Il conflitto israelo-palestinese ha origini lontane nel tempo. Nel tentativo di fare luce su quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, abbiamo intervistato Maisa Shams, presidente del Centro culturale Handala Alì, punto di riferimento di giovani attivisti arabi e napoletani solidali con la causa palestinese. Questa intervista vuole anche essere un omaggio alla memoria dei 19 colleghi palestinesi caduti a Gaza dall’inizio del conflitto*.

In evidenza e sopra: scatti dalla manifestazione pro Palestina di Napoli, 20 ottobre 2023 [Photo credit: Valentina Guerra]

Chi sei?
«Sono una palestinese di Nazareth, nata cioè nei territori che sono stati occupati da Israele nel 1948. Sono cresciuta politicamente nel Partito Comunista di Nazareth e mi sono trasferita in Italia quando avevo 19 anni per studiare all’Università Federico II Napoli. Siccome già da piccola ho vissuto sotto la repressione di Israele, ho sempre lottato e militato per la liberazione della nostra terra e per i diritti del mio popolo. Appena sono giunta a Napoli, nel 2006, ho proseguito questo impegno. In questo modo, ho conosciuto i compagni napoletani, attivi soprattutto nelle reti studentesche. Poi, ho conosciuto soprattutto Alì Oraney, che è stato per me una guida in città per la nostra lotta. Attualmente, nel Centro Handala sono il presidente della nostra associazione e ne sono la portavoce».
Ci aiuti a comprendere cosa sta accadendo in questo momento a Gaza? «Purtroppo, è in atto un massacro. Tuttavia, quello che accade oggi a Gaza, in Cisgiordania e nei Territori palestinesi occupati non è una novità. Anzi, ci sembra molto strano che il mondo apra gli occhi soltanto adesso per discutere ciò che si sta verificando da lungo tempo. Di sicuro, a Gaza è in corso una feroce repressione -ancora più brutale del solito- da parte dell’esercito israeliano. Dal 2006, la Striscia di Gaza è sottoposta a un vero e proprio assedio e ha subito sei guerre. In Cisgiordania accade la stessa cosa. Gli arresti e gli attacchi, come abbiamo imparato a nostre spese, sono continui. È strano anche che i mezzi di comunicazione o i governi occidentali non abbiano notato quante volte, negli ultimi anni, l’esercito israeliano sia entrato nel campo profughi di Jenin e Nablus o la repressione che quotidianamente subisce il popolo palestinese ovunque vi sia l’occupazione militare o il tentativo di colonizzazione».
Israele dice di aver risposto all’Operazione Alluvione di al-Aqsa di Hamas[1], rimuovendo però le ragioni che l’hanno scatenata. Benjamin Netanyahu, premier israeliano, ha dichiarato di essere pronto a scatenare un’invasione armata nel West Bank, finché non avrà distrutto Hamas, che ha definito un’organizzazione terroristica.
«Più che distruggere Hamas, Netanyahu in realtà sta distruggendo una popolazione civile. I numeri lo dicono. Si superano gli 8000 morti, di cui il 66% sono donne e bambini. Ricordiamo che Gaza è un carcere a cielo aperto, posta sotto embargo e ferreamente controllata dall’esercito israeliano. Pur volendo scappare, i palestinesi non possono farlo. I target di attacco di Israele sono evidenti. Non stanno distruggendo Hamas, perché nel momento in cui bombardano ospedali e scuole, non stanno annientando la resistenza o le milizie, obiettivi militari, ma vittime innocenti. Questa è una scusa, che rivela la vera faccia criminale di Israele, del suo esercito e dello stesso Netanyahu».
