L’essenziale è invisibile agli occhi diceva qualcuno ma in questo periodo strano e particolare dove ci stiamo riscoprendo come parte di una collettività più grande, di un tutto che inizia dal particolare di ognuno per arrivare a un’idea di noi, tutto sta diventando più asciutto e l’essenziale inizia a essere ben presente.
Qualcuno inizia addirittura a capire che cosa vuole dalla vita ( io penso sempre di più a Puerto Escondido, il film di Salvatores). Sul balconi non si va più per cantare e il cellulare lo usiamo poco, i videoparty sono meno frequenti. C’è più voglia di silenzio, quello bello. Ci stiamo asciugando.FB_IMG_1574363039476
Avete mai pensato a cosa vi manca davvero in questi giorni? Il sorriso di una donna, l’abbraccio di un amico, il rumore di due bicchieri che si toccano per brindare, il caffè al bancone del bar, a noi napoletani soprattutto, Cosa hanno in comune tutte cose? il contatto, quello fisico tra corpi che si sfiorano, quello degli occhi che s’incontrano, di due mani che si stringono in un saluto. E proprio attorno all’idea di contatto ruota questa chiacchierata con Veronica Rastelli, artista nata svizzera e diventata per necessità napoletana. Quello che segue è un estratto della nostra intervista.
Antonio: Ti ho conosciuto per le tue installazioni e la partecipazione alla biennale di Land Art dei Campi Flegrei. Come sei arrivata al concetto di installazione?
Veronica: Io nasco pittrice. Dopo un po’ però sentivo in me l’esigenza di creare opere che fossero composte da più parti. Non un solo quadro ma moduli che si andassero a sommare tra loro. Volevo realizzare opere come storie alle quali si potesse sempre aggiungere qualcosa. Come se niente dovesse finire veramente.
Antonio: Una tela non ti bastava?
Veronica: Non mi è mai bastata poi ho studiato restauro dei tessuti  e questo ha cambiato il mio approccio alla creazione perché sentivo l esigenza di creare qualcosa di tridimensionale che avesse una forma che io potessi toccare. Da sempre sono molto sensibile all’idea di fisicità. Quando ero piccola e dormivo nel letto a castello con mia sorella mio padre doveva mettere dei pezzi di scotch sotto alla rete del letto di sopra perché tutta la notte io dovevo toccare qualcosa.
Antonio: Siamo tutti un po’ strani sin da piccoli.
Veronica: Questo storia del contatto me la porto dietro da sempre e quando ho iniziato a dedicarmi al disegno e alla pittura ho avvertito l’esigenza di trasferirlo su tela. Volevo rappresentarlo con i corpi che si toccavano, con le mani che sono sempre presenti. Mancano i visi invece, che non mi interessano.
Antonio: E poi che cosa è successo?
Veronica:  Rappresentare il contatto non mi è bastato più. Dovevo toccare, plasmare la materia. Non usavo nemmeno più la tela, ma la carta perché è malleabile, la puoi lavorare. Dopo la intelaiavo. Sulla carta puoi lasciare un segno e un tratto più duro, graffiato che io preferisco.
Con il restauro ho scoperto che il tessuto aveva una sua fisicità. La fibra tessile naturale prende corpo tessendola e con quello vai a creare qualcosa. La prima cosa a cui pensi sono gli abiti, gli indumenti ma puoi lavorarla per creare delle sculture. Nei miei lavori con il feltro io lo plasmo come fosse argilla. Anche nell’installazione di Land Art ai Camaldoli.
Antonio: Certo, ricordo il bozzolo, il nido. Credo sia stata la tua prima opera che ho visto.
Veronica: Quella era plasmata.  Lavorare con i tessuti mi ha dato la possibilità di poter creare opere tridimensionali che posso toccare, vivere. Posso girarci intorno. Ho iniziato a fare installazioni perché doveva essere una cosa che poteva non finire, poteva continuare. Metto un quadro con una scultura e ci posso aggiungere moduli vicino. È una composizione che mi da la possibilità di entrarci dentro, respirare con lei. Il quadro non mi bastava più perché era come uno scudo che non mi faceva entrare nell’opera. MI creava una barriera, un limite.
Antonio: Ma infatti il quadro ha un limite che è proprio della sua forma.
Veronica: Che per lo più è squadrato. Ha un taglio netto che io non amo. Con gli spigoli non mi sono mai trovato a mio agio. Tutto questo mi ha portato all’installazione. Ora quando penso a un’opera mi viene naturale immaginare qualcosa di composto. Non dipingo neanche più. I quadri sono rari oppure fanno parte di un lavoro più complesso. Ho bisogno di questa tridimensionalità,  di grandezza. Deve essere una cosa di ampio respiro. Io per prima prendo aria con l’installazione.
