Continuiamo a sondare il pensiero artistico contemporaneo, oggi con Pier Paolo Patti, artista di origini scafatesi, autodidatta e multidisciplinare. Il suo linguaggio si avvale dei diversi strumenti media per indagare le contraddizioni sociali vissute dall’essere umano e della sua condizione continuamente divisa tra bene e male.
Pier Paolo, le tue opere sono unite da un lungo filo rosso che vede temi come il dolore, la violenza (intesa in senso ampio, non soltanto necessariamente fisica), l’io rapportato al sacro e agli altri (quindi nel sociale e nella politica), tutti accomunati dall’intento introspettivo. Da che motivazione emozionale scaturiscono queste tue ricerche? 
«Il rapporto tra l’uomo e l’origine del male è alla base di molte mie riflessioni. Nella vita, come nella ricerca artistica, cerco il mezzo per potermi interrogare. I conflitti sociali, l’evoluzione delle religioni e i rapporti internazionali sono temi che per passione seguo dall’inizio della mia formazione autodidatta. Mi ritrovo ideologicamente spesso dalla parte delle minoranze, mi impegno per dar loro più voce con l’ambizione che arrivi ad un pubblico diverso e più ampio possibile. Mi affascina l’idea che l’arte possa essere veicolo privilegiato per parlare del mondo che viviamo fatto molto spesso di oppressione, ingiustizie e diritti umani negati. 
La politica, la religione e il business si intrecciano da millenni e ognuno di questi temi porta dentro di sé più contraddizioni che verità, soprattutto nell’area del Mediterraneo e del Medio Oriente che è la parte di mondo che conosco meglio e che mi intriga di più: l’origine di tutte le grandi cose, buone e cattive.  È questo l’approccio che disegna il mio ruolo all’interno del panorama artistico. Il mio impegno e la mia ricerca sono strettamente legati all’uomo, alle sue origini, ai rapporti sociali. È un territorio di vastissimo interesse con molti aspetti che spesso non si comprendono fino in fondo. La Siria non è un altro pianeta. I naufraghi morti in mare non sono un’invenzione, sono qui, sono morti accanto a noi. Il sistema dell’arte dovrebbe impegnarsi a tenere vivi alcuni temi fondamentali per la convivenza pacifica tra i popoli, temi che i media dell’informazione e la tecnologia reputano sempre più di scarso interesse collettivo».


Hai da poco allestito la tua personale, curata da Antonio Maiorino Marrazzo, alla galleria PrimoPiano di Napoli, per la rassegna “Contemporaneamente” 2020.  Il simbolo dell’ infinito campeggiava sulla locandina e anticipava metaforicamente l’ininterrotto flusso dell’ informazione che subiamo già da tempo, deformata e deformante, disturbante e insistente. In alcuni frame la tua installazione mi ha ricordato il video degli anni ’90 dei Soundgarden “Black Hole Sun” seppure con significato diverso, ma dall’impatto simile...
«L’informazione mediatica di massa ha alimentato negli anni, grazie alla diffusione dei social network, un modo di veicolare le informazioni completamente sbagliato alla radice. Un approccio alle questioni importanti totalmente sovvertito nel nome di una finta democratizzazione d’opinione: tante parole, tanti numeri e pochissimi contenuti.  Durante i primi giorni del lockdown di febbraio, i cronisti dei TG nazionali andavo pian piano trasformandosi nella caricatura di se stessi e a un certo punto si sono loro stessi deformati e rarefatti lasciando soltanto una maschera che dava numeri e informazioni confuse.  Questa suggestione è diventata prima un video per Mundus Imaginalis (happening on-line) e poi in una forma più articolata come mostra da PrimoPiano. Il tema dell’informazione mediatica, sui social e di come essa può essere facilmente controllata o distorta è sempre stato di grande stimolo per la mia ricerca». 
La tua comunicazione artistica utilizza e sperimenta vari linguaggi: video, installazioni, mapping ma anche tecniche artigianali. Come vedi lo sviluppo e l’approccio a queste visioni in Italia? 
«Trovo molto naturale utilizzare diversi media insieme, è un’idea molto vicina alla realtà che ci circonda, che coinvolge diversi sensi. Non credo che si possano individuare singole tendenze o iniziative “nazionali” per quanto riguarda l’arte contemporanea.   Gli artisti si esprimono nell’epoca stessa in cui vivono, questa è una considerazione da non tralasciare mai quando si incontra un’opera d’arte. Per me quello che succede in Italia ha la stessa rilevanza di ciò che accade in Francia, in Libia, in Israele. Mi piace più individuare delle aree di interesse comune, spazi destinati all’arte che non abbiano confini geografici.  È da questa idea di pluralità che nasce il desiderio di utilizzare diverse tecniche in contemporanea. Quale sarà invece l’approccio dei direttori dei musei e di altre istituzioni culturali italiane non posso immaginarlo, faccio già fatica a comprendere cosa facciano adesso». 