Al di là della retorica, sappiamo che Hamas attualmente gode di un grande consenso da parte dei palestinesi. Ci puoi spiegare che cos’è questo movimento?
«È un’organizzazione politico-sociale palestinese, la cui storia è immersa negli anni ‘80 del Novecento. Hamas è cresciuta poi nei successivi anni ’90, soprattutto dopo il fallimento degli accordi di Oslo[2]. Poi, successivamente, nel 2006, vinse le elezioni democratiche a Gaza. Da quel momento, sappiamo tutti che gli U.S.A. ed Israele hanno posto la Striscia di Gaza sotto assedio.  Ma Hamas sicuramente ha avuto questo consenso a Gaza, perché rappresenta una resistenza concreta, soprattutto dopo la delusione del popolo palestinese per gli accordi Oslo e tutti i tentativi di pace promessi e siglati dall’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Hamas rappresenta una delle forze della resistenza palestinese, ma non è l’unica».
Quali sono dunque le posizioni politiche in campo sul fronte palestinese?
«Prima di rispondere alla domanda e parlare delle forze politiche che ci sono nella resistenza palestinese, vorrei ricordare al mondo intero che si dà per sottointeso che la guerra di Israele contro Hamas sia giusta, in quanto combattuta contro l’islamismo antioccidentale. Questa è un’altra strumentalizzazione voluta dall’Occidente. Dicendo che è in atto una guerra fra Israele e Hamas, si fa passare l’intero movimento di liberazione palestinese come compresso su posizioni islamiste. Vorrei ricordare che Israele ha sempre messo nella propria lista terroristica non solo Hamas, ma qualsiasi gruppo della resistenza palestinese, dai comunisti al Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP) fino ad arrivare all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Si presenta all’opinione pubblica una recrudescenza armata come se il problema nascesse solo adesso in Palestina e non fosse figlio di 75 anni anni di occupazione militare. Hamas stima che il bilancio ufficiale delle vittime da parte palestinese sia di 8000 morti, di cui circa la metà sono bambini**. Se confermate, queste cifre sarebbero terribili, da olocausto vero e proprio».
Tornando ai diversi schieramenti palestinesi, cosa puoi dirci?
«Per quanto riguarda le forze politiche religiose ci sono Hamas e la Jihad, ma ci sono anche la sinistra, il Fronte Popolare, il Fronte Democratico, il Partito comunista e altri gruppi minori che, tutti assieme, rappresentano la spina dorsale della Resistenza partigiana palestinese in questa fase storica. Tra l’altro, voglio sottolineare che, come popolo palestinese, ovunque siamo, sia nella Cisgiordania, sia nella diaspora, ma anche nei Territori occupati nel 1948, abbiamo raggiunto un’unità importante verso il sostegno alla nostra Resistenza, perché l’attacco è forte verso di noi. Infine, esiste Fatah, che è un’organizzazione politica nazionalista, laica, che dagli anni ’60 ai primi anni ’90 del secolo scorso guidò, assieme alla sinistra palestinese, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Ma, oggi, Fatah è divisa al suo interno tra una parte che risponde alle dirette politiche dell’Autorità politica palestinese e Abu Mazen».

