Patti Smith, Photo-Credits Lorenzo Montanelli,
per gentile concessione della Fondazione Festival pucciniano

Mentre il teatro grande di Pompei stasera (martedì 26 luglio) si prepara ad accogliere Patti Smith, mito del rock (dalle 21), ancora risuona nel parco archeologico l’eco della tragedia greca messa in scena per la rassegna Pompeii Theatrum Mundi, manifestazione estiva del Teatro nazionale di Napoli.
Nell’Epica studiata alle medie, di Ifigenia bastava sapere che fosse sfuggita alla barbarie paterna. Era sufficiente, per la psicologia di un dodicenne già introdotto alle cruente vicende omeriche, sapere che Artemide l’avesse sostituita con una cerva, sapendola lontana da una fine orrenda.
Che una vergine fosse fatta poi tutrice di un sanguinoso culto, in quella Tauride inospitale (corrispondente all’attuale Crimea) lasciandola ad un destino altrettanto orrendo, non importava poi molto, perché si smetteva di indagare.
Sessanta anni dopo che Vittorio Gassmann si calasse nei duplici panni di Oreste ed Agamennone, in una Orestiade curata da Pasolini, Jacopo Gassman porta la sua Ifigenia in Tauride proprio al teatro grande, in un Tour che lo ha visto a Siracusa e lo vedrà a Verona, sulla via che unisce i grandi teatri romani d’Italia.
Jacopo Gassman, alla prima prova con il teatro greco antico, parte da una vicenda che non prevede epiloghi sanguinosi, per quanto sempre predeterminato risulterà il destino dei protagonisti, come in tutte le vicende che ruotano intorno agli Dei greci.
Una trama semplice, Ifigenia è prigioniera della Dea che l’ha salvata, facendone la sua sacerdotessa. Responsabile dei sacrifici umani previsti dal culto è rassegnata ad un destino carico di orrore e che non le da pace. Oreste e Pilade, che nel caso sono fratello e cognato di Ifigenia, sono in rotta verso il tempio di Artemide: l’obiettivo è rubare la statua della Dea, su consigio di Apollo, per placare le Erinni, alla caccia di Oreste, matricida per vendicare l’uccisione del padre Agamennone. Ad un punto dalla morte, Oreste e Pilade ritrovano Ifigenia, creduta morta, e ordiscono un piano di fuga, che si conclude al meglio per tutti.
Una vicenda interpretata, rivisitata e dipinta, scevra dei consueti spargimento di sangue che contraddistingue i drammi antichi. Gassman, con il lavoro coordinato di Gregorio Zurla, Luca Brinchi e Daniele Spanò, propone un paesaggio siderale, un estemporaneo museo che nessuno sarebbe disposto a visitare. Immancabile la cerva morta, a ricordare l’origine del mito, come immancabili le ossa ricordare il sacrificio umano, così anche le armi. Un territorio bianco e nero, che parrebbe uscito da un film di Lynch o di Star Wars, con un palese richiamo a Kubrik: il tempio è un monolite, un blocco cubico animato di vita propria.
Una scena colossale, spazzata da un vento che si immaginerebbe in quel posto. Un’atmosfera cupa e scorante resta attaccata addosso e un senso di languore domina, lasciando interdetti, riempiendo i lunghi silenzi con un nulla che sa di vaghezza, di tuffo al cuore.
L’area di azione dislocata e in cui la protagonista sembra da principio smarrita, per quello che parrebbe mal calcolo se non fosse che porta in una dimensione di solitudine e desolazione interiore apparentemente ricercata. Anche al comparire del coro di schiave greche, le quali più che apportare compagnia e sollievo sembrano acuire il tratto dispotico, elitario di una Ifigenia segnata dagli eventi.
Anna della Rosa, qui protagonista, (ph Centaro) saggia l’estensione del suo ambiente occupando lo spazio ma rimanendone sempre fuori. Sbilanciata costantemente in una situazione che non prevede requie ma la spinge a sacrificare insieme a degli stranieri, le residue speranze di rivedere la sua terra.
L’interpretazione è disarmante. Della Rosa, forte del tratto monotono, contenuto  e costante, parla a scatti con l’esattezza e la freddezza di un cingolato. Gli scatti di voce ne cadenzano poi le movenze. Non un gesto inesatto, quando anche sconvolta dalla tristezza o dalla bellezza si scioglie in brevi gesti di sorpresa spontanea. Si ritaglia insomma il ruolo di protagonista, interrompendo invece di rafforzare una lentezza insita nel tipo di scena.
Oreste e Pelide, sembrano tirati fuori, invece da un libro di avventure per ragazzi. Loro è la spavalderia e lo smarrimento per la dura prova, lo scoramento e la disperazione contenuta nella accettazione di un destino che avviene a prescindere, su cui non si ha controllo se non nei limiti di ciò che si riesce a fare.
Soprattutto l’Oreste interpretato da Ivan Alovisio è preda di attitudini esagerate, di una frenesia senza pause che ne fa una biglia impazzita per tutto l’arco della messa in scena.
Così una Ifigenia in cattività incontra un Oreste matricida e fuggiasco, in preda ad attitudini nevrotiche. Il Contrasto tra due stili interpretativi differenti rende il tutto a tratti estraniante, con pochi momenti si incontro reale.
La classica tragedia lascia poi lo spazio a uno stralcio  di contemporaneo. Gassman stravolge i canoni narrativi e formali, accelerando verso un finale che prevede proiezioni, letture, e persino il coro di schiave costrette in un semicerchio di microfoni. I personaggi si alternano, si rincorrono, tendono a punti differenti, in una quasi totale mancanza di coordinazione narrativa.
Protagonista diventa quindi il tempio monolitico, animato da vita propria e che coadiuva verso un finale serrato e fatto di
inganni.
Nel complesso la Ifigenia in Tauride di Gassman sembra giocata su due livelli narrativi differenti, legati tanto alla severità del teatro greco che agli sprazzi delle nuove poetiche. Oltre ad offrire un finale sui generis, porta tanto lo spettatore avvezzo che quello non avvezzo a domandarsi se quello cui si assiste è un grande spettacolo o meno.
Il Teatro di Napoli chiude con una grande produzione la sua rassegna estiva legata a doppio filo alle sacre pietre, unico legame carnale come dice Ruggiero Cappuccio, con quella tradizione teatrale delle origini che arriva fino a noi. Un modo di ritrovarsi mosso dal perenne dialogo tra palco e platea.
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