Hai fatto numerose esperienze nel tuo ambito, sicuramente ognuna ha per te un significato particolare ma qual è quella che pensi abbia fatto la differenza sia a livello personale che per quello che riguarda il tuo percorso artistico?
«Sicuramente l’esperienza vissuta con il collettivo Di.St.Urb. (Distretto di studi e relazioni urbane) ha rappresentato un periodo di grande fermento, di interscambio culturale e di crescita politica. Fondare quel gruppo di ricerca insieme a Ciro Vitale, Franco Cipriano, Stefano Taccone ed altri, credo sia stata l’azione sterzante del mio percorso artistico. Ospitavamo artisti di tutta Europa, organizzavamo performance, mostre, dibattiti… molte relazioni si sono create e consolidate proprio in quegli anni. 
Alcune cose importanti che sono venute in seguito sono frutto di quell’esperienza: la partecipazione alla biennale di Shyriaevo in Russia ad esempio, la residenza artistica a Teheran, molte mostre in Europa. Sono stati anni di grande impegno e ho incontrato persone che mi hanno stimolato molto». 


Un tuo pensiero sul periodo della pandemia, come lo hai vissuto personalmente, se è stato uno “spazio” per creare o meno e come lo vivi ora.
«Definirei questo intero anno come il periodo della decostruzione. È stato un continuo progettare e disfare, programmare e annullare, rimandare e farlo ancora; ho realizzato molte cose durante questa attività apparentemente calma ma è come non fosse opera mia, non mi emoziona. Le esperienze on-line mi hanno annoiato dal principio e altre attività pubbliche con gli ingressi contingentati o inaugurazioni a numero chiuso le ho trovate spesso sterili. L’emozione che si prova dinnanzi ad un’opera collocata nel suo spazio è insostituibile, vivere quel luogo fisico diventa vitale per l’arte stessa. Nel momento in cui il rapporto umano non c’è più all’improvviso, svanisce l’occasione di confronto, di arricchimento e resta l’arte che parla di se stessa, rimane l’opera al muro, la mera decorazione».  
Infine, la tua idea su Napoli rapportata all’arte contemporanea, artisti e fruitori, in base alle tue esperienze. 
«Trovo la situazione attuale disastrosa, soprattutto quella istituzionale. Napoli ha spezzato il suo legame con l’arte contemporanea, poche e sporadiche cose illuminano una notte buia. Proprio in un momento complesso come questo che stiamo vivendo tutto ciò che non ha una solida struttura crolla e forse sarà un bene, forse l’arte tornerà al centro del nuovo “sistema” che si ricostruirà intorno». 
©Riproduzione riservata

In foto la mostra personale presso la galleria PrimoPiano. Tutte le immagini sono gentilmente concesse dall’artista
https://www.pierpaolopatti.com/roots

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