Roma, 28 ottobre 2023. Un momento della manifestazione nazionale per chiedere lo stop dei bombardamenti a Gaza e sostenere la lotta di liberazione palestinese [Photo credit: Centro Culturale Handala Alì]

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha immediatamente sostenuto il governo israeliano. In questi giorni, sta circolando in rete un video con una sua dichiarazione del 1986, quando era senatore degli Stati Uniti d’America, in cui diceva che era giusto che Israele si espandesse con la forza in Medio Oriente, perché era una cosa funzionale agli interessi imperialistici nordamericani. Cosa significa?
«Questo sostegno ha delle radici più antiche del 1986. Sappiamo tutti come e per quale motivo nacque lo Stato di Israele, sostenuto da tutte le cancellerie occidentali. Israele nasce come una colonia dell’Occidente dentro il Medio Oriente. Tutti hanno interesse a difenderlo. È il «cane da guardia» del capitalismo angloamericano ed europeo nel Medio Oriente. Quindi, per loro è normale proteggere una colonia. Ricordiamo la promessa di Balfour[3] fatta ai sionisti con la nascita dello Stato d’Israele nella nostra terra. Israele rappresenta una base militare avanzata dell’America, della NATO, dell’Europa in Medio Oriente. Soprattutto oggi, per la situazione geopolitica in cui poi ci troviamo, sappiamo che questa guerra non rappresenta solo il popolo palestinese, ma ha un’infinità di implicazioni internazionali».
Quanto sono reali i rischi di un’estensione del conflitto ad altri paesi? «Non possiamo saperlo. I rischi ci sono. Tutto dipende dall’aggressore, da Israele e dai suoi alleati. Cioè, se continuano a spingere verso questo processo che sta avvenendo a Gaza, che è un genocidio vero e proprio, è molto probabile che il conflitto si estenderà a tutta la regione con risvolti imprevedibili. Però non sono molto convinta che, in questo momento storico, l’Occidente, l’America e Israele abbiano veramente le forze e la voglia di estenderlo. Più che altro, si ha l’intento di voler terrorizzare la gente. Nonostante questo, abbiamo visto un crescente consenso verso la Palestina soprattutto nei paesi arabi, ma anche nei paesi occidentali, con manifestazioni e cortei. C’è stata una mobilitazione a sostegno della causa palestinese in tutto il mondo, con forti critiche ai governi che appoggiano il massacro compiuto dall’esercito israeliano. Anche per questo non so quanto vi sia interesse ad allargare questo conflitto».
Perché la stampa e i media occidentali, secondo te, non informano su quanto sta realmente accadendo in Palestina?
«I media occidentali non hanno onestà intellettuale nei confronti dei loro colleghi arabi. È vergognosa la campagna di disinformazione che stanno facendo. Non hanno riportato, ad esempio, la notizia dell’uccisione della famiglia di un corrispondente di Al-Jazeera. Così come non hanno minimamente informato l’opinione pubblica sulle mobilitazioni per chiedere verità e giustizia sull’uccisione della giornalista Shireen Abu Akleh, colpita in modo diretto alla testa. E questa non onestà del giornalismo e della stampa occidentale puzza di disumanità. Vorrei veramente far arrivare questa voce a tutti i giornalisti mainstream: hanno il dovere di informare sugli omicidi compiuti nei confronti di loro colleghi da parte delle forze dell’esercito israeliano. Dallo scoppio di questa guerra, sono già stati uccisi ben 19 giornalisti».
Come ricordavi, in tutto il mondo ci sono state manifestazioni di solidarietà col popolo palestinese. Anche negli Stati Uniti cresce la mobilitazione, spinta, tra l’altro, da gruppi ebrei come Jewish Voice for Peace e If Not Now, che protestano contro il massacro portato avanti dal governo israeliano. In Israele esistono proteste analoghe contro le politiche del governo Netanyahu?