Antonio: Te lo chiedo perché io ho fatto pochissime installazioni e mi sono accorto che le mie installazioni erano per me sempre quadri . Non nascevamo come installazioni, anche se avevo l esigenza di provare altro ma erano sempre quadri.
Veronica: Ho capito , non è così per me. I miei quadri e le mie installazioni sono molto diverse. In pittura sono più sporca e veloce, pochi dettagli, nessuna figurazione canonica. Sono più espressionista. Nelle installazioni il tessuto necessita di lentezza già nella lavorazione. Il processo è diverso, è più delicato. L’opera tessile richiede un approccio più lento e meditativo. Ha un ritmo cadenzato che è più della musica.
Antonio: Però non trovo tutta questa differenze. Nelle opere usi anche materiali diversi, talvolta sono quasi degli assemblaggi. Ritrovo un filo conduttore, ci sono dei punti che tornano.
Veronica: Effettivamente hai ragione. C’è un collegamento, cerco un punto di contatto, non sono così distanti… Vuol dire che sono riuscita a creare un tratto caratteristico.


Antonio: Che va oltre la tecnica che usi.
Veronica: Con tutto quello che uso, con tutti i materiali riesco ad avere un tratto comune, ho sempre quella peculiarità, si mi fa piacere che la noti.
Antonio: Che prescinde dal materiale,dalla tecnica. Veronica c è sempre.
Veronica: Sono contenta vuol dire che ho lavorato bene su di me. Per creare qualcosa di personale devi avere un tratto caratteristico in tutto quello che fai. Una cosa importante per me è il contatto, non solo fisico anche con la natura e le tradizioni. Contatto per me significa fermarsi e conoscere qualcosa, entrarci dentro. Quando ero più giovane il contatto era più intimo, le opere erano introspettive, parlavano molto di me. In gioventù così deve essere, ti devi cercare per poi uscire fuori e capire che cosa hai intorno. Con il tempo ho capito che il contatto non significava più quello che sentivo io, ma doveva essere anche tra me e quello che vivevo e stava attorno a me, con le persone e la città in cui vivo.
Antonio: Quando sei giovane cerchi il contatto con te stesso, vuoi solo che gli altri si accorgano di te, che esisti. poi con il tempo hai bisogno di parlare con gli altri, di confrontarti con quello che c’è fuori. Esci dal tuo mondo e parli di altro.
Veronica: Non è più un discorso intimo ed egoistico ma un discorso universale, sono temi universali. Per me è stato importante anche l’arrivo a Napoli, perché io nasco svizzera. La gente in questa città ha un bisogno impellente di vivere la strada e avere contatti fisici. Contatti continui con le persone attraverso il toccarsi, gli sguardi e la voce. In Svizzera tutto questo non lo vivevo, non in maniera così spudorata, qui non c’è vergogna, non si nascondono. Questa cosa mi ha profondamente impressionata.
Antonio: Quando ti sei trasferita a Napoli?
Veronica: A diciotto anni.
Antonio: In piena formazione, eri ancora una spugna
Veronica: Sono passata da una realtà tranquilla e serena a Napoli, è stato sconvolgente. Questa città per la mia ricerca artistica è stata fondamentale. Per questo approccio così particolare alla vita e per tante altre ragioni.
Antonio: Un aspetto mistico e sacro che permane nelle tue opere.
Veronica: Forse perché faccio la restauratrice. Se ci pensi come lavoro alla fine io dipingo i santi.
Antonio: Ma io mica dipingo polmoni pieni di catrame ( nel tempo libero lavoro in una tabaccheria).
Veronica: Però tu dipingi la gente, sei legato alle persone, al ritratto. Perché? Sei sempre in contatto con la gente.
Antonio: Non ci avevo mai pensato.
Veronica: Incameri questa cosa. Io incamero santi e madonne. E quando restauro una statua, un dipinto antico voglio conoscerne la storia, la vita. Vado a cercare notizie, voglio approfondirne l’iconografia . Mi piace trovare il significato delle immagini e dei simboli
Antonio: Mi ricordo il tuo libro d’artista su Santa Patrizia per il progetto ‘NAcosa . Quell’opera era un trattato di antropologia. Questo aspetto ricorre molto nei tuoi lavori.
Veronica: Perché è legato alla conoscenza dell’uomo, dei diritti, delle esigenze e delle tradizioni. Mi interessa l’essere umano e i  suoi simboli che per me sono importanti. Sapere che cosa ti dicono. Potere interpretare il significato. Napoli è ricca di simboli, di tradizioni, di superstizioni. Io mi faccio sopraffare da questo aspetto.Venendo da fuori mi sono fatta coinvolgere. È un modo per conoscere la città, il popolo e le sue esigenze. Ho interiorizzata tutto questo e mi viene naturale quando creo qualcosa usare questi simboli. Fanno parte della mia comunicazione, il mio linguaggio, sono il mio mezzo per dire qualcosa.
