Fino al 19 marzo Intesa Sanpaolo propone nel proprio museo napoletano delle Gallerie d’Italia in via Toledo, la mostra “Artemisia Gentileschi a Napoli”, dedicata al lungo soggiorno napoletano della pittrice, documentato tra il 1630 e il 1654 e interrotto solo da un viaggio a Londra tra il 1638 e il 1640. L’esposizione è curata da Antonio Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio con la consulenza speciale di Gabriele Finaldi. Di seguito, un approfondimento sull’ultima sezione della mostra su Artemisia, dedicata a quattro favole mitologiche.

di CARMINE NEGRO

La parola mito deriva dal greco mỳthos (Μῦϑος) e significa racconto. Tutte le civiltà per spiegare gli enigmi dell’esistenza sono ricorse alla narrazione di particolari gesta compiute da dei, semidei, eroi e mostri. I miti hanno avuto il compito di interpretare i fenomeni naturali, legittimare pratiche rituali, confermare istituzioni sociali. Alle volte sono stati utilizzati  per rispondere ai grandi quesiti, come l’origine di tutte le cose, il futuro e l’immortalità, o a domande più personali e intime come i conflitti e le passioni.
La conoscenza della mitologia è profondamente radicata e fa parte della vita quotidiana degli antichi greci che considerano la mitologia come parte della loro storia. Anche l’antica Roma ha avuto le sue narrazioni mitologiche: sono legate alla nascita della città, alla successiva adozione della mitologia greca ed etrusca, a quella acquisita dai popoli dei territori conquistati
Nella Roma del 1600 le più illustri famiglie della nobiltà romana, dalle quali provengono anche papi e alti esponenti del clero, hanno iniziato a mostrare interesse per l’antichità classica. Alcuni, come i Farnese, cominciano ad allestire collezioni di reperti archeologici e una ricchissima collezione di statue antiche.
Per ospitarle, viene costruita un’apposita Galleria nel loro palazzo romano, Palazzo Farnese, ed affidato al pittore bolognese Annibale Carracci l’incarico di decorarla ad affresco. Questa committenza aiuta a sancire la nascita del classicismo seicentesco e a delineare i dettami del gusto che domina in tutto il Seicento.
Il pudore del Medioevo ha limitato la rappresentazione artistica a temi più specificamente religiosi. Con il Rinascimento[1] prima e il Seicento[2] dopo, si ha il ritorno della corporeità e la ricomparsa, in grande stile, del nudo artistico dopo lunghi secoli di occultamento. I soggetti religiosi dei secoli precedenti vengono così affiancati da quelli storico-mitologici risalenti al paganesimo, soprattutto sotto forma di allegoria.
L’ultima sezione della mostra su Artemisia, costituita da opere eccezionali, per qualità esecutiva, vitalità espressiva e profondità tematica è dedicata a quattro favole mitologiche. Alla Gentileschi appartengono Corisca e il satiro di una collezione privata e il Trionfo di Galatea della National Gallery of Art di Washington. Massimo Stanzione è l’autore di Orfeo dilaniato dalle baccanti della Collezione Fideuram – Intesa Sanpaolo, mentre Diana De Rosa del Ratto d’Europa, di una collezione pri
Il dipinto Corisca e il satiro propone una scena, tratta dalla commedia pastorale Pastor fido di Giovan Battista Guarino pubblicata nel 1589 a Venezia, in cui un satiro lussurioso, in cambio di un promesso rapporto amoroso ha inutilmente donato un arco, una veste, un velo ed un paio di eleganti coturni alla bella ninfa di cui si è invaghito. Quando tenta di afferrare Corisca e pensa di averla acciuffata per i capelli si ritrova in mano una finta treccia con cui la fanciulla aveva adornato il capo. Caduto, nel tentativo di inseguirla e possederla, osserva incredulo la ninfa che sfugge alla sua presa.  