«Come palestinesi apprezziamo molto il sostegno da parte delle organizzazioni degli ebrei che stanno al fianco del nostro popolo. Colgo l’occasione per sottolineare una cosa molto importante, su cui spesso si tenta di alimentare discordia e confusione: noi non ce l’abbiamo con gli ebrei. Spesso veniamo accusati di essere antisemiti. Il che è una cosa assurda se si pensa che noi stessi siamo gente di stirpe semitica. Poi, voglio ricordare che in Palestina gli ebrei ci vivevano già da lungo tempo, prima che venisse creato lo stato di Israele. E tengo a ribadire che non è una questione di diatriba religiosa quella che è emersa da oltre 75 anni. Come in America, pure in Israele esiste una minoranza che si oppone al massacro in atto, ma viene repressa di continuo con decine di arresti arbitrari. Attualmente, ci sono delle manifestazioni da parte delle famiglie degli ostaggi, soprattutto dopo le dichiarazioni che sono state fatte dal governo israeliano, che non ha espresso alcun interesse per la vita degli ostaggi catturati da Hamas. Però, queste manifestazioni vengono sempre represse, perché per quanto si voglia dire qui in Occidente che Israele è uno stato democratico, ricordiamo che in primis è uno stato che dichiara di essere ebraico (quindi, a vocazione confessionale) e poi effettua una repressione sistematica sulla stampa, sulle manifestazioni, sulle associazioni pacifiste. Quindi questi gruppi, anche se esistono, non hanno vita facile».
Anche il governo Meloni appoggia la politica armata di Israele. In un documento approvato dal Parlamento italiano, che si chiama “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione importazione e transito dei materiali di armamento”[4] si evince che, tra il 2013 e il 2022, le aziende italiane hanno venduto al governo israeliano armamenti per un valore pari a quasi 120 milioni di euro in media, cioè circa 12 milioni di euro all’anno. È per questo che l’Italia si è schierata a favore di Israele? «Sicuramente sappiamo che la questione economica e la vendita di armi potrebbe essere un motivo. Però l’appoggio del governo Meloni, come la maggior parte dei governi occidentali pro Israele, non credo sia causata solo da interessi economici e vendita di armi. Perché questo appoggio non nasce adesso. Israele è stato creato grazie al sostegno dei governi europei e occidentali. Sicuramente oggi c’è una paura da parte dei governi occidentali che Israele possa perdere le proprie forze in Medio Oriente, il che significherebbe perdere la loro colonia, il loro avamposto militare avanzato».
In Italia, abbiamo visto delle manifestazioni molto partecipate in sostegno della Palestina. Pochi giorni fa, decine di migliaia di persone hanno sfilato a Roma. Anche a Napoli e in altre città sono in corso numerosi eventi e si sono tenute manifestazioni molto nutrite. Come leggere questo fenomeno secondo cui i governi protendono per Israele, mentre la gente in strada dà il proprio sostegno alla Palestina?
«In Italia, c’è uno storico sostegno verso il popolo palestinese. Soprattutto a Napoli, questo legame è forte e antico. I napoletani, almeno una buona parte, sono al fianco dei palestinesi. Per quanto i media e i governi vogliono nascondere questa aggressività, questo genocidio che si sta compiendo a Gaza, con vittime che aumentano ogni minuto, la solidarietà cresce. Di sicuro una parte importante del popolo italiano non è indifferente al tema e si sta mobilitando per due motivi. Uno è l’umanità. Si calcola che ogni 5 minuti muoia un palestinese. Stiamo parlando di un massacro talmente grande che fa rabbrividire ed è privo di qualsiasi senso di umanità. A Gaza, la gente è senza acqua e gli ospedali stanno rimanendo senza elettricità. Quindi si sta andando ben oltre la rappresaglia militare. Siamo al terrore sulla popolazione civile. Questo è un vero e proprio genocidio. Nonostante i media ufficiali provino a nasconderlo, come palestinesi nella diaspora e pure a Gaza stiamo cercando di far sentire la nostra voce e far emergere la realtà dei fatti. A prescindere da tutto, non si può appoggiare un crimine del genere, quando si parla di 3450 bambini uccisi***».

