Viaggio nel mondo enogastronomico, che resiste a logiche di mercato e ordinanze. Con questa intervista ilmondodisuk entra nel pianeta del food, del beverage e dell’aggregazione alla luce delle restrizioni sociali in merito all’emergenza Covid-19.
La prima tappa di questo itinerario è Pepi’s vintage, american bar che si trova nel pieno centro storico di Napoli, in via San Domenico 23. Qui troviamo Federica Mazzei, classe 1987, anima di un progetto tutto al femminile ispirato all’arte della miscelazione e alla somministrazione di bevande di alta qualità, con uno sguardo alla street art e all’aggregazione consapevole.
Federica, come nasce il “Pepi’s vintage”?
«A me piace definire il mio locale uno street bar. Il Pepi’s è un locale moderno, frutto di un lungo percorso di studio, professionalizzazione e ricerca nell’arte della mixologia e del beverage. Dietro la preparazione di ogni cocktail esiste un’accurata selezione dei prodotti ed una passione nel saperli miscelare per somministrarli al pubblico. Proprio per questo, dispiace veder svilita questa professione, che viene accomunata ai bar generici, dove invece non si pratica alcuna miscelazione. Noi portiamo un valore aggiunto a questo settore, che merita una trattazione a se stante».
Quanto è cambiata la tua attività alla luce delle restrizioni anti-Covid?
«In questi mesi si sono succeduti numerosissimi decreti e ordinanze. Io e altri  colleghi del settore – persone che hanno investito anni di competenze e risorse economiche – ci siamo attenuti a tutte le regole, molto spesso  controverse e contraddittorie, che hanno fortemente penalizzato il nostro lavoro. Se non rispetto una regola o un cavillo, rischio la multa o la chiusura del locale. Dopodiché, fa rabbia fare pochi metri e vedere che altre attività se ne infischiano della situazione, vendendo alcool a basso prezzo e favorendo la concentrazione di un alto numero di persone. Sembra sempre che le sanzioni valgano per alcuni e non per altri, che magari hanno le spalle coperte in altri modi, non propriamente legali. La sensazione che ho è che più si restringono le regole, più viene penalizzato chi le osserva. Perché i distributori di alcool h24 restano aperti, come restano aperte quelle attività che somministrano cicchetti sottobanco a un euro agli adolescenti. Io faccio una gran fatica, ma non demordo, perché qui stiamo provando a sviluppare anche cultura».
In che modo?
«Intanto, la differenza la facciamo proponendo la qualità al posto della quantità. In questo street bar effettuiamo un’accurata ricerca dei prodotti da somministrare, utilizziamo tecniche avanzate nella miscelazione, studiamo abbinamenti, curiamo la presentazione dei cocktail. Ma non c’è solo questo! Qui al Pepi’s abbiamo sempre mantenuto uno sguardo al mondo della street art. Abbiamo ospitato decine di artisti di strada, che hanno potuto esporre le proprie opere riqualificando un vicolo abbandonato, e non si contano i musicisti che hanno proposto la propria arte in serate di vernissage o aggregazione. Questo locale ha un movimento di persone attorno. Se stiamo sopravvivendo a restrizioni e ordinanze varie, lo dobbiamo solo grazie alla qualità che proviamo a offrire ogni giorno. Chiaramente, questo implica che i guadagni puoi averli soltanto a lungo termine, grazie ad una fidelizzazione della clientela, che è più ridotta rispetto ad altre dinamiche di cui parlavo prima, ma ti sceglie per la passione e la cura che metti nel tuo lavoro. Non a caso, il Pepi’s viene selezionato da un pubblico più adulto. La scrematura sulla quantità delle persone nasce da una cultura del bere che è completamente diversa e richiede consapevolezza non solo in chi somministra, ma anche nella clientela, in un processo osmotico».
Parliamo della cosiddetta “movida”. Una delle principali chiavi di interpretazione della diffusione del contagio da Covid punta il dito contro attività come la tua, accusate di favorire assembramenti di persone. Cosa ne pensi?
«Penso che tutte le ordinanze fatte sin qui siano posate sull’ignoranza del cosa sia il lavoro in questo settore. Per le ragioni che spiegavo prima, la generalizzazione porta alla pura e semplice distruzione di chiunque stia faticosamente tentando di fare qualcosa di buono. Con altri colleghi, nel mese di maggio elaborammo un testo, che vogliamo riprendere e diffondere in modo virale. Questo documento si chiama “Costretti ad aprire” (http://costrettiadaprire.altervista.org/testo-completo/) e raccoglie una serie di dubbi, riflessioni, criticità legate allo svolgimento della nostra professione nel corso del problematico passaggio dalla Fase 1 alla Fase 2 dell’epidemia. Di base, bisogna comprendere che il termine “movida” è completamente fuorviante e non ha nulla a che vedere con attività come i bar, che nascono come luoghi di aggregazione, in cui si incontrano amici e si tenta di fare socialità».