Galatea è una figura della mitologia greca, una delle cinquanta ninfe del mare, le Nereidi, figlie di Nereo e di Doride. Tutte risiedono in fondo all’oceano col padre, ed hanno il compito di assistere i marinai. Il mito narra dell’amore di Galatea per un giovane bellissimo di nome Aci. Il ciclope Polifemo, innamorato della ninfa ed invidioso del giovane cerca di attrarla, senza successo, col suono del suo flauto; quando vede i due amanti al chiaro di luna in riva al mare, accecato dalla rabbia, scaglia un grosso masso di lava che schiaccia il pastorello e lo lascia senza vita.
Galatea piange tutte le sue lacrime sul corpo, ormai inerme, del suo amato; Zeus e gli dèi, mossi a pietà, trasformano il sangue del pastorello in un piccolo fiume, conosciuto dai greci con il nome Akis[3], che nasce dall’Etna e sfocia in una piccola spiaggia vicino a Capo Molini  dove i due amanti erano soliti incontrarsi
La tela Trionfo di Galatea, appartenente alla Collezione della National Gallery of Art di Washington, è probabilmente il quadro dipinto per don Antonio Ruffo, danneggiato nel viaggio da Napoli a Messina, a causa di un di un maldestro imballaggio effettuato dal nipote del mecenate. Venne riportato nell’archivio come Galatea che siede sopra un Granchio tirata da due delfini e accompagnata da cinque tritoni[4]. La realizzazione della tela testimonia la collaborazione di Artemisia e Bernardo Cavallino che partecipa alla stesura del dipinto nella realizzazione della forma e dei volti dei tritoni, oltre al trattamento vellutato delle superfici.
Appartiene a Massimo Stanzione l’opera Orfeo dilaniato dalle baccanti, raro dipinto profano dell’autore. Orfeo, figlio del re Tracio Eagro e della Musa Calliope, fu il più famoso poeta e musicista mai esistito. Apollo gli dona la lira e le Muse gli insegnano ad usarla: il suono della sua musica ammalia, ammansisce le belve, fa muovere alberi e massi. La sua fama è legata soprattutto alla tragica vicenda d’amore che lo lega alla moglie Euridice: un giorno si imbatte nel pastore Aristeo che cerca di usarle violenza ma, mentre cerca di fuggire, inciampa in un serpente e muore a causa del suo morso.
Orfeo, disperato per la sua morte, discende nell’Oltretomba con la speranza di convincere Ade, re degli inferi, a concedergli il permesso di riportare Euridice sulla terra. La sua musica, dolce e lamentosa, incanta tutti ed induce Ade, dio degli inferi a restituire Euridice al mondo dei vivi con una sola condizione: Orfeo non dove guardarla fino a quando non giunge alla luce del sole.
Euridice segue Orfeo su per l’oscura voragine, guidata dal suono della sua lira, ma appena arrivato alla luce del sole Orfeo, forse per verificare che Euridice lo stia davvero seguendo o perché  impaziente di vedere il volto dell’amata, si gira troppo presto e in questo modo la perde.
C’è chi sostiene che il cantore si gira per non affrontare in futuro il dolore già provato e così lo stesso desiderio che lo ha portato a ritrovarla lo induce adesso a perderla[5]. La tradizione mitologica narra che Orfeo fu ucciso delle Menadi, o Baccanti, le invasate e frenetiche adoratrici di Dioniso ma sulle motivazioni esistono più versioni.
Virgilio nelle Georgiche, racconta che Orfeo pianse per sette mesi la morte della consorte e rifiuta qualsiasi attenzione femminile; è stato questo a scatenare l’ira delle Menadi o Baccanti, che lo fanno a pezzi con lo sparagmòs[6], una pratica utilizzata per dilaniare un animale o più raramente un essere umano  con lo scopo di mangiarne le carni crude come sacrificio in onore a Dioniso. Tutte le versioni del mito, comunque, coincidono nell’affermare che, dopo lo sparagmòs, la testa gettata nel fiume Ebro cade proprio sulla lira, galleggia e continua prodigiosamente a cantare, metafora dell’immortalità dell’arte. Nel dipinto di Stanzione è rappresentata l’uccisione di Orfeo.
Nel quarto decennio del 1600, quando l’attività di Artemisia conosce il suo apogeo, Diana De Rosa realizza l’opera Ratto d’Europa. Si tratta di una favola mitologica resa preziosa da una fine attenzione ai dettagli: la preziosità del panneggio,  l’acconciatura ingioiellata e il mento marcato d’Europa, che mostra tutta la sua sensualità.

