Artemisia con la sua pittura lo dice. Eppure c’è chi, con scarsa intelligenza e sensibilità umana e artistica, ha scritto che questa esperienza è per la pittrice “un episodio del tutto marginale”.
Nella sua “Femme Couteau”, la Bourgeois esprime chiaramente la sua concezione della donna. Qui la donna è una sorta di bambola di pezza (e può far pensare alla canzone di Patty Pravo che si ribellava all’uomo che la considerava una bambola). Questa bambola è fatta di scampoli di tela grossolana, cuciti insieme e imbottiti, per formare una figura con evidenti attributi femminili: dei grossi seni come gonfi di latte e un grosso ventre come gravido di prole. Però manca delle braccia, di una gamba e della testa. E’ stata tagliata in  pezzi da un grande coltello, un rasoio maschile gigante, che le è rimasto conficcato nella gola.  In verità, più che l’immagine della donna (dal latino domina= padrona) questa è l’immagine della femmina, quella che Louise da bambina non avrebbe voluto essere.
Nel film mostrato per l’occasione al Madre, abbiamo saputo delle sua vita, delle sue opere, delle sue ansie. Che in un suo scritto ( è stata anche scrittrice) attribuisce al “tragico” disagio – lei dice- che provava per “lo sforzo di farsi perdonare il fatto di essere nata femmina”, mentre suo padre, peraltro incallito dongiovanni, desiderava un maschio. Di conseguenza Louise fin da piccola aveva odiato il suo essere femmina. Nella “Sezione Contemporanea” del museo di Capodimonte vi sono altre due opere della Bourgeois, che le ha donate, nel 2008, dopo una sua  “personale”, in cui  mostrava situazioni femminili raccapriccianti  e  ribadiva il suo odio per la femmina che era in lei.
E forse è proprio Louise, ormai adulta finalmente mascolinizzata, quel grande rasoio che taglia la gola di quella bambola di pezza, che sarà, fino al 17 giugno, in una teca di una sala del museo di Capodimonte, accanto alla Sant’Agata di Francesco Guarini (o Guarino).

 

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