Uno spezzone della manifestazione nazionale del 28 ottobre a Roma [Photo credit: Centro Culturale Handala Alì]

Qual è l’altro motivo per cui molte persone solidarizzano con voi? «Penso che la questione palestinese non sia soltanto una lotta di liberazione, ma una lotta contro l’impero, contro il colonialismo e l’imperialismo. Quindi, credo che in questo tanti dei nostri amici e compagni in altri popoli si ritrovino, perché comunque la nostra è una lotta di classe, una lotta contro delle forze imperialistiche che rifiutiamo come forma di oppressione per noi stessi e per altri popoli».
Tra le sigle che a Napoli stanno spingendo la mobilitazione di solidarietà verso il popolo palestinese, c’è il Centro culturale Handala Alì. Ci puoi spiegare che cos’è, qual è la sua attività e quali si suoi rapporti col resto della comunità palestinese in Campania?
«La nostra è una realtà politica e culturale che nasce tre anni fa, in seguito alla scomparsa del nostro fratello, amico e compagno Alì Oraney. La sua è stata una figura carismatica, che ha tentato in più occasioni, e per prima, a costruire un ponte tra Palestina e Napoli. Alì portò la causa palestinese a Napoli già negli anni ’80. Dopo la sua scomparsa, il Centro culturale Handala Alì ha deciso di rilevare il suo bazar e trasformarlo in un’associazione. Tra l’altro questa associazione culturale era già in programma quando Alì era ancora in vita, ma che purtroppo non è riuscito a veder realizzata. Questo ha portato noi compagni ad essere ancora più decisi nel realizzarla». 
Di cosa vi state occupando?
«La nostra idea, ovviamente, è di parlare della causa palestinese, continuando a riportare la nostra voce tramite gli eventi culturali, per rispondere ai crescenti attacchi mediatici nei nostri confronti. Quindi ci serve far conoscere la nostra causa, perché sappiamo che stanno tentando di falsificare la verità, cancellare la memoria e raccontare un’altra storia sulla Palestina. Col tempo, avevamo notato che c’era una carenza in città della conoscenza della causa palestinese. Questo ci ha portato ad aprire questo un Centro culturale e a organizzare le nostre iniziative». 
A chi vi rivolgete?
«Soprattutto alla nuova generazione tramite gli eventi culturali, presentazione di libri e film. Stiamo creando un ponte tra i giovani palestinesi e i giovani napoletani. Ultimamente, a luglio, abbiamo fatto venire qui degli artisti palestinesi per farli conoscere ai ragazzi napoletani. Il nostro obiettivo è raccontare la nostra storia a 360 °, aiutando i giovani tramite i seminari e tante attività a far conoscere la nostra causa».
Che rapporti ci sono tra Autorità nazionale palestinese e Hamas?
«Non corre buon sangue non solo tra Hamas e Anp, ma tra il popolo palestinese e l’Anp. Il tutto nasce dal fallimento degli accordi di Oslo e, dopo 30 anni che si parlava di questi accordi, abbiamo visto che questo processo non ha portato nulla di positivo per i palestinesi. Anzi, ha portato solo guerra, massacri continui, maggiore colonizzazione da parte degli israeliani dei nostri territori. Quindi è aumentata una divergenza politica tra l’Anp con tutto l’arco della Resistenza palestinese. L’Anp ha una base politica importante perché sappiamo tutti che l’autorità palestinese ha stipulato degli accordi di sicurezza con Israele in Cisgiordania, accettando di svolgere un ruolo di repressione contro il nostro popolo. Per questo, ormai, oggi non ha più autorevolezza ai nostri occhi. Motivo per cui Hamas poi non ha voluto neppure indire le elezioni. Queste divisioni, dunque, attraversano tutto l’arco della Resistenza ed il popolo palestinese, soprattutto il movimento dei giovani, ispirati a una consapevolezza e una nuova visione del problema. Tra noi c’è il rifiuto di questi accordi di sicurezza. L’Anp non ci rappresenta e su questo siamo abbastanza uniti come popolo».
Alcuni sostengono che una figura carismatica potrebbe ricucire le divergenze sorte in seno alla resistenza palestinese. Marwan Barghouti, che è stato tra i leader della prima e della seconda intifada, detenuto nelle carceri israeliane, potrebbe rivestire questo ruolo? «Stiamo parlando dei nostri prigionieri politici. Voglio ricordare che attualmente ci sono 7.000 prigionieri politici palestinesi reclusi nelle carceri israeliane. Tra l’altro, contro la Convenzione di Ginevra, questi sono detenuti in territorio israeliano. Dal 7 ottobre, giorno dell’offensiva israeliana, in Cisgiordania sono stati arrestati oltre 1500 palestinesi. Nella zona dei territori occupati nel ‘48 c’è una repressione importante con oltre 100 di carceri israeliani. Questo per dire che, con tutto il rispetto per i nostri prigionieri politici, che sono le nostre compagne i nostri compagni, le nostre donne e i nostri bambini, sembra un po’ riduttivo dire che le questioni delle divisioni nella nostra lotta di liberazione dipendano dalla scarcerazione di una figura di un importante prigioniero politico. Le divisioni hanno una ragione profonda, si tratta veramente di due piani antitetici che trattano la causa palestinese. Israele, l’Occidente, l’America, l’Europa – assieme all’A.N.P.- sono contro la resistenza del nostro popolo. Quindi, sono convinta che il nostro popolo, unito nella sua resistenza, proverà a superare questi problemi. Non la metterei nei termini che basta l’ascesa di un leader solo al comando, perché la vedo come una lettura riduttiva e fuorviante. Occorrono processi collettivi».