DIANA DI ROSA (ANNELLA) Napoli, 1602-1643, Ratto di Europa, olio su tela collezione privata


Ovidio, nelle Metamorfosi, racconta che Zeus si innamora di Europa, figlia di Agenore, re di Tiro, mentre la osserva su una spiaggia raccogliere fiori insieme a delle ancelle. Per averla, incarica Hermes di guidare i buoi di suo padre dove si trova la fanciulla. Assume, poi, le sembianze di un candido toro bianco che colpisce la giovane donna per bellezza e mansuetudine. Ignara di chi si cela sotto l’aspetto taurino e delle intenzioni erotiche provate da Giove, lo accarezza e adorna di fiori le piccole corna. Quando sale sul suo dorso il toro la rapisce e la porta attraverso il mare fino all’isola di Creta. Qui Zeus rivela la sua identità ma lei resiste: riesce a sopraffarla solo quando si trasforma in aquila. Europa sposa Asterio, re di Creta, che adotta i suoi figli e li nomina suoi eredi. Suo padre Agenore manda i figli in cerca della sorella ma nessuno si reca a Creta e lei non viene mai più ritrovata.
Il racconto riportato nelle quattro tele di questa sezione trae origine dalle antiche civiltà mediterranee quella greca e quella romana, prende la forma compositiva della cultura Seicentesca e viene presentato oggi in un contesto completamente differente. Il tema è il conflitto di genere ed a trattarlo, oltre a Massimo Stanzione, ci sono due donne Artemisia Gentileschi e Diana De Rosa.
Come si sa, lo stupro subito da un amico del padre e il successivo processo sono gli eventi che influenzano in maniera evidente la carriera artistica di Artemisia; dalle sue opere emerge una grande determinazione ed una notevole forza espressiva. Con Giuditta che decapita Oloferne, l’artista, si presenta come una donna che combatte con fermezza e concentrazione, consapevole dell’assoluta necessità di quel gesto.
Con Corisca e il satiro non c’è una morte violenta che denuncia un sopruso, ma la rappresentazione di un soggetto pastorale, una trattazione che può accompagnare conversazioni piacevolmente ludiche negli intrattenimenti cerimoniali delle corti.

ARTEMISIA GENTILESCHI
Napoli, dopo il 12 agosto 1654 Corisca e il satiro olio su tela, Collezione privata


Nel 1993 la storica dell’arte Mary DuBose Garrard[7] palesa che Artemisia sceglie di dipingere l’episodio perché la pittrice è interessata a rappresentare la capacità delle donne di sfuggire con l’astuzia e con l’inganno alle mire di pretendenti lussuriosi.
Judith Walker Mann[8], altra storica dell’arte, osserva che del soggetto illustrato, si conoscono poche rappresentazioni e tutte in area nordeuropea: molto probabilmente il tema è stato indicato alla pittrice da un committente colto, anche se ancora ignoto. Reputa poco convincente l’interpretazione della Garrand che lega la scelta del tema alla vicenda personale vissuta dalla pittrice e la sua identificazione con la ninfa quale esempio di opposizione delle donne alla prepotenza maschile.
Nel testo teatrale del Guarino, infatti,  viene presentata come simbolo della natura femminile subdola e ingannevole oltre che immorale, lussuriosa e bugiarda. Del resto si può anche pensare che Artemisia l’abbia scelta proprio per contrastare una tale rappresentazione comica del tema, visto che quando è stata pubblicata nel 1589 ha avuto un enorme successo. La sua rappresentazione in un contesto paesaggistico scarno, costituito da un tronco d’albero, precariamente inclinato, evoca una natura boscosa, inospitale e selvaggia che si posiziona vicino ai due protagonisti collocati in parallelo ad indicare una difficoltà drammatica: due mondi che non si incontrano.


