Qui sopra, la copertina del libro
In alto,
Quirante Rives
con il sindaco de Magistris a Palazzo San Giacomo per la recente cittadinanza onoraria che gli è stata conferita

Mancano pochi giorni e saranno 221 anni dalla morte di Domenico Cirillo, medico e botanico insigne che abbracciò, manifestando però tanta ritrosia, la causa della Repubblica Napoletana.
Per la verità, fa notare José Vicente Quirante Rives nel suo romanzo storico Ombra e rivoluzione, mandato in libreria da Colonnese (pagg.240, euro 17,10),
«Domenico Cirillo è stato ucciso due volte. La prima morte, quella ufficiale, avvenne martedì 29 ottobre 1799 in Piazza Mercato, quando fu impiccato dopo Mario Pagano e prima di Ignazio Ciaia e Giorgio Pigliacelli. Aveva sessant’anni ed era il più anziano dei quattro giustiziati di quel giorno. La seconda morte (…) derivò dalla retorica delle biografie quasi agiografiche, che gli furono dedicate nel XIX secolo, da Carusi a D’Ayala e Fontanarosa, e che potevano essere riassunte come segue: Domenico Cirillo è stato un botanico e medico napoletano, gentile e colto, uno scienziato rinomato in Europa, repubblicano nel 1799 e angelo dei bisognosi, condannato a morte per l’iniquità di un re giullare e una regina malvagia, con un trio di inglesi depravati sul fondo: Nelson, William Hamilton e Lady Hamilton».
In realtà, è a cavallo dell’Unità d’Italia che inizia la grande opera di damnatio memoriae della breve dinastia dei Borbone di Napoli. Ma resta questa la vulgata, a distanza di oltre due secoli.

Memoria esistente alla British Library – sezione manoscritti – Nelson Papers – foreign correspondence – Vol. VII – Additional 34947 – pag. 52 e retro.

Quirante ci porta nelle stanze che l’illustre medico frequentò, a contatto con personaggi eminenti suoi contemporanei, per spiegare una trasformazione possibile se è vero, per dirla con Goethe, che «nella vita tutto è metamorfosi, dalle piante agli animali fino all’essere umano».
Al di là del racconto, però, il romanzo di Quirante va letto e accolto anche come ulteriore invito a una storiografia, da anni e anni neghittosa (a parte gli studi precisi e scrupolosi di Mario Battaglini), a rileggere, con il necessario distacco, che deve avere la Musa Clio, e oltre la retorica tutti i fatti, le passioni, i lutti, le ansie e le aspirazioni che si susseguirono nei mesi brevi di quella Repubblica che un altro scrittore non italiano, Jean-Nöel Schifano, citando il dizionario Robert, definisce “astorica parodia della rivoluzione francese” e, di tasca sua, una “buffa e assolutamente abracadabresca parentesi franco-napoletana”.
Schifano nel suo “Dizionario appassionato di Napoli” (edizioni ilmondodoidusuk) è tranchant quando parla di idealismo fanatico «di una manciata di aristocratici napoletani, distanti, ricchi e disimpegnati, in  cerca dei loro ruoli da Danton, Robespierre, Lucile Desmoulins, perché Napoli adottasse una rivoluzione in blu, rosso e giallo, come a voler calzare degli stivaletti alla moda d’Oltralpe».
Parole come macigni, eppure ignorate, che non hanno suscitato interrogativo alcuno. Alla storia si continua a preferire la narrazione fantastica, la favolistica. Comincia probabilmente Dumas con l’amena pretesa: «E in avvenire, quando qualcuno chiederà “Chi era la Sanfelice?” aprirà il mio libro… La storia sarà dimenticata, e il romanzo sarà diventato la storia!»

Un editore moderno, pubblicando ai giorni nostri il suo romanzo, “La Sanfelice”, riporta quest’affermazione sconcertante nella quarta di copertina.
La Storia è però l’esatto contrario dell’invenzione.
Quirante non ha la stessa pretesa. Non scrive cioè la storia con la penna del romanziere.
Fa di meglio: propone suggerimenti, ipotesi e spunti sui quali lo storico, con i suoi strumenti, deve soffermarsi e indagare.
La trasformazione del mite Cirillo in rivoluzionario (meriterà la nomea di “Robespierre napoletano”), scrive lo scrittore spagnolo, sarebbe merito di Cesare Paribelli che aveva portato a Cirillo una copia di una sua traduzione del saggio “Discorso sulla servitù volontaria” di Étienne de La Boétie scritto intorno al 1576.
Lo scrittore spagnolo attribuisce a Paribelli questo pensiero: «Me lo restituì ricco di annotazioni: “Decidetevi a non servire più e sarete liberi”. Le parole che avevo tradotto in prigione lo misero davanti allo specchio. L’uomo libero è cittadino del mondo e Cirillo abbracciò quel cosmopolitismo rivoluzionario che ci unisce in questa bella missione. Lo abbracciai, aveva mostrato il suo carattere morale ed era diventato la persona che voleva essere. Questo e nient’altro è la vera rivoluzione».
Nel suo romanzo, Quirante riprende la lettera che, secondo Benedetto Croce, Cirillo aveva inviato a Lady Hamilton perché, intercedendo con il Borbone, tornato intanto a Napoli, quando svanirono tutti i sogni della rivoluzione, ottenesse la grazia.
Storici locali dubitano dell’autenticità di questa lettera che però non scardina la grandezza d’animo di Cirillo né le sue straordinarie doti d’uomo di scienza, ma ne mostra semplicemente tutta la sua umanità.

Qui sopra e al centro, ultime due lettere autografate di Domenico Cirillo inviate a Lord Nelson, ammiraglio della flotta inglese  mentre era prigioniero a bordo del vascello “San Sebastian” ancorato nel porto di Napoli, datate 14 e 18 luglio 1799



I due autori che hanno fatto entrambi di Napoli una seconda patria, Schifano e Quirante, in definitiva, pur con brevi tratti, pongono i napoletani davanti a una scelta: la storia o la fantasia letteraria.  
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