Alì Oraney nel suo bazar, adibito dopo la sua scomparsa a spazio per le attività culturali di giovani palestinesi e napoletani [Photo credit: Centro Culturale Handala Alì]

L’Occidente è rimasto scosso dalle immagini atroci del bombardamento dell’ospedale Al-Alhi Arabi Baptist di Gaza dove ci sono state almeno 500 vittime e migliaia di feriti. Gaza, in questo momento, vive sotto un vero e proprio assedio e con la minaccia continua d’invasione militare dell’esercito israeliano. Cosa possiamo fare in concreto per solidarizzare con il popolo palestinese in questo momento?
«Quello che chiediamo ora, lo stiamo dicendo da anni. Il modo migliore per stare al nostro fianco, in primis, è contrastare i vostri governi occidentali, chiedendo loro di cessare il fuoco e di fermare questo massacro, arrestando la vendita di armi ad Israele, finanziata coi soldi degli italiani e degli europei. Chiediamo di fermare subito questo genocidio a Gaza, aprendo alla possibilità di ingresso degli aiuti umanitari e rimuovendo l’embargo. Chiediamo pure a tutta la popolazione di sostenerci e di stare con noi nelle piazze, com’è successo nella manifestazione nazionale del 28 ottobre a Roma, sostenendo il nostro popolo nelle sue rivendicazioni, nella lotta per la sua autodeterminazione».
Secondo te, è ancora plausibile lo slogan “due popoli-due stati”?
«Per rispondere, bisogna guardare al fallimento degli accordi di Oslo e di tutti i trattati di pace che sono stati stipulati finora. Sembra che la pace debba esistere solo per una delle due parti in lotta e non per tutti. Non ci può essere la pace senza una vera giustizia. Non possiamo prendere in considerazione degli accordi di pace avendo oltre 7.000 prigionieri politici detenuti, né contemplare pace finché Gaza vivrà sotto assedio e verranno bombardati ospedali, case e scuole. Il popolo palestinese e i movimenti della resistenza non possono credere realmente a queste intenzioni di pace, con due stati per due popoli, finché perdureranno queste violenze. Noi abbiamo chiesto per anni e chiediamo ancora il rispetto del diritto internazionale. E come l’ha rispettato Israele? Aumentando le colonie intorno a Gaza e in Cisgiordania senza nessun rispetto del diritto internazionale? Di sicuro, noialtri abbiamo la consapevolezza di avere un nemico che non ha alcuna intenzione di avere una pace giusta».
Chi è dunque che avversa la pace in Medio Oriente?
«Il nostro nemico non è solo Israele.  Quando parliamo di Israele includiamo ovviamente anche i suoi alleati, cioè l’America e l’Europa, che non hanno nessuna intenzione di raggiungere una pace giusta. Quando si parla di due stati ci sembra un po’ una presa per i fondelli. Per questo chiediamo soprattutto il rispetto del diritto internazionale. Non siamo più disposti ad accettare condizioni umilianti. Voglio poi porre all’attenzione un’altra cosa. Prima del 7 ottobre, si parlava solo della guerra tra Ucraina e Russia. Non si parlava per nulla della questione palestinese. Per oltre 75 anni, noi palestinesi abbiamo dato la vita, abbiamo un numero di martiri e di vittime infinito, oramai. Ma tutto questo è caduto nell’oblio e nel silenzio più assurdo da parte di tutta la comunità internazionale e i mezzi di comunicazione. Quindi, sembra che adesso si sia di nuovo risvegliata la questione palestinese. Vogliamo di nuovo provare in tutti i modi, con tutti gli strumenti di resistenza, a far sentire la nostra voce e dire che noi non crediamo più in questi accordi, in queste promesse di pace unilaterali, senza un’idea di giustizia al fondo».
