L’Italia si piazza al quinto posto in Europa per sprechi alimentari. Secondo un’analisi del Centro Studi “Divulga”, ogni abitante italiano spreca 333 euro l’anno. 146 kg di cibo buttati nella spazzatura, oltre a 0,40 kg in emissioni CO2 a persona (effetto serra).
Il Belpaese ostenta ricchezza mentre affonda nei debiti e fa registrare un Prodotto interno lordo (Pil) poco oltre lo zero virgola. Manda al macero 8,65 milioni di tonnellate di cibo l’anno ancora buono, ogni famiglia spreca 107 kg in 365 giorni (73% del totale).
Già prima della pandemia ci si è interrogati sulla necessità di destinare i prodotti alimentari in via di scadenza, o in eccesso, con la Legge 166 del 2016.
Tre i cardini principali su cui si fonda la norma: riduzione della produzione di rifiuti, promozione del riuso e del riciclo, un Piano nazionale di prevenzione dello spreco alimentare.
Un problema innanzitutto culturale, quindi, che dovrebbe far capire ai cittadini alcuni comportamenti sani, ad esempio, la distinzione tra la data di scadenza del prodotto (tassativa) e quella del “termine minimo di conservazione” (prodotto ancora commestibile).
Come pure frutta e verdura, alimenti che vengono scartati in base ad una sorta di presunta “bellezza”, si scelgono cavolfiori solo se bianchissimi e/o pomodori perfettamente sinuosi. Le “imperfezioni” esclusivamente naturali vengono considerate “brutte” e, quindi, non gradite.
Eppure, al netto della legge 166, Le Regioni e gli enti locali potrebbero fare molto in tal senso. Innanzitutto programmi educativi e campagne informative finalizzati al contrasto sugli sprechi alimentari, peraltro di poco o niente impatto economico.
Recuperare prodotti alimentari, così come quelli farmaceutici, per redistribuirli a fini caritatevoli, fa crescere una società dal punto di vista inclusivo, accentua forme concrete di solidarietà e rinsalda rapporti di vicinato, muove una sorta di “seconda economia” non solo non tassabile, ma anche “curativa” dal punto di vista ambientale.
Infatti, il cibo sprecato brucia risorse economiche e ambientali, sperpera percentuali di PIL, consuma ettari di suolo metri cubi d’acqua, produce tonnellate di anidride carbonica. Insomma, va cambiato radicalmente il modo di consumare.
Eppure, pandemia prima e guerra poi, moltiplicatori naturali di processi inflattivi dovuti innanzitutto all’aumento dei prezzi al consumo dei prodotti di largo e generale consumo, ovvero di prima necessità, oggi dovrebbero indurre, a maggior ragione, a “rintracciare” fasi della filiera alimentare affinché la stessa diventi più sostenibile e meno dispendiosa, Indipendentemente dalla geopolitica del cibo e dalla dipendenza delle materie prime. 
E l’Unione Europea è virtuosa o meno dal punto di vista degli sprechi alimentari? No, il costo complessivo della produzione considerata in “eccesso” è pari a circa 148,7 miliardi di euro. L’Europa a cui apparteniamo non riesce a dare indirizzi correttivi tali da perfezionare la produzione agroalimentare e i consumi delle famiglie. La sua inerzia, in tal senso, è aggravante.
In definitiva, bisogna uscire fuori dalla logica “economicista” e prendere atto che gli “eccessi” alimentari sono diventati, a tutti gli effetti, anche e soprattutto un problema morale. Ovvero riguardano i singoli cittadini nei propri comportamenti quotidiani. Ad esempio, perché non far studiare a scuola, nelle materie da considerare obbligatorie, l’educazione ambientale e i processi legati all’economia circolare? Sarebbe un piccolo ma rivoluzionario esempio del passaggio dal contenitore al contenuto, dalla teoria, spesso inconcludente, alla praticabilità che incide direttamente sugli stili di vita delle famiglie.
Ancora una volta, l’empio e soverchioso occidente combatte contro se stesso e muore per “eccesso” di alimenti, mentre da un’altra parte della terra la vita si ferma per malnutrizione, fame e carestia.
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