In alto, in evidenza: l’insegna del Pepi’s vintage, sito in via San Domenico Maggiore, n. 23. In foto: Federica Mazzei sulla soglia del proprio locale. (Photo credit: Valentina Guerra)

Ma questa socialità, attualmente, non può costituire un pericolo per la diffusione del contagio?
«Certo. Ma bisogna tenere in considerazione due elementi reali, che stridono con i Dpcm e le ordinanze della Regione Campania. La prima, è la conformazione urbanistica di Napoli, contraddistinta da dedali di vicoli stretti e strade piccole, soprattutto nel centro storico. La seconda, è che risulta singolare il voler chiudere alle 23:00 bar e ristoranti per impedire assembramenti, quando poi, queste concentrazioni di persone si svolgono puntualmente nei trasporti pubblici, negli uffici, nelle scuole, nei luoghi di lavoro… In altre parole, chiudere prima alcune attività o costringere all’asporto non vuol dire limitare i danni, Nella Circumvesuviana ci si assembra ogni mattina sui binari e nei vagoni. Così come nelle linee della metropolitana o degli autobus».
Ritieni che ci sia un pregiudizio su alcuni settori, come i bar ed i luoghi di aggregazione giovanile?
«Io temo che dietro queste ordinanze non ci sia un’ottica di prevenzione sanitaria, ma soltanto il tentativo di accontentare un certo tipo di elettorato che non comprende la nostra attività e la condanna. Se punti il dito contro un settore che fa girare l’economia e produce reddito per migliaia di lavoratori, stai cercando semplicemente il capro espiatorio. Perché se si fosse realmente voluta impedire la diffusione del contagio non si sarebbero dovuti aprire i confini nazionali, né si sarebbe dovuto consentire la libera circolazione fra regioni. Chi ci governa, dovrebbe preoccuparsi di meno dei consensi elettorali e di più della messa in sicurezza di lavoratori e cittadini».
Torniamo al documento di cui parlavi: “Costretti ad aprire”. E’ un grido soffocato o un urlo di protesta?
«Quel testo è stato elaborato assieme ad altri professionisti del settore. Vi raccogliamo una serie di spunti. Noi avevamo messo anche in dubbio la fattibilità della riapertura, perché se lo Stato ti dice che ci sono le garanzie per poter svolgere in sicurezza la tua professione, ma poi ti punta il dito contro e ti dice che favorisci la diffusione dei contagi, non ti sta realmente aiutando. Probabilmente, non esistevano e non esistono le condizioni per poter riaprire una serie di attività, ma allora si dovrebbe immaginare un poderoso meccanismo di sostegno economico ad alcuni settori che risultano potentemente danneggiati dall’epidemia. A peggiorare il quadro e, se possibile, a renderlo ancora più schizofrenico, sono subentrate le ordinanze del Presidente della Regione, Vincenzo De Luca. Nella catena infinita di ordini e contrordini, adesso ci si impone l’apertura dalle ore 15:00 alle ore 23:00. Ma noi non siamo una caffetteria. Il nostro è un locale notturno. Se prima dovevo lavorare otto ore e più al giorno per pagare cinque salari, adesso dovrei racimolare in due ore e mezza l’incasso».
In che senso, due ore e mezza?
«E’ chiaro che dalle 15:00 la gente non esce in strada a bere, Nei locali come il mio, che aprono a cose normali nel tardo pomeriggio per chiudere a notte fonda, le persone vengono per fare aperitivo o bere un drink dopo cena. Giustamente, chi lavora non può bere se non da una certa ora in poi. Quindi, la finestra che c’è concessa per poter fare cassa – da cui trarre il pagamento dell’affitto, delle utenze, del personale, della merce – si riduce enormemente! Non solo. Col discorso poi, del distanziamento fisico – lo chiamo così, perché è orribile definirlo “sociale” in un luogo che punta ad essere centro di aggregazione – devo attenermi alla separazione entro un metro fra le persone. Se prima potevo servire da bere cinque drink, adesso posso servirne solo due e se viene qualcuno che desidera fruire del mio locale, che è molto piccolo, sono costretta a mandarlo via! Ecco perché intravedo uno scenario nero. Non a caso, sono stata costretta a ridurre anche il personale. Quindi, per tornare al documento che ti citavo, abbiamo provato ad esprimere proprio queste perplessità, immaginando che settori come il nostro andrebbero riconosciuti e sostenuti, non criminalizzati, perché svolgiamo un importante servizio di accoglienza, socialità, cultura».
Cosa faresti per migliorare la situazione del tuo settore?
«Cambierei la filosofia della notte. Pensa che gli street e gli american bar non hanno neppure un codice Ateco [combinazione alfanumerica che identifica un’attività economica – ndr]. Nei fatti, locali come il nostro rientrano nella categoria di pub, caffetterie e pasticcerie. Il settore notturno non è riconosciuto o definito. Ciò vuol dire che per lo Stato esistiamo in termini di imposte da pagare, ma non abbiamo alcun diritto. E questo, come sappiamo, è anti-costituzionale! A me piace la mia professione, amo la notte. E spero che si comprenda che, oltre alla sicurezza sanitaria, occorre tutelare la sicurezza economica e sociale di tutti».
Se dovessi rappresentare la realtà odierna con un cocktail, quale sarebbe?
«Sicuramente un drink molto acido e amaro».
©Riproduzione riservata 

Federica Mazzei all’apertura pomeridiana del locale. (Photo credit: Daniele Maffione)

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