La filosofa e attivista afroamericana Angela Davis sostiene che la lotta del popolo palestinese, in particolare delle donne, tra i vari significati, porti in dote una battaglia contro il gigantesco apparato penitenziario-industriale costruito dal capitalismo occidentale, che negli Stati Uniti, ad esempio, opprime gli afroamericani. Netanyahu, invece, sostiene che il popolo palestinese intenda costruire uno stato terrorista e oscurantista islamico, fatto da “animali umani”[5]. Qual è il ruolo delle donne, dei giovani e anche dei bambini nella lotta di liberazione palestinese?
«Il ruolo delle donne palestinesi non nasce oggi, come tutta la resistenza palestinese. Le nostre donne sono state sempre in prima fila nella lotta. Tra l’altro, a proposito di questo, proprio come Centro culturale Handala Alì abbiamo pubblicato una lettera rivolta al movimento femminista europeo sulla questione della lotta delle donne. Come compagne palestinesi siamo deluse da questo silenzio da parte di questi movimenti, perché ci sembrano intrappolati nella visione di un femminismo bianco occidentale che ancora non ha accolto al 100% il nostro ruolo come donne. Hai fatto bene a collegare ciò che ha detto Angela Davis con quello che ha dichiarato Netanyahu. C’è purtroppo la volontà di assimilare la resistenza palestinese, le sue donne, i suoi bambini al solo movimento di Hamas o alle realtà religiose. Qualche giorno fa, hanno arrestato a Marsiglia, in Francia, la nostra compagna Mariam Abbou Daqqa, del FPLP. Ed è solo l’ultimo episodio, perché negli ultimi anni ci sono stati molti arresti alle nostre compagne, in particolare della sinistra palestinese, che animano nella diaspora movimenti di solidarietà con la causa palestinese. C’è una volontà di sminuire la nostra Resistenza collegandola alla religione, ma il ruolo delle donne e delle giovani donne in particolare è fondamentale per la nostra lotta. Nella diaspora, la maggior parte delle manifestazioni sono guidate da donne, dalle nostre compagne. Il ruolo della donna palestinese è difficile da riassumere e non può essere messo fra parentesi».
Se potessi rivolgere un appello, cosa chiederesti alle donne occidentali? «La resistenza palestinese esiste, perché esiste la donna palestinese. La resistenza è donna, perché le nostre mamme allattano resistenza. Quindi, per un secondo, vorrei invitare tutte le mamme, tutte le donne, a mettersi nei panni delle nostre sorelle e mamme a Gaza, perché vedere i propri figli, vedere i propri mariti uccisi o vedere uccise le donne incinta, che sono tantissime, è atroce. Sicuramente, le nostre donne hanno avuto un ruolo importante a partire dagli anni ‘30 del Novecento, ma oggi ricoprono una funzione chiave nella resistenza partigiana e nella lotta contro le tenebre. Non voltate la testa dall’altra parte. Uniamoci e mobilitiamoci contro chi vuole guerra, sopraffazione e terrore».

PER APPROFONDIRE:

*https://www.fnsi.it/rsf-israele-soffoca-il-giornalismo-a-gaza

**https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2023/10/29/ministero-hamas-oltre-8.000-morti-nella-striscia-di-gaza_eb930054-bdd4-47ac-8ad4-082a0e9ea133.html#:~:text=%22Il%20bilancio%20delle%20vittime%20legate,(ANSA%2DAFP).

