Qui sopra, la copertina del libro. In alto, Napoli, magico teatro a cielo aperto
Foto di Matteo Bellia da Pixabay 

Il periodo è il 1600, il teatro a cielo aperto è quello di Napoli, il luogo scelto è tra i più antichi di Partenope, piazza Mercato, persone e personaggi sono i figli della città popolare, i poveri, chi sbarca il lunario inventandosi la giornata. Questo è “Lazzari infelici”, di Peppe Licciardi – Editore LFA Publisher, pagg. 140, Euro 14,00. 
Il libro si mantiene su un doppio filo: da un lato la dura realtà della dominazione spagnola che sente l’esigenza di finanziare le proprie guerre con sempre nuove gabelle contro il popolo che produce e commercia, e dall’altro la compagnia teatrale che direttamente per strada mette in parodia quella triste e sconcertante quotidianità.
L’amarezza e il riso, la miseria e la reazione alla tristezza, l’arrangio che risponde al sopruso, la fatica che stacca la sottomissione, lo scherno contro il potere, la vita che diventa tutt’uno con il palcoscenico. Sullo stesso palco vanno in scena la commedia, vengono lette le disposizioni dei governanti, spesso le nuove tasse, si eseguono le pene capitali e le punizioni corporali.
Potremmo fermarci qui ad analizzare quella Napoli dell’inizio del ‘600, triste, povera, struggente, ma sempre reattiva e pronta a dare battaglia contro il potere ingiusto. Una filosofia di vita che contraddistinguerà i circa tre millenni di “napoletanità” sott a muntagn (‘O Vesuvio), dove quel meraviglioso luogo venne al mondo.
Viva lu Rre di Spagna, a mmorte lu malgoverno è la sintesi di quella Napoli messa a ferro e fuoco da un popolo stremato dai Viceré sguinzagliati sul territorio dagli spagnoli, lo slogan che distingue la devozione alla corona da un lato, ma che non sopporta chi quel potere lo esercita e lo incarna contro il popolo, dall’altro.
Il fiume di parole scorre inesorabile e i capitoli, man mano che si va avanti nella lettura, scandiscono il tempo di una Napoli sui carboni ardenti, presa tra governanti poco lungimiranti e da condizioni di povertà estrema. Ma, allora come ora, la lotta paga sempre.
Le infami gabelle vengono finalmente tolte, sotto il fuoco di fila di Masaniello, il generale buono di lazzari e scugnizzi. Ma il popolo non si accontenta, va oltre e chiede di essere trattato al pari dei nobili.
Il figlio povero (ma bello) di Napoli è ora in grado di contrattare con la corona spagnola, deve resistere a tentativi di corruzione affinché abbandoni i problemi della sua città, ma lo farà alla grande e ne uscirà ancora più forte. Il pescivendolo condottiero è a capo del suo popolo miserabile. La rivoluzione è compiuta.
Ma ben presto trame oscure, pettegolezzi e dicerie sfiancano il popolano investito dalla corona, questa lo circuisce man mano, anche con la complicità di chi gli è più vicino.
Poi il tragico epilogo chiude una rivoluzione di popolo, spontanea, dal basso, contro la nobiltà, il clero ed il potere. Troppi elementi contro, troppo difficile resistere più a lungo.
Un libro, quello di Peppe Licciardi, che scorre facilmente, che pretende attenzione e ti porta per mano, fino a farti immaginare quei luoghi di Napoli protagonisti di quella rivoluzione.
Il musicista napoletano questa volta si immerge in un romanzo riprendendo una delle storie più significative all’ombra del Vesuvio, molto sentita e partecipata dai partenopei, che ruota attorno ad una figura mitologica, anche se fugace, che tenta di “innalzare” il suo popolo, fino a perdersi.
Ancora una volta il grande e unico teatro a cielo aperto più bello del mondo tiene banco,: su questo scivolano storie e uomini che possono fregiarsi di aver calcato quella scena con il timore reverenziale di dover affrontare un luogo magico e sensazionale, triste e dannato, vivo e gioioso, fantasticamente Partenope, mitologicamente sirena.

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