Antonio: Trovo interessante che le tue opere spostano l’asticella della curiosità sempre più in là. Portano a chi è interessato a capire e ad approfondire. Come se la tua conoscenza portasse altra conoscenza.


Veronica: La comunicazione questo dovrebbe fare. Nell’antichità le immagini erano sacre perché si doveva indottrinare il popolo. Oggi la cosa è cambiata però comunichiamo comunque messaggi. È il nostro modo di partecipare alla vita sociale, pubblica. Sono opinioni che tu fai conoscere, è una partecipazione attiva. Non abbiamo verità da dire, non dobbiamo insegnare niente ma possiamo porre l’attenzione su determinati argomenti. Dare punti di vista diversi.
Io cerco di mettere tutte queste cose nelle mie opere. L’attenzione che per me è questo concetto di contatto più ampio.
Antonio: Tutto nasce dal primo contatto che è il tuo personale con il materiale. Però le tue installazioni non sono interattive. Lo spettatore non può interagire con l’opera.
Veronica: Perché il materiale è delicato, ma ho realizzato dei progetti per creare un’opera collettiva dove le persone possono partecipare alla creazione di un lavoro.
Antonio: Così da portare il tuo concetto di contatto alla massima espressione.
Veronica: Ho delle idee fermate su carta. Progetti per residenze artististiche. Devo capire come e quando buttarli fuori. Sono lavori complicati cono il tessuto, vanno studiati bene.
Antonio: Questi progetti ti sono venuti in quarantena, artisticamente come stai vivendo questo periodo?
Veronica: Non ho fatto niente, non riesco a creare, non riesco ad associare quarantena a creazione, mi viene il rigetto. Non lo voglio fare, sto scrivendo e prendo appunti per opere future ma non per forza legate al momento storico. Adesso ho bisogno di fare cose fisiche.
Antonio: Per la tua idea di contatto mi pare non ci sia stimolo. Tutto è venuto a mancare.
Veronica: Non soffro la solitudine. So stare da sola. Però questa è un’imposizione. Un lavaggio del cervello. Stai a casa. Metti la mascherina. Lavati le mani. Mi mette ansia. Tutti questi spot. Non voglio mettere in arte questo momento. Mi rifiuto. Ora non voglio rappresentarlo, poi magari lo trasferirò senza saperlo in qualche opera. Per adesso voglio osservare e riempirmi gli occhi. Sento l’esigenza di essere più pratica.
Antonio: Che stai facendo?
Veronica: Ho bisogno di impegnarmi fisicamente, di stancarmi. Torniamo alla fisicità del contatto. Sistemo il laboratorio, passo la giornata in campagna. Lavoro nei campi, pianto alberi di limoni. Ritrovo il contatto con la terra.
Antonio: Un altro aspetto della tua ricerca che viene fuori. Tu per esempio usi colori naturali, delle tinte che vengono direttamente dai fiori. Tutto torna.
Veronica: Perché sono molto legata alla terra. Dalla Svizzera ho portato con me il contatto con la natura, i prati, le montagne, le passeggiate nei boschi, i grandi laghi. C’è un aspetto contemplativo della natura che a Napoli non abbiamo, il contatto con la terra qui è più ancestrale, ha a che fare con la creazione, è quasi un fatti pratico.
Antonio:  All’inizio la Svizzera e la natura poi arrivi a Napoli e porti questo tuo lavorare con gli elementi naturali all’interno di un mondo che ti porta a cercare il contatto fisico. È un cerchio che si chiude.
Veronica: In Svizzera c’è un rispetto per la natura che farebbe bene a tutti avere. In questo momento storico dovremmo riflettere su come abbiamo trattato la natura e di conseguenza l’essere umano, noi stessi. Dovremmo decidere, cambiare questo rapporto perché altrimenti tutto finisce.
Antonio: “La storia non insegna mai, non cambierà nulla”. Queste sono parole di Francesco Guccini. Io invece dico che tutti stiamo imparando qualcosa.
Veronica: Non lo so, il singolo si abitua. L’uomo si adatta. Deve cambiare a livello globale, qualcosa non ha funzionato. Per me la natura ha detto basta. fermatevi, state andando troppo oltre. La natura è più forte, lo dobbiamo accettare. Noi moriamo, lei rimane. Solo così andrà sempre meglio. Ho fiducia nella morte. è come un seme che va sempre a rinforzarsi. Dopo non c’è una vera fina ma un’evoluzione sempre in meglio. La morte è vita.
©Riproduzione riservata
In  foto, Veronica Rastelli e alcune delle sue opere

 

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