Qui sopra, la copertina del libro. In alto, l’armonia con la natura nella solitudine in una foto di martythelewis da Pixabay 

«Se sei zitella, qualcosa non va. In te, ovvio». Quando abbiamo cominciato a pensarlo? Come nel tempo questo vocabolo – zitella – ha assunto significati diversi? In che momento si è tinto di una valenza commiserativa, sprezzante e tristanzuola?
Valeria Palumbo parte da lontano per raccontarci la difficoltà delle donne nello scegliere di opporsi a un destino sociale: il matrimonio, la famiglia e la maternità.
Da duemila anni a questa parte le donne che volevano una vita “diversa” hanno lottato per affermare un diritto non riconosciuto, un comportamento ritenuto socialmente pericoloso e – pertanto –  da sanzionare.
Chi si è ribellata alla gabbia in cui era costretta, l’asfittico ambito familiare, veniva bollata come “malata”, “isterica” e “contro natura” poiché la “naturale” inclinazione femminile – secondo l’opportuna costruzione sociale – doveva essere volta al matrimonio, la vita domestica e la maternità.
Alle donne era precluso lo studio, lo spazio pubblico e lo sviluppo di una propria indipendenza sociale ed economica. L’antichità vide sacerdotesse, vergini vestali e badesse che poterono sfuggire al destino matrimoniale in ragione di un ruolo sociale religioso. La verginità apponeva, diventando manto protettivo, il crisma della accettabilità di una scelta, diversamente, preclusa. Ma fu veramente sempre così?
L’autrice ci spiega che, in verità, ci furono anche donne che poterono scegliere una vita altra dal matrimonio senza necessariamente rinunciare a una frequentazione con l’altro sesso. Attraverso i secoli scopriamo come le donne che nutrivano il desiderio di dedicarsi allo studio, all’arte e al pensiero poterono ritagliarsi spazi minimi per sottrarsi a nozze imposte e subite.
Ci furono ragazze che trovarono la possibilità di seguire la propria passione per lo studio della musica e della pittura rimanendo nubili. Accadeva nel XIX secolo a Venezia dove, le orfane e le bambine indesiderate, venivano avviate – in luoghi denominati Ospedali –  alla musica o al ricamo e il cucito.
Le prime, le “putte del Vivaldi”, spesso vivevano lì l’intera vita senza doversi monacare e potendo, anche, avere delle allieve. Alcune furono compositrici ma, purtroppo, il divieto di rendere pubbliche le opere le ha orbate del loro lavoro consegnandole ai posteri solo come copiste ed esecutrici.
Anche a Napoli ci furono luoghi che ospitavano bambine povere e orfane, conservatori, in cui le giovani potevano dedicarsi allo studio della musica e – nel caso dei conservatori delle corporazioni dell’arte della seta e della lana presso cui andavano le figlie degli aderenti alle corporazioni – anche all’apprendimento di queste arti.
A qualcuno, però, in epoca vittoriana sorse un dubbio: le zitelle erano le donne che nessuno aveva voluto come mogli o, piuttosto, coloro che avevano scartato i potenziali partiti? Rimanevano nubili perché nessuno le corteggiava oppure perché ritenevano che i candidati mariti non fossero da prendere in considerazione?
L’autrice, in una interessante analisi storica, si sofferma sui cambiamenti di prospettiva sociale che portano a vedere le cose da punti di vista rimasti, fino a un determinato momento, inesplorati.
Se il nubilato fosse da ascriversi all’essere scartate o all’aver scartato – subito o agito – ricordiamo che ancora alla seconda metà del secolo scorso il modello socio-culturale era imperniato sulla figura maschile del bread winner.
Questi, il capofamiglia, svolgendo un ruolo attivo nel mercato del lavoro e vivendo uno spazio sociale contribuiva al progresso e al cambiamento mentre alle donne si chiedeva di accudire, procreare e allevare le future generazioni.
La dualità dello schema riservava alle donne non sposate ambiti residuali e poco gratificanti. Con il passare del tempo le cose sono cambiate e abbiamo conosciuto la singletudine: uno spazio sociale, sempre più frequentato, in cui vivono persone libere di scegliere come spendere la propria vita, padrone del proprio tempo, non più commiserate – al contrario talvolta invidiate – attive nel mercato del lavoro, nel mondo delle arti, nelle scienze e nella società.
La singletudine garantisce, quindi, una sostanziale parità nella qualità della vita e nell’accesso alle opportunità? Non ancora, a questo si sta ancora lavorando, ma il sapere da dove siamo partiti e come siamo arrivati fin qui può essere d’aiuto. Conoscere la storia delle zitelle è cosa interessante, utile e buona.
©Riproduzione riservata
IL LIBRO
“Piuttosto m’affogherei. Storia vertiginosa delle zitelle”
Valeria Palumbo
enciclopediadelledonne.it  – i libri
pag. 327 euro 16,00
L’AUTRICE
Valeria Palumbo giornalista, storica delle donne, insegna, inoltre, all’Università Carlo Bo di Urbino ed è tutor al Master di giornalismo dell’Università di Milano. Attualmente giornalista RCS è stata caporedattore de “L’Europeo” e di “Global Foreign Policy”. Membro della Società italiana delle storiche e dell’associazione italiana Public History. Ha scritto diversi libri.

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