Tanti anni fa c’era una tonnara a Procida: ora non c’è più.
Vi si svolgeva la “mattanza dei tonni”, un rituale tutto italiano, paragonabile forse alla “corrida” spagnola (il termine “mattanza” deriva dal termine spagnolo “matar”, uccidere).
La “tonnara” o “mandraga” è una rete utilizzata per catturare i tonni, composta da fitti labirinti creati con reti con maglie via via sempre più spesse, ed ancore galleggianti, nella cui morsa sono catturati i pesci, che saranno poi silenziosamente indirizzati alla “Camera della Morte”, dove li attendono gli arpioni dei “tonnarotti”, i partecipanti alla mattanza, gestiti e comandati tutti dal “ras”, il loro capo.
Questo è il rituale antico.
Adesso c’è un rituale moderno, che Manuela Intartaglia, giovane fotografa procidana, ha raccontato nella sua mostra esposta al “Kestè” di Largo San Giovanni Maggiore Pignatelli, a Napoli, inaugurato oggi alle 18,30 e fino al 29 giugno (a cura di Mario Laporta, in collaborazione con il I Corso di Fotografia dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli).
Adesso il rituale è diverso, più preciso, più moderno, più meccanizzato.
I tonni si trovano nelle reti enormi e fagocitanti nel mare dell’isola, dove attendono di raggiungere un peso prefissato, per venir poi uccisi, congelati, inscatolati e inviati rapidamente sul mercato nipponico, dove diventeranno prelibato sushi.
Il procedimento di cattura e uccisione sembra più rapido e meno cruento: vengono indirizzati, dai sub professionisti, dalla loro rete nella quale sono ancora vivi e pronti a lottare, sul pizzo del peschereccio dove li attendono gli assassini: un gancio penetra il cervello del tonno e cos finisce il loro viaggio.
Un rituale in cuispiega Manuela – “si procede con estremo silenzio e l’odore del sangue è stranamente dolce.”
aspro il dibattito a Procida, per questo rituale: i cittadini discutono ancora se la nuova mattanza alimenti il commercio e fomenti l’economia dell’isola o se sia solo un cruento rito di massacro.
L’obiettivo dell’Accademia e di “Procida TV”, che parlano con le fotografie di Manuela Intartaglia, è però un altro: documentare questo rituale, mediante il fotogiornalismo, e lasciare che siano gli spettatori a prendere una posizione a riguardo.

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