***https://www.unicef.it/media/gaza-e-diventata-un-cimitero-per-migliaia-di-bambini-per-tutti-gli-altri-e-un-inferno/#:~:text=I%20numeri%20sono%20spaventosi%3A%20si,oltre%20le%20bombe%20e%20i%20mortai.

https://ilmanifesto.it/usa-ebrei-pacifisti-invadono-il-congresso-arrestati-in-300

https://www.avvenire.it/mondo/pagine/uccisa-shireen-abu-akleh-giornalista-di-al-jazeera-e-stata-uccisa-in-cisgiordania

LETTERA DELLE DONNE PALESTINESI AI MOVIMENTI DELLE FEMMINISTE EUROPEE:

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=pfbid07BZhj1pi9LsgvXbHfhaeLUtj4sitPdzoLhc45J3VuVUhPh31WxNtPcMAgCa2r8Usl&id=100064811288102

NOTE

[1] Hamas è un acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, che tradotto vuol dire: “Movimento islamico di Resistenza”. Fu fondato nel 1987 come braccio operativo dei Fratelli Musulmani. I leader storici sono stati lo sceicco Ahmed Yassin, prima, e Abd Al-Ziz al-Rantisi. Il movimento, di ispirazione islamista sunnita, è costituito da una componente politico-religiosa e da un’ala militare, le Brigate Ezzedim al-Qassam. Lo sceicco Ahmed Yassin, leader spirituale di Hamas, venne scarcerato dal governo israeliano il 1°ottobre 1997. (cfr.: “Palestina, storie del tempo e dello spazio”, a cura di R. Esposito, G. Pisa, L. Criscitiello,)

[2] Per Accordi di Oslo (Norvegia) si fa riferimento a due distinti protocolli. Il primo, ribatezzato Oslo I, risale al 13 settembre 1993 e venne firmato dal premier isrealiano, Itzak Rabin, e da quello palestinese, Yasser Arafat. La Dichiarazione dei Principi prevedeva il ritiro di Israele da Gaza e da Gerico, un accordo sulla sicurezza, un protocollo sulle relazioni economiche e un accordo di cooperazione su Gerusalemme Est. Il secondo protocollo, passato alla storia come Oslo II, venne firmato il 28 settembre 1995 a Washington, alla presenza del Presidente U.S.A., Bill Clinton, e di quello egiziano Hosni Mubarak, nonché degli stessi Arafat e Rabin. Questo secondo accordo prevedeva l’estensione dell’autonomia della Cisgiordania, suddivisa in tre aree: Zona A, sotto amministrazione palestinese; Zona B, a controllo misto; Zona C, a controllo israeliano. Il 4 novembre dello stesso anno, Rabin venne assassinato dallo studente di estrema destra, Yigal Amir. Il graduale passaggio di poteri da Israele all’Autorità nazionale palestinese non è mai avvenuto.

[3] Il 2 novembre 1917, il governo britannico rilasciò una breve dichiarazione, conosciuta con il nome del ministro degli esteri, Arthur James Balfour, con la quale si impegnava a sostenere la costituzione di un «focolare nazionale» per il popolo ebraico in Palestina. Aveva così inizio il coinvolgimento di Londra in Medio Oriente: la Gran Bretagna avrebbe avuto un ruolo determinante nelle vicende della regione fino alla Guerra del Canale di Suez del 1956, che avrebbe segnato la fine della presenza anglo-francese e l’arrivo della Guerra fredda. La Dichiarazione Balfour segnò al contempo l’inizio della collaborazione politica tra Londra e il movimento sionista.

[4] Il documento è consultabile a questo link: https://documenti.camera.it/leg19/dossier/pdf/ES0109.pdf

[5] L’espressione è stata utilizzata in conferenza stampa dal Ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, il 10 ottobre 2023: «Niente elettricità, niente cibo, niente benzina, niente acqua. Tutto chiuso. Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza» (cfr:: https://www.lastampa.it/esteri/2023/10/09/video/combattiamo_contro_degli_animali_umani_e_agiamo_di_conseguenza_il_ministro_della_difesa_israeliano_annuncia_lassedio_di_-13772988/)

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