(Urbino 1483 – Roma 1520)
Trionfo di Galatea
affresco
Roma, Villa Farnesina (public domain)

La Galatea di Artemisia ha un antenato nobile nella loggia di Villa Farnesina a Roma, l’affresco di Raffaello il “Trionfo di Galatea”. Il dipinto raffigura la ninfa che cavalca il cocchio a forma di conchiglia trainata dai due delfini mentre è circondata dalla giocondità di tritoni, nereidi e altre divinità marine. In cielo tre puttini sono pronti a scoccare le loro frecce verso di lei, ma lei ha lo sguardo fisso proprio sull’angioletto che nasconde la faretra dietro la nuvola, a simboleggiare l’amore platonico. Il trionfo cui allude il titolo dell’affresco, dunque, è quello dell’amore puro che si oppone alla libidine ferina rappresentata da Polifemo. Uno dei due delfini, animali nobili che amano i propri figli, sta divorando un polipo, per il quale l’accoppiamento è addirittura mortale, a conferma della purezza di Galatea. Il risultato è una scena corale in cui tutto amplifica il trionfo della bella ninfa e adombra il suo selvaggio amante.

ARTEMISIA GENTILESCHI
Roma, 1593 – Napoli, dopo il 12 agosto 1654
Trionfo di Galatea
olio su tela
Washington, National Gallery of Art

La bella ed elegante Galatea di Artemisia ha la stessa torsione della figura di Raffaello, ma la postura di gambe e piedi è di chi va alla ricerca di equilibrio e di stabilità ora che ha scelto il suo viaggio. A trasportarla è un granchio che, per sua natura, è insidioso come lo fu quando pizzicò Ercole impegnato ad uccidere l’Idra di Lerna. Il suo sguardo non è diretto verso un amorino nascosto tra le nuvole ma sembra rivolto a Polifemo da cui si allontana per Aci un semplice pastorello. A ravvivare la concitata scena del mare non ci sono amorini e formose nereidi ma solo tritoni che con il flauto e i corni a forma di chiocciola, sembrano annunciare la tempesta. Galatea trionfa perché libera: ha ripudiato Polifemo perché deve essere lei a scegliere chi amare. Non conosce ancora il futuro e le lacrime che quella scelta comporta ma avverte la solitudine di chi va controcorrente. 
Europa[9] è una splendida fanciulla quando Zeus se ne invaghisce e decide di farla sua. Sapendo che non sarebbe riuscito a sedurla con il suo fascino, decide di utilizzare uno stratagemma: trasformarsi in un toro bianco. Da qui il viaggio verso Creta ma anche il passaggio all’età adulta della giovane donna. Il dipinto di Diana De Rosa descrive proprio questa scena: il momento dell’inganno. Mentre le compagne continuano a giocare con la loro infanzia sulla spiaggia Europa, ignara, accarezza il toro bianco che si mimetizza mansueto e docile. Il suo sguardo luminoso si mostra sospeso e statico perché privo di consapevolezza. L’evento sembra ineluttabile e l’inganno di Zeus, che riesce nel suo intento, prototipo di quello dell’uomo, segnato dal destino.

MASSIMO STANZIONE
Orta di Atella, 1591 o 1592 – Napoli, 1656
Orfeo dilaniato dalle baccanti
olio su tela
Collezione Fideuram – Intesa Sanpaolo

Quando Orfeo vede scomparire Euridice negli inferi si dispera, perché sa che non la vedrà più e decide allora di non desiderare più nessun’altra donna. Per tener fede a ciò che si è proposto, quando un gruppo di Baccanti ubriache lo invita, rinuncia a partecipare a un’orgia dionisiaca. Le Baccanti, infuriate, lo uccidono e lo fanno a pezzi  perché non accettano di essere respinte dalla misogina castità del cantore tracio.
L’astuzia di Corisca per sottrarsi al sopruso, la libera scelta di Galatea, l’inganno di Europa e la consapevole rinuncia al sesso di Orfeo consentono un riflessione sui ruoli sessuali ed sul mito che, come trasfigurazione di un originario episodio, qualche volta drammatico o cruento, ci consente di analizzare l’aspetto legato al conflitto di genere che sembra riproporsi immutato nel tempo.
Oggi, la parola “mito” fa riferimento a un modello, un personaggio esemplare al quale ispirarsi, nel quale riconoscersi o identificarsi. Si tratta di cantanti, calciatori, attori, ballerini e personaggi, che sembrano essere dotati di qualità straordinarie o fornire prestazioni eccellenti. In altre parole sono ritenuti miti quanti nella loro vita sono stati in grado di raggiungere uno scopo e che soprattutto hanno ottenuto successo, fama, denaro. Attualmente il sostantivo “mito” e l’aggettivo “mitico” sono utilizzati frequentemente per enfatizzarne l’eccezionalità. In effetti è lo stesso obiettivo che si erano prefissati i narratori dell’antichità, quando hanno costruito il complesso e affascinante mondo della mitologia. Il modello mitologico dunque si rintraccia nella storia di tutti i popoli e, in qualche modo, si è mantenuto vivo fino ai giorni nostri; al contrario di quelli di ieri i miti contemporanei velocemente si creano e altrettanto velocemente rischiano di essere distrutti.
Un tempo il mito veniva raccontato oralmente, oggi è diffuso attraverso i media. I mezzi comunicativi moderni hanno la capacità di trasformare alcuni personaggi in divi[10], e di imporli in ogni angolo del mondo. La grande quantità di fonti e strumenti per trasmetterli pone un altro problema: quello dei tempi. La civiltà occidentale accentua ed esaspera questa difficoltà con un altro mito quello della velocità che si sublima in simultaneità a scapito della meditazione. La lettura che consente una riflessione fa fatica ad imporsi e così finisce che ci si rivolge ai soli titoli o alle sole immagini. Per realizzare un’immagine attraverso una tela ci vogliono diversi giorni o diverse settimane, per crearne una con una foto meno di un secondo. Anche le foto, però, sono in numero elevato e, sui social deputati alla loro condivisione, si finisce per scorrerle velocemente qualche volta senza neanche soffermarsi sull’inquadratura che l’autore ha immaginato e realizzato. Si resta in attesa che qualche immagine colpisca la nostra fantasia, un bagliore primordiale capace di colpirci e trasformare le emozioni in una fonte quasi unica di informazione. Il pericolo è una sorta di regressione alla primitività che ci porta a pretendere, quanto abbiamo bisogno per soddisfare le nostre necessità, senza eccessiva attenzione alle esigenze e ai bisogni dell’altro.
L’allegoria, il racconto di una azione che dev’essere interpretata diversamente dal suo significato apparente, tipica delle favole mitologiche, rischia di essere muta per chi non ha il tempo e la voglia di vedere, ascoltare e leggere.
La parola mito creata in un tempo lontano per indicare il racconto ha tuttora lo stesso significato e risponde anche allo stesso bisogno: ricercare certezze. In una società fluida, come quella di oggi, una tale indagine è difficile da costruire e realizzare forse perché è l’incertezza la chiave per interpretare il presente.
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Nella foto in copertina, il Museo di Intesa San Paolo a Napoli che fa parte delle Gallerie d’Italia

NOTE

[1] Il Rinascimento è portatore di una nuova cultura che affonda le sue radici nell’umanesimo.

[2] Il Seicento nelle arti coniuga natura e spettacolo, sfarzo fisico e meraviglia.

[3] Il fiume Aci, detto anche fiume Jaci, denominato nell’antichità, Ἄκις o Ákis, che nasce dall’Etna e sfocia in una piccola spiaggia vicino a Capo Molini, ha un colore rossastro per la presenza di ossidi di ferro. La mitologia greca che costruisce sul fiume il mito dell’amore tra il pastore Aci e Galatea, dopo la morte del primo, li trasforma lui nel fiume e lei nella spuma del mare. Tale amore è stato tramandato dai poeti Teocrito, Virgilio ed Ovidio.

[4]Rispetto alla descrizione riportata alla Galatea della mostra manca un tritone o perché appartenente ad altre copie realizzate dalla pittrice o perché uno dei tritoni sia stato tagliato.

[5] Ringrazio la mia amica la prof.ssa Clorinda Irace per avermi fatto apprezzare questa versione riportata ne “L’inconsolabile” tratto dai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese.

[6] Lo sparagmòs, in greco antico: σπαραγμός, è un rito particolarmente violento: si tratta di dilaniare a mani nude un animale selvatico o domestico in genere mucche o pecore, o più raramente un essere umano, per mangiarne le carni crude. Un sacrificio in onore del dio Dioniso, per celebrare la potenza delle divinità della terra. Con il sangue fresco della vittima, la Menade si riappropriava dello spirito primigenio della madre terra.

[7] M. D. Garrard Corisca and the Satyr in The Burlinghton Magazine , 125 1993

[8] Nicola Spinosa La ninfa Corisca e il satiro pag. 224 da Artemisia Gentileschi Storia di una passione a cura di Roberto Contini e Francesco Solinas 24 Ore Cultura srl, Pero  Milano 2011

[9] La parola Europa, in greco antico: Εὐρώπη, (Eurṑpē) ha origini greche e deriva dall’unione di due termini:  εὐρύς (eurus), “ampio” e ōp “occhio“, con significato di “ampio sguardo“. Un’altra interpretazione la fa derivare dal termine semitico ereb, con il significato di occidente, con cui i fenici indicavano tutti i territori ad occidente della Siria.

[10] Divi gli “dèi” dell’etimologia latina.


LE FESTE/8 e 19 MARZO ALLE GALLERIE D’ITALIA

Per le due ricorrenze del mese di marzo le Gallerie d’Italia, sedi museali di Intesa Sanpaolo a Milano, Napoli, Torino e Vicenza promuovono ingressi ridotti per tutte le donne e per i papà accompagnati dai bambini e propongono itinerari tematici e visite laboratoriali che vedono protagoniste le collezioni e le mostre in corso.
Alle Gallerie d’Italia di Napoli è in programma alle ore 12:30 e alle ore 16:00 la visita guidata “La donna nell’arte”, dedicata alle figure femminili protagoniste di tante opere esposte in collezione e all’evoluzione della rappresentazione della donna nell’arte, dal XVII secolo ai primi anni del XX secolo. (Informazioni e prenotazioni: euro 7,00 a persona, incluso il biglietto d’ingresso. L’attività sarà avviata al raggiungimento di un numero minimo di iscritti. Prenotazione obbligatoria entro il martedì precedente alle ore 14:00 al numero verde 800.167.619 o all’indirizzo napoli@gallerieditalia.com)
Il 19 marzo le Gallerie d’Italia di Napoli propongono alle ore 17:00 la visita laboratoriale per famiglie con bambini tra 6 e 10 anni “Papà portami al museo”. Caravaggio ed i suoi fantastici amici aspettano i bambini con i loro papà per un emozionante racconto che premetterà di scoprire il meraviglioso Martirio di sant’Orsola di Caravaggio a confronto con altri capolavori della prima metà del XVII secolo.
Nel corso del laboratorio sarà possibile scrivere insieme una storia fatta di parole e di immagini. L’attività è rivolta a bambini udenti e non udenti. (Informazioni e prenotazioni: euro 4,00 incluso biglietto d’ingresso. Percorso dedicato a bambini di età compresa tra gli 6 e i 10 anni. L’attività sarà avviata al raggiungimento di un minimo di iscritti. Prenotazione obbligatoria entro il venerdì precedente alle ore 14:00 al numero verde 800.167.619 o via mail all’indirizzo napoli@gallerieditalia.com)

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